"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

venerdì 30 dicembre 2011

Ho pestato una merda

Ho pestato una merda.
Una bella giornata, non c’è che dire.
Pestare la merda porta bene.
Una giornata fortunata.
Peccato che l’ho pestata con il piede destro e quello che porta fortuna è il sinistro.
Fantastico!
Sono riuscito a trovare il peggio anche nella sfiga.

Scendo le scale della metropolitana, sperando almeno di trovare uno di quei giornali gratuiti, che fanno talmente cagare che uno se li tiene per impilarli nel bagno dell’ufficio.
Erano mesi che non entravo in una stazione della metropolitana. Anzi, erano mesi che non prendevo i mezzi pubblici.

Considerando che la giornata è iniziata male mi ritengo fortunato: c’è ancora una copia nel distributore. Mi avvicino a grandi passi, lasciando grandi impronte. Di merda.
Mentre osservo le tracce lasciate sul linoleum della stazione della metropolitana, come un moderno Pollicino merdoso, mi viene rubata sotto il naso l’ultima copia disponibile.
E adesso?
Adesso dovrei riuscire a trovare qualcosa per pulirmi la suola delle scarpe.
Sto pensando…

Forse potrei comprare un giornale e pulirmi con quello.
A parte il fatto che costa quasi un euro e pulirmi le scarpe con quasi un euro mi fa quasi girare le palle; non saprei quale testata si meriti un tale gesto.
Me ne vengono in mente due o tre ma poi mi dà fastidio spendere quasi un euro per comprare uno di quei giornali, anche se poi lo uso soltanto per pulire la merda da sotto le scarpe.
Cosa faccio? Mi metto a sovvenzionare quelle teste vuote solo perché ho le scarpe sporche di merda?
Lasciamo stare l’idea del giornale.

Per una volta potrei fare colazione al bar. Cappuccino e brioche, con tanti tovagliolini di carta per pulirmi le scarpe. I tovagliolini però sono piccoli, potrei sporcarmi le dita. E poi i tovagliolini che ci sono nei bar non sono mica assorbenti; sembra che abbiano un patina che li rende impermeabili. Finché hai un pezzo di brioche che è rimasto appiccicato alle labbra, tutto bene, ma se appena una goccia ti cade sul mento, grazie a quel tovagliolino te la trovi anche sulle scarpe.
Pensa che bello: tolgo la merda dalla suola della scarpa destra e me la ritrovo sulla tomaia di quella sinistra.
Anche l’idea del bar è scartata.

Allora me ne devo andare in giro con le scarpe sporche di merda?
Pare di sì.
Timbro il mio biglietto, come da regolamento, ma il controllore che sta nel gabbiotto mi guarda storto.
E che naso ha, questo?
Vuoi dire che gli è arrivata la puzza fin dentro al gabbiotto?
Si alza ed esce.
Cosa diavolo vuole adesso?
Cos’è? Non si può prendere la metropolitana se si puzza di merda? E quelli con l’alitosi? Giuro, ho un amico che ha l’alito che sembra proprio la mia scarpa destra.
“Scusi mi fa vedere il biglietto?” mi fa l’incaricato dell’azienda tranviaria.
“Prego.” Faccio deciso, con scioltezza, spostando istintivamente il piede destro dietro di me.
Il controllore osserva il biglietto e scuote lievemente il capo.
“Tsk, tsk” fa lui.
“Scusi?” gli faccio io.
“Questo biglietto non è valido.”
“Perché? L’ho timbrato adesso. Cos’è, già scaduto?”
“No, è semplicemente obsoleto.”
E questo da dove arriva? Da lettere antiche?
“L’ho obliterato adesso.”
“Non obliterato, ho detto obsoleto.”
“Ho capito, non sono mica analfabeta. L’ho obliterato adesso e quindi non può essere obsoleto.”
“Senta, ho detto obsoleto perché è stato sostituito, ce ne sono di nuovi.”
“E quindi?”
“E quindi questo non è più valido.”
“O merda!”
Il controllore mi guarda le scarpe. Lo sapevo, come ho detto merda quello si è immediatamente accorto della puzza.
Tra l’altro un paio di ragazzini si sono fermati per godersi la scena.
C’è il controllore che ha beccato un trasgressore, tra l’altro di mezza età.
Piano, un momento: che mezza età, cazzo, ho solo quarant’anni e… bè, effettivamente quarant’anni sono la metà di ottanta che, più o meno, è diventata l’eta media, anzi un po’ meno.
Quindi io avrei addirittura superato la mezza età.

