"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

giovedì 29 novembre 2012

Il tempo dell'attesa


16.30, solito bar. Il caffè amaro è una riscoperta, i tavoli beige una costante. Punti fissi per gli occhi, da qualche anno persi nell’andirivieni di una città che non ha riposo, che è in continuo movimento. E’ molto che aspetti?Avevo dimenticato l’appuntamento. E’ che mi perdo dentro me stessa, e mi ritrovo, poco dopo, nell’incontrare uno sguardo che tacendo si racconta. In città, un caffè e le emozioni che cercano, confuse, il loro posto. In mezzo alla gente, in mezzo a tante parole che non dicono niente, un caffè. In un caffè sguardi rallentati e pensieri. Pensieri sospesi in equilibrio instabile, annebbiati e confusi, svelati e celati nella guerra, pur assopita, d'un gioco di ricordi.
Alle 16.30, a Novembre, il cielo ha ancora bei colori, tiepidi. C'’è un momento, quando la notte si veste e si fa bella prima di uscire, in cui i colori non sono distinguibili, la luna velocemente si impone e il vento cambia lentamente la sua direzione. L’accennarsi del freddo della sera, il vapore della tazzina ad offuscare corrispondenze di sguardi. Nulla di definito, niente che avesse un nome, o una definizione, così come spesso accade, eccetto il mio caffè amaro.
Un caffè alle 16.30 è una riscoperta; i tavoli beige una costante, quell'escamotage buono nell’imbarazzo di dire. Ci sediamo?Allora? E’ molto che mi aspetti?Si finge sempre, m’hai detto una volta. Non c’è confine tra la verità e la menzogna. No, sono appena arrivata. Ho visto solo l’imbrunire dentro uno sguardo ed un futuro da costruire, alle 16.30 di un qualunque venerdì pomeriggio.
E’ che è molto che mi aspetto. E’ che mi sto ancora, dannatamente, aspettando.

la foto

Sopra un foglio di carta lo vedi il sole e' giallo
ma scolorira'
e se piove due segni di biro ti danno un ombrello
che scolorira'
basta fare un bel cerchio ed ecco che hai tutto il mondo
che scolorira'. Che scolorira'.
Acquarello, Toquinho


