"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

giovedì 2 giugno 2011

Scarpe.

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Mi chiamo Tacco. Oddio, dovrei dire che siamo in due, ma io quello lì, quello a sinistra mica lo guardo mai.E' mio fratello, si chiama Tacco pure lui, ma siamo separati dalla nascita. E per fortuna, direi, perché non ci siamo mai presi troppo in simpatia. Può darsi sia una questione politica di destra e sinistra, io non lo so. Fatto sta che quando andiamo in giro, non mi molla mai. Non faccio in tempo ad alzarmi, che subito si alza anche lui. Allora io mi abbasso, e dopo poco eccolo lì, che si abbassa pure lui. Se faccio un passo, lui mi segue a ruota, e va a finire che me lo ritrovo così vicino, che non ce la faccio proprio, devo spostarmi per forza. Non c'è verso di lasciarlo indietro, giusto per godersi cinque minuti di pace. Io coi miei pensieri da tacco, in solitudine.Io poi sono un tacco serio, uno di quelli bassi e goffi e tozzi. Mica di quelli alti, slanciati, eleganti che fanno una vita scombinata, escono soltanto di notte, vanno sempre a ballare con chissà quanti altri tacchi, e poi si ritrovano ubriachi, sdraiati su un fianco, ai piedi di un letto mai visto. E gli tocca pure assistere a situazioni quasi sempre imbarazzanti. Almeno per un tacco.Io no, io faccio una vita piuttosto regolare e mi va bene così. Dopo una buona notte di sonno, ogni mattina un filo di lucido, mi struscio contro le setole della mia spazzola e via giù per le scale di marmo. Non che le preferisca alla moquette dell'ascensore, ma, sapete, a volte ho la sensazione che non sia io a decidere dove andare. E' come se qualcuno scegliesse per me. A volte mi piacerebbe uscire dal portone, soprattutto quelle mattine di sole che adesso cominciano a farsi vedere di nuovo, e girare a sinistra. Butto un occhio tutte le mattine, chissà che c'è di là. Mi fermo un momento, indeciso. Ci penso e ci ripenso, poi qualcosa mi porta dall'altra parte, quella solita. Quella che ormai conosco benissimo. Passo davanti all'edicola, mi fermo un momento per riposare, poi via, devo riprendere di nuovo la stessa strada.E' confortante, ve lo confesso. Conosco esattamente ogni buca, ogni tombino, ogni avvallamento. Ormai conosco i semafori e ho sempre la sensazione di sapere quando e dove fermarmi. Le uniche sorprese che cerco di evitare sono le cacche di cane, e devo dire che ci riesco sempre. Quell'altro no, invece. Lui è più distratto.Una volta l'ho visto affondare fino al collo in una cacca enorme, e non sapevo se ridere o staccarmi dal disgusto. E lui per ripicca ha passato il resto della giornata di fianco a me, andando su e giù nervosamente.Oggi per fortuna la strada sembra pulita, qualche mozzicone, ma a quelli ormai ho fatto l'abitudine, così come alle gomme da masticare. Che poi tanto da masticare non sono, una volta che te le ritrovi per strada.Arrivo finalmente in ufficio, mi sento un po' stanco, come se reggessi su di me tutto il peso del mondo.L'ufficio mi piace, i suoni mi arrivano come dietro all'ovatta, e posso passare tutta la giornata ad osservare il mio mondo basso basso. Intorno a me ci sono tante suole. Sapete quelle di gomma o di cuoio o di legno, così basse che strusciano e strisciano per tutto il pavimento? Ecco, quando mi fermo ad osservarle, io mi sento alto come un quindici. Da noi si dice così. Quanto sarà basso quello? Secondo me non arriva a un sette? Guarda quello quanto è alto, sembra un dodici! E quando noi tacchi ci sentiamo felici, si dice che stiamo un quindici. Tranne quello lì a sinistra. Quello sta sempre un tre.Che poi secondo me è tutta un'invenzione, io di quindici veri non ne ho mai visti, eppure ho girato molto, ne ho visto di piatti, di magri come uno spillo, di grassi e consumati, ne ho visti di rotti e zoppi, e anche di morti. Già, morti. Abbandonati per strada, lì da soli.Ma oggi è una giornata di luce, e voglio solo pensare a tornare a casa, rifare al contrario la stessa strada di tutti i giorni, osservare tutti gli altri tacchi che corrono frenetici, mentre io me la prendo comoda. E poi fermarmi davanti al portone, guardare a destra e a sinistra, infilare la porta e arrampicarmi sugli scalini, fino a casa mia. Adoro il rumore che faccio sul parquet, mi fa sentire importante. Mi fa sentire uno di quei tacchi d'altri tempi, che prendevano decisioni importanti.Io invece mi ritrovo non so come, di notte, a chiudermi nell'armadio, stretto in mezzo ad altri tacchi e con quello lì sempre attaccato, che mi dorme quasi addosso. Uno di questi giorni gliela faccio vedere io. Esco di notte, scendo le scale e me ne vado a sinistra.

2 commenti:

  1. Dura la vita dei tacchi...sembra la nostra, quella che viviamo tutti i giorni.Riccardo,non posso che farti i complimenti per questo nuovo bel racconto.

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