Proprio una bella giornata. Ho scoperto da qualche secondo di essere già nella fase avanzata della mezza età, ho un biglietto obsoleto, obliterato di recente ma comunque obsoleto, e ho le scarpe piene di merda; solo la destra ma comunque…

Il controllore mi guarda divertito. Un paio di signore mi osservano mentre superano i tornelli, col loro bel biglietto fresco di stampa, tutto colorato, e storcono il naso.
Forse la puzza arriva fino a loro? Spero di sì, altrimenti perché avrebbero dovuto storcere il naso? Sono già così conciato? Bè un uomo di mezza età può anche essere sgradevole alla vista.
Fermi tutti, adesso mi girano le palle!
Vada per l’uomo di mezza età ma c’è un limite a tutto.

“Allora, cosa devo fare? C’è da pagare una multa?” l’uomo di mezza età prende sempre l’iniziativa.
“Senta, faccia una cosa:” mi sembra comprensivo. In fondo non è poi così cattivo come i controllori della nostra immaginazione “torni indietro e compri un biglietto valido all’edicola”.
L’edicola…
Potrei anche comprare il giornale, per le scarpe.
Ah, no, quella l’avevo già scartata.
“La ringrazio. Non sapevo proprio.”
“Non c’è problema. Questo lo tengo io.” E fa sparire il biglietto obsoleto, obliterato.

Torno sui miei passi, che hanno lasciato ancora l’impronta e sento la puzza di merda che ora cha cominciato ad invadere anche gli ampi spazi della stazione.
Mi guardo la suola, evitando di farmi notare, appoggiato alla parete dell’edicola. Ecco un altro segno della fortuna: che scarpe ho messo stamattina? Scarpe con il carrarmato. Metti che piova… metti che pesto una merda di cane almeno quella s’incastra alla perfezione sotto la suola.
Infatti questa si è perfettamente adattata alla suola e i miei passi la stanno comprimendo per bene, creando un impasto degno di un pluridecorato levamerda.
Solo che io non sono pluridecorato.
Non ho nessuna intenzione di comprare un biglietto nuovo. Faccio il giro, dall’altra parte dell’edicola, lontano dallo sguardo del controllore e do un’occhiata al cestino.
Figuriamoci!
Oggi è una giornata di merda e non posso sperare di trovare un biglietto non obsoleto, anche se obliterato.
Bingo!
Mai abbandonare la speranza.
Ora vado in edicola, facendomi notare dal controllore.
“Buongiorno!” dico all’edicolante.
“Buongiorno.” Risponde questo senza nemmeno alzare la testa.
Me ne torno verso i tornelli.
Sarà un’impressione ma sento ormai addosso gli occhi di tutti.

Cosa succederà una volta sul treno della metropolitana? L’olezzo si diffonderà per tutto il vagone e non ci vorrà molto a percepire la fonte di tale diffusione. Mi additeranno, mi insulteranno, mi costringeranno ad uscire dal vagone per evitare che qualcuno dia di stomaco.

Passo il biglietto nell’obliteratrice. Il controllore mi sorride. Non sarà mica gay?
Per carità, niente contro i gay, sono persone che sanno quello che vogliono; solo non coincide con quello che voglio io. Poi, per il resto, viviamo perfettamente l’uno a fianco dell’altro.
Solo che non tutti la pensano come me: l’intolleranza. Ecco, mi sento come un omosessuale circondato da etero intolleranti. Un nero tra membri del KKK, uno con le scarpe piene di merda (solo la destra) in mezzo a gente col naso delicato.

E’ fatta!
Sono passato. Il controllore ha dato solo un’occhiata distratta.
Scendo le scale, non troppo di corsa, perché la merda fa scivolare. Ci mancherebbe solo di cascare a terra, facendo partire schegge di merda giù per le scale.
Forse però qualcosa potrei fare. Adesso scendo, mi appoggio ad un muro e batto il piede contro la parete, facendo finta di sentire un motivo nella testa che non mi fa stare fermi i piedi. E se poi mi casca tutta quella roba per terra? Dovrei spostarmi in continuazione. E se mi schizza sui pantaloni?
Altra idea da scartare?
Direi di sì.