LA FOTO


Era lunedì, me lo ricordo benissimo.
L’Inter aveva vinto 2 a 0 con la Juventus a Torino, nel posticipo della domenica; quelle giornate li non te le puoi dimenticare.
Il classico risultato che non concede appello, un goal per tempo: al 23° tiro dal limite di Cambiasso e al 67° raddoppio di Crespo, appena entrato: un’incursione sulla destra di Maicon, cross basso e tiro secco a pelo d’erba nell’angolino; i gobbi erano ormai piegati, il resto fu una passeggiata fatta di passaggi fitti e possesso di palla.
Era lunedì non mi posso sbagliare.
Era inverno (14° giornata del girone d’andata), io, infagottato nel mio giubbotto pesante, ero passato, come tutti i lunedì, in edicola a prendere la gazzetta.
Mi pregustavo il momento in cui sarei entrato in fabbrica, sventolandola in faccia a tutti i conigli bianconeri dell’officina.
La cosa insolita era che avevo tempo; al contrario di tutti gli altri giorni, nei quali dovevo spingere sui pedali come Cipollini in volata, per non timbrare in ritardo il cartellino, quella volta ero uscito di casa prima, avevo avuto persino il tempo di salutare mia moglie e quei perditempo dei miei figli.
Mi ricordo: - Ciao amore, vado. Voi due, mi raccomando, fate i bravi.- la mattina a casa mia, non è come quella del mulino bianco, dove tutti sono contenti, ridono e scherzano; a casa mia solo grugniti, monosillabi e baci stanchi, usati, solo parole vuote, perse nel nulla della nebbia mattutina.
Senza contare, poi, che in casa mia, quelle figone della pubblicità non ci sono mai state, Si, la Silvia da giovane poteva dire il fatto suo, ma adesso, dopo diciotto anni di matrimonio e due figli sfornati uno dietro l’altro, non era più quel gran bel vedere, soprattutto la mattina presto.
Oddio, neppure io sono un figurino, due o tre taglie in più e qualche milione di capelli in meno, ma si sa, gli uomini invecchiano meglio…
Comunque, avevo del tempo.
L’edicola era semivuota e si respirava quell’odore di giornale fresco di stampa.
Il vecchietto davanti a me trafficava con il suo portamonete, rovistando in cerca degli spiccioli, normalmente avrei sacramentato, scalpitando come Ribot sulla linea di partenza, ma quella volta avevo il tempo di guardarmi attorno.
Fu così che la vidi.
Mi colpì come un diretto di Tyson in pieno volto.
Era mollemente appoggiata tra le altre, ma spiccava, lucida, patinata, fu un vero e proprio shock.
Mi sentii attirato verso lei e così senza quasi rendermi conto, allungai la mano, la toccai, era liscia, leggera; non ci pensai due volte, la presi immediatamente dallo scafale su cui era riposta.
Quella rivista era li che aspettava solamente me; la posi sulla mensolina di ceramica insieme alla gazza, come era grossolana nei suoi confronti, con il suo rosa dozzinale e i suoi caratteri cubitali.
Pagai ed uscii dal negozio.
Come un bambino davanti all’albero di Natale colmo di regali, ero frastornato, sette euro e venti, cazzo, avevo speso sette euro e venti centesimi per quella rivista.
Però quella foto in copertina, mi aveva spiazzato, come una finta di Baggio, non pensavo che sarebbe potuto succedere, non dopo tutto questo tempo e dopo tutto questa caligine.
La foto era di quelle pesanti, di quelle che ti fanno drizzare i peli delle braccia, che ti fanno percorrere il corpo di brividi, di piacere s’intende.
Quei colori, quelle forme ti prendono l’anima e te la tirano su dal profondo dove tu l’avevi cacciata, fino quasi a farla sfuggire; per quello che tremi, perché, lo sai benissimo che non può succedere che l’anima voli via per una fotografia, però è quello che provi.
Come in quei film del terrore, che piacciono tanta alla Silvia, vedi avanzare il protagonista verso la cantina, buia e piena di mostri che vogliono mangiarselo, tu gridi: “ Non andare, pirla, la c’è il mostro, ti sta aspettando per divorarti” ma tanto è inutile, lui ci andrà, aprirà quella cazzo di porta e verrà sbranato.
Tu, sai già tutto quello che succederà, pero non puoi fare a meno, per un attimo, di avere paura, poi ti dispiacerà, ma alla fine, penserai “ beh, se sei un pirla allora, te lo meriti di essere massacrato dal mostro.”