Dovrei far finta di niente e prendere il primo treno in direzione dell’ospedale.
Cazzo, l’ospedale. Vuoi vedere che non mi conviene ritirare l’esito degli esami?
E se fosse davvero una giornata storta?
Quasi quasi torno a casa.
E già… oggi mi sono tenuto libero, per andare a ritirare gli esami e portare Nadia a fare un giro sul lago. Non posso permettermelo.
Nadia aspettava da tempo questo momento.
Potrei andare da Nadia senza ritirare gli esami.
Ma dai… non posso fare lo struzzo. Cosa vuoi che sia? E poi proprio non ce la faccio: devo andare.
Salgo sul treno e non c’è posto a sedere.
Mi appoggio alla porta che sta sul lato opposto a quella della salita. Incrocio le gambe e vedo un pezzo marrone staccarsi dalla suola della mia scarpa.
La puzza comincia a diventare più fastidiosa.
Mi concentro per mantenere i piedi ben piantati a terra, tenendo la schiena poggiata alla porta che rimarrà chiusa.
E se si aprisse all’improvviso? Oggi potrebbe anche accadere.
C’è quel signore di fronte a me, a un paio di passi, non di più. Perché mi fissa in quel modo. Un altro gay? No, mi sa che ho qualcosa che non va. Come può pensare che questo terribile puzzo di merda sia colpa mia?
Ci dev’essere qualcos’altro. Guardo nuovamente le mie scarpe e, in effetti, noto dei pezzi di merda che spuntano dalla suola, proprio nella direzione dell’uomo di fronte a me.
Che la merda abbia una vita propria?
L’uomo sorride.
Gli sorrido anch’io.
Distoglie lo sguardo ma non perde quell’aria divertita. Adesso gli vado di fronte e gli chiedo che cosa vuole. Se ha qualcosa da dirmi che me la dica in faccia.
Ma lasciamo stare, è almeno il doppio di me e potrebbe anche incazzarsi. Lasciamolo contento. Mi sposto di qualche centimetro, approfittando di una culona che mi copre la visuale e protegge le mie scarpe dalla vista dell’energumeno con la ridarella.
Il riso abbonda sulla bocca degli stolti! L’ho sentita da qualche parte e non l’ho mai condivisa… sino ad oggi.
Quello è sicuramente uno stolto, anzi, meglio, un cretino.
Fra due fermate devo scendere.
Il puzzo è diventato davvero insopportabile. Mi guardo un po’ in giro e – come temevo – noto che parecchie persone mi stanno osservando. Lo sapevo, non potevo evitarlo. Se ne sono accorti tutti. Chiedo permesso e, come d’incanto, si spostano tutti. Quando prendevo la metropolitana dovevo sempre spingere per riuscire a raggiungere l’uscita mentre oggi – potere della merda – in un lampo mi trovo davanti alla porta, a fianco dell’uomo dalla risata facile.
Quasi quasi prima di scendere gliene spalmo un po’ sui pantaloni.
Quasi m’avesse sentito,lo stronzo (lui) si sposta e lo manco di un soffio.
Scendo e vengo travolto dall’onda umana che si dirige verso le scale mobili.
Gli scalini sono zigrinati.
Che idea!
Potrei far scorrere le scarpe avanti e indietro ed utilizzare le scale come uno zerbino. Così poi tutto si fermerebbe in cima alle scale.
Potopom potopom potopom… un sobbalzare fetido che accompagna la salita di uomini, donne, bambini. Una meraviglia.
E se poi qualche vecchietto ci posa il bastone e scivola?
Non potrei perdonarmelo.
E poi lo spessore della zigrinatura antiscivolo non è così alto da penetrare nel carrarmato delle mie scarpe.
Niente da fare. Altra idea scartata.