La foto dicevo, tutte quelle curve morbide messe li dal caso, disposte in modo da accompagnare lo sguardo in tutte le direzioni, da perdersi, che meraviglia.
I colori, poi, ti fanno letteralmente impazzire, sono tanti e di tutte le tonalità: dall’oro della sabbia all’azzurro del mare, passando per il verde smeraldo della vegetazione.
Il caso? Io non è che sono molto di chiesa, però mi pare difficile che tanta bellezza sia solo frutto del caso, va bene l’erosione dell’acqua e del vento, ci sta pure qualche bel cataclisma naturale, ma più la guardo e più mi convinco che quella statua del Gesù Cristo, lì ci sta proprio bene.
Negli spogliatoi della fabbrica, dato che avevo tempo, mi soffermai su quella magia, socchiusi gli occhi per un secondo e varcai i bordi di quel fotogramma… diciotto anni fa.
Già dall’aereo Rio De Janeiro mi sembrava fantastica, anche la Silvia lo era, seduta acconto a me era ancora messa giù da corsa del giorno prima, tutte e due eravamo stanchissimi ma eccitatissimi, era il primo giorno di luna di miele, era un sogno che si realizzava, ci aspettava il Brasile.
Che spettacolo, Rio ci accoglieva al massimo del suo splendore, i colori, le luci. La gente… beh, si, di nascosto dalla Silvia buttavo gli occhi su qualche bel culo di quelle parti.
Nella mia vita il colore predominante era sempre stato il grigio, tranne il lunedì che diventava rosa Gazzetta dello sport, lì invece ogni giorno era di un colore diverso, mille colori diversi, come i fuochi d’artificio della festa della parrocchia.
L’allegria di quei giorni non l’avremmo più provata, neanche quando nacque il Giorgio, si eravamo contenti ma anche un po’ spaventati, lì invece non avevamo paura di nulla, tuda joia, tuda beleza.
Seppur lentamente i quindici giorni di licenza matrimoniale passarono e tornammo alla normalità, per quanto insopportabile possa essere, ci si abitua, i soliti gesti, le solite cose, insomma la nostra vita.
Quel giorno però, la rivista da sette euro e venti centesimi, quella foto in copertina, avevano compiuto il miracolo.
Dapprima ero in stato confusionale, completamente suonato, come Cassius Clay, poi il lampo.
Mi colse una sorta di lucidità, una consapevolezza, sapevo cosa fare e come farlo.
Chiamai quel pirla del mio caporeparto, gli dissi che stavo male(ed era vero) e che sarei andato a casa. Inforcai la bicicletta e corsi via.
Una doccia mi mise sulla strada giusta, non c’era nessuno, i due desperados erano a scuola e la Silvia era da sua madre, tanto faceva il secondo e aveva già preparato il minestrone per la sera.
Quell’odore di verdura cotta, misto alla puzza di stantio della mia vita, fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Mi sentivo come l’Italia dell’ottandue: dopo un girone di qualificazione scialbo e senza sostanza, la riscossa verso il titolo iridato, guarda caso passando proprio per il Brasile.
La seconda tappa fu la banca.
Il cassiere, un damerino in giacca e cravatta, rivestito di lucido per nascondere la sua polvere di quotidianità; fatta di invidia verso i colleghi e voglia, inconfessata, di farsi quella dei titoli, mi chiese il perché volessi ritirare tutti i soldi, se per caso non ero soddisfatto dei loro servizi, se desideravo parlare prima col direttore… risposi chiaramente ad ogni sua obbiezione.
Spiegai tutto con una lucidità che mi faceva paura, non mi riconoscevo, io davanti alle giacche e alle cravatte sono sempre stato intimorito, invece quel giorno filai via dritto che neanche Schumacher mi avrebbe ripreso.
Prosciugai il nostro conto corrente.
Li ritirai tutti, fino l’ultimo centesimo, dodicimila cinquecentoquarantotto euro virgola settantadue.
Diciotto anni di risparmi e privazioni.
Sarebbero bastati per cominciare, poi mi sarei fatto mandare la liquidazione e avrei messo su un bel gruzzoletto… povera Silvia come avrebbe fatto ad andare avanti, no, non senza di me, per quello sarebbe stato forse meglio, senza una lira però… per un momento vacillai nei miei propositi; poi alzai lo sguardo sul cassiere, sul suo colore grigio, sulla sua patina indelebile di fuliggine, fugai immediatamente quel rimorso misi i soldi nella valigetta e corsi a Linate, il primo aereo sarebbe stato mio.