Sento ridere alle mie spalle.
Ancora?
Insomma e che sarà mai?
Per un po’ di puzza di merda!
Vi capita mai di entrare in bagno dopo che ci siete stati proprio voi che ridete?
E allora?
Un ragazzino mi supera e mi guarda, ride e sale le scale mobili di corsa.
Maleducato!
Questi ragazzini sono odiosi, non sanno cosa sia il rispetto delle persone di mezza età.
E quand’ero ragazzo le persone di mezza età erano decisamente insopportabili.
Sono sempre circondato da esseri umani insopportabili.
Certo se i ragazzini avessero la testa di noi di mezza età, come l’avevamo noi da ragazzini… insomma sarebbe decisamente un mondo migliore.

Salgo le scale fingendo di non notare le risatine di quattro vecchie cornacchie che mi stanno dietro. Un signore, di molto più che mezza età, un paio di persone avanti a me, si volta e mi guarda.
Che c’hai da guardare, dico io?
Girati che se no ti viene un’emiparesi facciale, idiota!
Comincio a perdere la pazienza. Fortuna che siamo in cima e fra un po’ esco all’aperto. Tutta questa puzza che mi porto dietro è parecchio fastidiosa, effettivamente. Magari all’aperto trovo un po’ d’erba per pulirci le scarpe.
E se nell’erba c’è dell’altra merda?
Sarebbe fantastico: merda scaccia merda. Praticamente prenderei le scarpe e le butterei nel cestino.
E poi dove trovo dell’erba in giro per Milano? A parte quella da fumare, dubito che se ne trovi ancora in giro, di quella da calpestare.
Altra idea fallita.

Ecco le scale per l’uscita. Un mendicante mi osserva e ride, un piattino colmo di monete ai suoi piedi..
E no, questa proprio no.
“Cazzo vuoi?” questa volta mi è scappata, tra l’altro a voce alta, così adesso mi guardano proprio tutti.
Quello ride.
Lo supero di corsa e salgo le scale, due gradini alla volta. Chissà che qualche pezzo di merda abbia trovato rifugio proprio nel piattino di quello stronzo (il mendicante).
Respiro a pieni polmoni l’aria milanese. Forse era meglio la puzza che mi circondava al chiuso. Tossisco, sento i polmoni bruciare.
Stanno asfaltando un tratto di strada e tutto il fumo del catrame mi arriva dritto in gola.
Dimenticavo che questa giornata non poteva migliorare all’improvviso. Mi allontano dalla zona piena di fumo e mi trovo ad un incrocio.
Erba?
Figuriamoci.
Un bar. Ancora un’idea legata ad un bar.
Potrei entrare e andare in bagno. Con l’aiuto dello scopino del water potrei togliere tutto quel disastro che si annida sotto la suola della scarpa destra.
Potrei anche farlo.
Idea approvata. Finalmente un’idea decente.
Entro nel bar e ordino un caffè. Niente brioche, mi è passata la voglia.
Figuriamoci se il barista non si mette a sogghignare.
“La toilette?” faccio finta di non aver nemmeno visto.
“In fondo a destra.” Avrei anche potuto evitare di chiedere…
Entro nel bagno e chiudo la porta.
Già che ci sono faccio una pisciatina, che non guasta.
Mentre il getto cerca di centrare la piccola (sempre piccolissima) riserva d’acqua che si trova al centro della tazza di ceramica, gli occhi colgono la desolante immagine del locale sprovvisto dello scopino.
E adesso?
La carta igienica è di quello a mezzo velo (per risparmiare… barboni!) e quindi è impensabile che mi imbratti le mani.
Tiro lo sciacquone ed esco, incazzato come un muflone. Non pago nemmeno il caffè. Servizio di merda, appunto.