Sono qui da un po’, tutto è come me lo aspettavo: i colori, i suoni , la gente, persino i culi delle ragazze sono gli stessi di diciotto anni fa.
Ho già girato quasi tutto Rio, ed è solo l’inizio, il Corcovado, le spiagge di Ipanema, il pao da asucar,
il Maracana…i vicoletti.
Tutto è come allora tuda joia, tuda beleza .
Questa zona però, non me la ricordo, li in quel angolo avrebbe dovuto esserci quella stupenda chiurrascheria , dove si mangiava una carne da favola, altro che quella piemontese della Coop.
Non c’è più? e quel campetto spelacchiato? Sono sicuro non c’era; Si cosa vuoi ragazzino” eu no falo brasilero” , ah una sigaretta, toh tieni tutto il pacchetto, menino, ma attento che alla tua età non ti fa mica tanto bene.
Cos’è questo rumore alle mie spalle? Un colpo secco, delle grida, sarà un anticipo del carnevale.
Brr, d’un tratto mi è venuto freddo, deve essere la brezza del mattino che sale dall’oceano.
Appena trovo una bancarella mi comprerò una bella felpa.
Non sento più le mani, cazzo neanche le braccia, sudo?
Mi gira la testa, mi cedono le gambe, devo fermarmi un momento.
Magari mi sdraio; tanto siamo a Rio, mica a Milano che la genti ti guarda male appena fai qualcosa che non devi.
Che strano, sento tutto il corpo formicolare come se mille mani mi toccassero, come se stessero cercando qualcosa su di me…
Che bello è proprio tutto come me lo aspettavo, come nella foto, come diciotto anni fa
Sono stanco, mi sento spossato, sudo?
Ora sento caldo, umido, appiccicoso, beh si sa siamo in Brasile, mica a Madonna di Campiglio.
Però, sono sdraiato a pancia in su ma non vedo il cielo azzurro, vedo tutto rosso… è normale siamo a Rio ogni giorno è un colore diverso, oggi sarà la volta del rosso.
A proposito che giorno è oggi? Ah si è lunedì.