Raggiungo in meno di due minuti l’entrata dell’ospedale. Che poi non è proprio un ospedale, è un centro che fa analisi di laboratorio.
E’ che mi piace chiamarlo ospedale.
Quello vero lo chiamo clinica.
E la clinica?
Semplice non ci sono mai andato, né ci andrò mai. Non posso mica permettermela.
C’è qualcuno che chiacchiera proprio davanti alla porta d’ingresso.
“Permesso.”
Questi mi guardano e a uno proprio non riesce di trattenere una risata.
Li odio quelli che non sanno trattenersi.
Guarda che belle queste pareti, piene di quadri.
Ce n’è uno che mi ricorda un sacco la casa in montagna dei miei nonni. Non è un quadro che raffigura una casa di montagna, anzi, è una foto della Luna, solo che la mia nonna ne aveva uno identico, nella casa in montagna e allora mi piace.
Eccolo.
E’ proprio in fondo alla rampa di scale. Me lo ricordo benissimo.
Apro la porta a vetri e vedo la signorina della reception.
Quella quando mi vede sgrana gli occhi.
Devo solo ritirare delle analisi e poi andare da Nadia, finalmente, per portarla al lago. Sono anni che me lo chiede e io non l’ho mai portata.
La signorina sta parlando al telefono. Sembra piuttosto agitata.
Mi avvicino al bancone e quella indietreggia con la sedia.
La puzza di merda dev’essere arrivata fino a lei.
Mi guarda un po’ impaurita.
“Buongiorno signorina Claudia.”
“Buongiorno Orazio.”
E’ bello conoscere un sacco di gente. Qui poi sarebbe meglio conoscere meno gente possibile ma un po’ di amicizie non guastano, in certi ambienti.
Sento un trambusto alle mie spalle.
Jacob e Pierluigi.
Uno dei due è ebreo. Niente da dire, per carità, non sono mica razzista, anzi. Solo che lui l’abbiamo sempre chiamato l’ebreo. Lui mica lo sa. E’ alto quasi due metri e fa palestra per gonfiare i muscoli. Spesso la sua divisa si gonfia talmente tanto che sembra sul punto di esplodere.
“Ciao!” gli faccio appena lo vedo.
“Orazio, stavolta l’hai fatta grossa.”
“Io? Veramente è stato quel cane merdoso che l’ha fatta grossa. Guarda qui, Jacob.”
“Lascia perdere. Scappare e mancare per due giorni potrebbe metterti davvero nei guai.”
“Uh,” sogghigno “scappare da qui è il sogno di tutti. Però non fatemi male questa volta.”
“Chiamo il dottore?” fa Claudia.
“Lo portiamo noi in reparto, non preoccuparti.” Dice Pierluigi.
Jacob mi prende per un braccio. Non mi conviene reagire, è troppo forte.
“Cosa diavolo ci fai in giro in pigiama?” Jakob non è cattivo.
Mi tiene stretto ma non mi fa male.
“L’abbiamo trovato.” Jacob parla alla sua radiolina. “E’ qui con noi, tutto a posto.”
“Tutto a posto…” gli faccio il verso, tanto adesso è contento di avermi ritrovato. Finalmente adesso troverò qualcuno che mi pulirà le scarpe.
Sono tranquillo.

MASSIMO CANETTA
Settembre 2004

domenica 25 dicembre 2011

Concorso di Poesia

Concorso del 28/11/2011


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 Salve a tutti! Benvenuti a questo terzo evento 
organizzato dall' Occhio della dea!

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Chssà quanti di voi hanno sentito la nostra mancanza, ma siamo tornati! Non so quanti di voi si sono messi a piangere pensando che i miei concorsi di poesia erano finiti, quanti di voi volevano buttarsi giù da un ponte, quanti di voi preferivano aspettare il treno sopra i binari e non accanto! Io tuttavia.. spero che almeno uno soltanto di voi abbia sentito la nostra mancanza!

Stavolta ci sarà una novità, ma non vi illudete, è puramente per una questione natalizia! Si amici miei, fra meno di un mese è natale e questo concorso si concluderà per forza in quel periodo! Intanto proseguiamo e parliamo di questa novità!



Tema da seguire: Esprimi un tema, è natale! Nessun Tema...

Per stavolta faremo una modifica al regolamento! L'argomento natale è dibattuto dalla nascita di cristo e di abbiamo una tradizione millenaria che ci induce ad essere più buoni. Infatti anchio per quest'occassione: Sarò buono!

Potete scrivere a un tema a vostro piacere, date tuttavia il meglio di voi stessi! Eh si! Sapete, non solo voglio fare una bellissima raccolta delle vostre poesie sul mio blog, che sarà poi la ennessima gara a punti ma...
sarà anche la vostra poesia personale ad accompagnare, non solo l'evento, ma le festività!
Internet avrà una maggiore frequenza, c'è più tempo e quindi anche i visitatori aumenteranno.
Le poesie saranno il regalo ai visitatori del nostro blog per un augurio di felice anno nuovo!

Bonus: La diversità di questo concorso sta anche in questo bonus (facoltativo!).
Per chi invece avesse bisogno di un tema, c'è un ausilio... Chi di voi sarà capace a scrivere una poesia natalizia.. Riceve 5 punti extra sul punteggio finale! Sarò io a decidere se una poesia è natalizia e quindi a giudicare questo bonus.

Per natalizio intendo: su babbo natale, su gesù bambino, sull'albero di natale o quello che è generico e riguarda il natale.

Decidete voi! Stavolta sarete più liberi! Vi aspetto numerosi!


Arkavarez

Happy Christmas

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 Oggi 22/12/2011 dichiaro che le votazioni abbiano inizio.
♥●•٠·˙˙·٠•●♥ Ƹ̵̡Ӝ̵̨̄Ʒ ♥●•٠·˙˙˙˙·٠•●♥ ARKAVAREZ♥●•٠·˙˙·٠•●♥ Ƹ̵̡Ӝ̵̨̄Ʒ ♥●•٠·˙˙˙˙.

Molto bene. Il fatidico momento è arrivato e si aprono le danze! Il tuo compito visitatore, sarà sempre lo stesso, commenta le poesie e votale secondo il tuo gradimento, quella che otterrà più punti vince e sarà la scia che accompagnerà questo bellissimo natale 2011.


Abbiamo bisogno del vostro aiuto per votare le poesie.
Aiutateci.