mercoledì 28 novembre 2012

IL FRATELLO INGOMBRANTE

"Ci vai tu stamattina?" "perché?" "Dai vacci tu Luca...io ho sonno, voglio dormire"
"Si ma è l'ultima volta hai capito?!"Sono stufo ok? hai capito cretino?"
"Ma si va bene, dai non rompermi le scatole che ho voglia di dormire".
Luca e Pietro sono due fratelli gemelli, la madre non se ne aspettava due di figli, ma l’ecografia non c’era ancora.
Quando arrivarono in ospedale era pronta per la sala parto, non c'era d'aspettare neppure un minuto.
Una spinta poi un'altra, una gomitata sul pancione, un urlo e un pianto, Luca apparve sulla scena di questo mondo.
Ad un tratto il dottore richiamò l'ostetrica, gli altri infermieri e disse " ce n'e' un altro, signora!”.
Cresciuti, Luca e Pietro si divertivano molto, sapendo di essere  identici  facevano scherzi agli amici, anche alla portinaia, e poi una volta grandi, se capitava l'occasione si scambiavano le ragazze andando all'appuntamento dell'altro.
Giocando sull’aspetto fisico identico: uno le seduceva  e  poi le passava all’altro, che le faceva innamorare. Loro non si rendevano conto dello scambio di persona, oppure prendevano  la dolcezza dell'uno e la fermezza dell'altro.
L'ultima che avevano pensato e che credevano fosse un'idea geniale, era quella di  avere un posto di lavoro condiviso, anche se lo stipendio era scarso , perché era  fratto due.
Non era sempre andata benissimo, ma ci avevano preso gusto, questo senso di vivere con un clone di sé stessi gli donava un po’ il dono dell’ubiquità, di potersi eclissare dalle situazioni che volevano evitare, dalle persone che volevano dimenticare.
Luca quella mattina come al solito si mise le lenti a contatto ed uscì di casa arrabbiato.
Lui era miope e Pietro no.
Pietro si rimise a dormire profondamente.
I dipendenti di quel negozio avevano Pietro e Luca come capo, anzi l'unico capo che pensavano di avere era un uomo malato di qualche strana psicosI, una specie di schizofrenia.
 Luca era mite serio e affidabile, uno a cui potevi raccontare quelli che volevi senza sentirti giudicato.
Pietro era più impulsivo, arrogante, sicuro di sé e libertino , non dava alcuna confidenza ai suoi collaboratori.
I due erano complementari ,  uno sviluppava  con scrupolo le idee, l’altro riusciva a proporre e a imporre; uno curava  la parte formale dei rapporti, l’altro la parte mondana.
Nessuno però si era mai accorto di nulla perché  all'apparenza erano identici, alti uguali, robusti,  capelli castani e occhi castani, denti un po’  storti e pizzetto per smagrire il faccione.
Quella mattina Luca esce dal portone e sente l’aria tiepida che lo accarezza e l’arrabbiatura passa, l'umore sale, allora entra nel box, spolvera bene la sua Honda nera si siede e sente il motore che ancora è ruggente.
Fa una curva e poi un bel rettilineo, ma ad un tratto gli attraversa la strada  un cane che si ferma di colpo forse spaventato per  il  rumore.
Caaaa..zo pensa Luca! Non vuole investirlo ma non vuole neppure cadere o schiantarsi contro la macchina che sta arrivando dall'altra parte..così istintivamente suona il clacson ma non cambia nulla, il cane è come paralizzato.Sterza con forza, lo evita ma sbatte contro il marciapiede; per effetto dell’urto sbalza giù dalla moto e cade. Si rialza pensando che era andata benone,  ma si accorge subito che le lenti sono cadute per terra e lui non è in grado di recuperarle.
 “Senta” rivolgendosi alla prima persona che si era avvicinata a lui e della quale intravedeva appena la sagoma , " Io ora metto la moto qui al sicuro e lei gentilmente mi dà un passaggio al lavoro? Sa sono già in ritardo"
Entra in negozio camminando con un passo lentissimo, cercando di non urtare oggetti piccoli che non avrebbe mai visto; e questa insicurezza lo fa sentire fragile come non gli era mai successo.
I dipendenti del negozio cominciano a parlottare tra loro "ma cos'ha oggi il capo?
Ha qualcosa che non vuole dirci che sta cercando di nascondere…
Luca è agitato “Devo andare in bagno, so che mi devo alzare e andare da quella parte, ma porca zozza proprio oggi nooooo”
Si dirige verso il bagno cercando di camminare con scioltezza, ogni passo è misurato, finalmente entra, ma non distingue il water dal bidè .Situazione tragicomica.
Avverte in fretta di aver fatto un errore, Disperato si riveste esce dal bagno con la fronte ghiacciata, chiama un ragazzo e gli dice "guarda che un cliente in  bagno  ha fatto un disastro.”
Luca capisce che la situazione è insostenibile e con la scusa di avere uno strano e improvviso problema agli occhi si defila dal negozio. Chiama un taxi e raggiunge casa.
Nel negozio ha lasciato un clima di confusione..ma  ce n’è tanta è anche nella sua testa.
Sente che  non  più accettare di vivere la sua vita in simbiosi con il fratello.
Pensa  che  recentemente  si era  innamorato  di una donna,  ma ha avuto  paura a confessarlo, perché lei in realtà  era stata sedotta da Pietro ,  esuberante , che  la  sapeva  gestire meglio e in maniera più sicura, senza amore.
“Non  ho una vita mia, devo  cercarla  o mi ammalerò”.
Si alza e va a vedere Pietro  che forse dorme ancora.
Pietrooo chiama Luca ma non risponde nessuno, perché non c’e’ nessuno in casa.
In  camera di Pietro la finestra è spalancata…”chissà perché l’ha lasciata aperta, fa un freddo polare oggi”.
Sul  letto Luca si accorge di un foglio strappato dall’agenda della cucina e legge:
“Caro Luca penso che la nostra vita sia diventata  caos, ci stiamo allontanando sempre più, non danziamo più con perfetto sincronismo  come è stato per tanto tempo”
A volte ci sembra tutto così eccitante a volte invece ogni cosa rallenta.
Perdiamo le nostre personali occasioni, non trovo il mio umore, è come se fosse sempre misto al tuo e forse ho perso la mia identità, ti lascio solo ma ti regalo l’occasione per ritrovarti o per trovarti, finalmente.
Tuo fratello Pietro”.



martedì 27 novembre 2012

IL CORPO E LE PAROLE



Gli esseri umani sono divisi in due: mente e corpo.                                    
La mente abbraccia tutte le più nobili aspirazioni: come poesia, filosofia... Ma chi si diverte è il corpo.  
Woody Allen, in Amore e guerra, 1975

 
IL CORPO E LE PAROLE                                                                                                   
C’è un dato di fatto.
Una certezza nel nostro essere, che non dipende da nessuna categoria alle quali ricorriamo solitamente per semplificarci la vita: giovani e vecchi, uomini e donne, belli e brutti, bravi e cattivi.
Tutti, ma proprio tutti hanno un corpo.
Per quanto possano essere diversi gli uni dagli altri, questi corpi hanno una caratteristica comune: sono corpi ignoranti.
Diciamocelo con sincerità, i nostri corpi non elaborano, reagiscono d’istinto.
Ora, per non offendere nessuno, prenderò ad esempio il mio.
Quante parole conosce il mio corpo? Tre, quattro al massimo: pipi, pupu, pappa… tutte con la P…tutte tranne la quarta.
Come si fa a ragionare con uno così? Credetemi ho provato a fargli domande, anche semplici.
Ho chiesto al mio cuore: perché palpiti forte davanti all’amore o alla paura? Ho domandato alla mia fronte, e alle mie ascelle, perché sudate quando faccio fatica o quando sono teso? Non vi accorgete che peggiorate la situazione, che mi mettete ancora più in imbarazzo? Non parliamo poi dei piedi, gli ho chiesto se fosse necessario, dopo una intera giornata, magari dura, emanare quel loro sgradevole olezzo.
Ho interrogato tutto il mio corpo, e l’unico che mi ha risposto è stato lo stomaco, ma non ho capito nulla, borbottava.
Insomma, il corpo è, nei migliore dei casi, muto o analfabeta.
A conferma di ciò, devo dire che ho tentato di insegnargli qualcosa, ci ho provato.
Ho iniziato con i piaceri della lettura, con la filosofia, con la sottile ironia, con la ricerca della conoscenza.
Risultato: mascelle che si spalancano e palpebre che  lentamente si chiudono.         
Gli ho parlato di amor cortese, della bellezza della donna che si riflette nei nostri occhi, della divina armonia cosmica del grembo femminile, gli ho spiegato le tesi femministe sull’uguaglianza fra i sessi.
E lui come mi ha risposto? Con un erezione, questo scostumato.
Gli ho illustrato i piaceri raffinati della nouvelle cousine, quelli salutari della cucina macrobiotica, di quella vegana, la  ricca semplicità della cucina tipica italiana, la saggezza di quella mediterranea.
Mi ha ascoltato, quasi interessato e poi ha ruttato.
Fine ma non troppo.
Non mi sono arreso, sono ricorso a concetti più elementari: l’attività fisica e suoi benevoli effetti, aerobica, anaerobica, arti marziali ed equilibrio interno, giochi di squadra, tecniche, tattiche.
Lui per un po’ mi ha seguito, si è mosso, prima lentamente poi pian piano più rapidamente, ma poi ha cominciato a sudare.
Irritante.
L’ultima carta me la sono giocata parlando proprio di lui.
Gli spiegato le sue funzioni, come è composto: l’apparato respiratorio, quello digestivo, il sistema cardiovascolare e quello nervoso, gli fatto qualche accenno, ma appena appena, alle reazioni bioelettriche che sono alla base della sua vita e del nostro pensiero.
Gliel’ho messa giù per benino, con semplicità, alla Piero Angela per intenderci.
La sua risposta? Si ammala il vigliacco, febbri di ogni tipo, infezioni, dolori e sindromi vari.
Senza speranza.
Non c’è verso, è ignorante e si compiace di esserlo.
In effetti, il corpo, è materia non spirito, per lui non esiste il pensiero, ma solo l’azione.
Concepisce l’istante non l’infinito, non capisce e non vuole capire, reagisce e non pensa.
Ma io che posso? Io che penso?
Ci ho riflettuto un po’ su e a dircela tutta, la realtà è fatta di cose concrete, materiali.
La realtà è fatta di carne.
Il pensiero, invece, non si mangia, un concetto non si beve, un’idea, un sogno non si tocca.
Allora queste cose non esistono, non sono reali.
Mi appaiono come i trucchi di un vecchio prestigiatore, come illusioni che servono a mascherare ciò che è vero, e magari non ci piace.
Ah! lui di certo non si fa ingannare, lui crede solo in ciò che vede, che sente e che tocca, crede solo in ciò che gusta ed annusa.
Il corpo crede solo nella realtà.
A questo punto, forse, ha ragione lui.
A cosa servono le parole? A cosa servono pensieri ed idee, sogni e speranze?
Ciò che conta è  solamente l’azione.
La teoria che dice che il presente non esiste, perché nell’istante stesso in cui lo stiamo vivendo è già passato e il prossimo è ancora futuro, per lui non è valida, il nostro corpo vive in un eterno presente, incapace di elaborare il passato e  di programmare il futuro.   
Ma ogni mago che si rispetti ha il suo asso nella manica, il suo coniglio nel cilindro, il trucco che rende veri i sogni e le illusioni.
 A pensarci bene l’ho trovato anch’io: e si tratta di un’azione, è così che lo frego, il corpo, gli faccio fare qualcosa, lo faccio agire.
Lo faccio scrivere.
Perché è scrivendo che si materializzano i concetti, che si realizzano le idee, che si concretizzano i sogni.
Un testo si vede, si tocca, si ascolta e volendo lo si può anche annusare.
Per insegnagli le parole ho costretto il mio corpo a scriverle.
Forse, il corpo non ha parole, ma le parole hanno un corpo.
 
   

                                                           Il corpo, se lo si tratta bene, può durare tutta la vita.
                                                                                      Noel Clarasó
        

martedì 6 novembre 2012

Stirpe Chimerica

Comunicato Stampa Stirpe Chimerica Vol. I a cura di ALEXIA BIANCHINI 



L’antologia “Stirpe Chimerica” sarà finalmente disponibile dal 15 Novembre 2012. L’opera, curata da Angela Visalli e Stefano G. Muscolino, è stata realizzata attraverso
 il concorso indetto il 29 Marzo 2012 dal blog Club Urban Fantasy. L’intera raccolta è ispirata alle Chimere, figure mitologica di origine greco/romana, il cui nome significa “sogno”. A riguardo sono stati selezionati ventidue racconti di vari autori, ispirati proprio dall'incontro tra un essere umano ed una chimera. Le creature variano dalle Sirene alle Banshee, dai Draghi alle Furie, dalle Ombre ai Fantasmi. Passando per personaggi ispirati alla cronaca della Londra vittoriana come Jack il saltatore o a demoni seduttori di povere fanciulle come Satanachia, o ancora esponenti della mitologia nordica come il lupo Fenrir. Altre ancora riprese dai giochi di ruolo, come il Tiefling, o dalla trazione tolkieniana come l’Ent, creatura a metà strada tra l’albero e l’uomo.

Un' opera tutta da scoprire! Per ulteriori info, cliccate qua sotto.

http://www.fantasyplanet.it/2012/11/06/comunicato-stirpe-chimerica-vol-i/