lunedì 12 dicembre 2011

La città di spago e di cartone

La memoria è un luogo fatto di strade, case, di nomi e di volti.
A volte sono immagini nitide, a volte sfocate.
I ricordi sono scatole cinesi, che ne contengono altri e altri ancora; come in un infinito gioco di specchi.
Ci sono momenti in cui non posso fare a meno di accettare la magia di questo gioco.
Chiudo gli occhi.
Riconosco il luogo della mia memoria: la mia città, ma non com’è ora, ma quella di trentacinque anni fa.
Uguale, ma profondamente diversa.
La prima cosa che “vedo” , è una città fatta di incroci e spigoli “vivi”.
Ad ogni angolo, bambini giocano a palla o sfrecciano su Grazielle sgangherate.
Ogni tanto devono interrompere i loro giochi per far passare una 127.
Di CityVan o SUV neanche l’ombra.
La giornata inizia, davvero, con il suono della campanella di fine lezioni.
Finalmente fuori.
Un esercito di soldatini con le uniformi bianche e nere che, appena superato il portone della scuola, rompono le righe.
Tanti bambini e pochi genitori.
Centinaia di gambette secche, dentro a improbabili pantaloni a quadri, si riuniscono in drappelli per progettare il futuro: “ Appena dopo mangiato ci troviamo tutti in piazza”.
La città è piena di trabocchetti e antri misteriosi, di avventure e territori da esplorare.
Vicolo Pomè, per esempio, è una livida ferita tra le due vie principali: Via Madonna e via Matteotti , una sorta di compromesso storico in pieno Rho.
È un vicolo buio e sporco; puzza di piscio di cane e rancido.
Ho nove anni e il cuore che batte forte in gola.
Lo devo attraversare, è l’ultima prova di coraggio per entrare nella banda.
Mi aspettano all’altro capo e non sono sicuri che io ce la possa fare.
Cammino piano, raggiungo il punto più buio, li una leggera curva piega verso sinistra, a destra si spalanca una spaventosa bocca sdentata pronta ad inghiottirmi.
È l’arcata di un vecchio cortile, si mormora che tra quelle mura umide e scrostate siano scomparsi decine di bambini, tutti di nove anni.
Stringo i pugni ed accelero il passo.
Vorrei correre, ma non mi è permesso.
Respiro forte e finalmente vedo i lampioni della piazza, sono fuori, sano e salvo.
Mi volto, guardo l’oscurità alle mie spalle, e mi sento un po’ più grande.
Altri vicoli e altri cortili abitano i miei ricordi, non tutti così spaventosi.
Vicolo Resegone numero 6, un posto incantato: il rottamaio.
Con poche lire potevi acquistare il tuo destriero; un Ronzinante vecchio ed arrugginito che, con qualche pennellata di vernice, si trasformava in “Furia cavallo del west” o in Tornado di Zorro.
Oppure, portando carta, stracci e rottami, Martino, così si chiamava, ti dava in cambio qualche spicciolo che potevi spendere in caramelle gommose e patatine.
Ce ne sono altri di luoghi magici: c’e, negozietto polveroso e senza nome dove si potevano scambiare fumetti e soldatini.
Poi c’era la strada.
Le vie della città, le stesse di ora, ma decisamente più larghe.
Tanto da permettere alla mamma di seguirti con lo sguardo dalla finestra, mentre ti dirigi, tutto impettito verso scuola.
Tanto da poter trascorre interi pomeriggi a giocare a ce l’hai o mago libero.
Strade di gatti e cani randagi, di uomini e donne dallo sguardo severo, di ore passate a girare e girare.
Strade di figurine da lanciare più lontano, di cinema dai sedili di legno, di gazzose da bere con la stringa di liquirizia.
Strade di citofoni da suonare e poi scappare, di muri da scalare, di voci che gridavano “ mamma! buttami le chiavi che salgo” o più spesso “Mamma ancora cinque minuti”
Strade di scale scese in fretta e risalite ancora più velocemente, di pianerottoli bui e mamme che ti aspettano “che è già in tavola”
Strade di “non accettare le caramelle dagli sconosciuti, possono essere drogate”, nessuno me le ha mai offerte, ma i tossici quelli li vedevamo, ombre che camminano, li spiavamo nascosti sugli alberi del giardino del santuario, mentre si facevano.
Ci spaventavano ma allo stesso tempo ci incuriosivano, anche quella per noi era un’avventura.
Le vie del centro si aprivano e si chiudevano alla nostra fantasia.
Erano immensità infinite da perlustrare stile Spazio 1999, oppure le strette gole dell’Ok corrall nelle quali stavano in agguato le bande rivali.
Erano lanci di sassi e di cerbottane, erano ginocchia sbucciate e miccette da far scoppiare tra le dita.
Strade intricate come vasi sanguinei di un corpo vivo, una città semplice, fatta di spago e cartone dove tutto, o quasi, era possibile.
Un luogo conosciuto e allo stesso tempo, ignoto.
In periferia le strade si allargavano e correvano dritte verso la prateria, noi a cavallo dei nostri destrieri battevamo quei percorsi alla ricerca di nuovi confini.
Insieme a quello sciame schiamazzante, rumoroso di cartoncini tra i raggi per credersi più grandi, di urla e di risate, supero i limiti della mia memoria.
Tutto diventa più confuso, come l’età che sto per raggiungere, come la fine dell’infanzia.
Sono costretto ad aprire gli occhi, ad abbandonare la magia.
Vedo i miei figli che, ora, giocano in una città virtuale, dentro una stanza, dentro uno schermo.
Un po’ mi dispiace.
Perché, in fondo, sarà che avere dieci anni è meglio che averne quaranta, ma non scambierei mai la mia infanzia con la loro.

martedì 6 dicembre 2011

L'amore sconosciuto

Avrei voluto volerti bene veramente.
La mia mamma eri tu, tu mi hai aperto il cuore, tu hai instillato il siero dolce e fortificante dell’amore di una mamma.
La mia mamma quando ero piccola aveva dei grossi problemi psichici, per via di quello stronzo di mio padre che lavorava solo ogni tanto, e quando stava a casa gridava e la picchiava.
Lei si riempiva la bocca di pastiglie per stare tranquilla, ma quelle le toglievano la voglia di fare  qualsiasi cosa e la facevano diventare cattiva.
E poiché c’ero anch’io, ed ero una bambina piccola, non riusciva ad occuparsi di me, si dimenticava di portarmi a casa e mi lasciava sola in un parco, non mi vestiva mai bene, non ero mai coperta d’inverno e così mi ammalavo tanto.
All'ospedale si sono accorti di me e del mio stato di abbandono, e in una settimana la lunga mano della giustizia sociale mi prelevò da quella che era la mia disastrosa casa, da quel nido del disagio, per portarmi in un posto dove non c’era nessuno, nessuno che mi amava.
Poi non fu proprio così, anche perché l’amore lo rubi lo strappi proprio come quando hai fame, sei disposto a tutto pur di placare quel buco che ogni giorno è sempre più buio e doloroso.
Dopo due anni passati in istituto, un po’ mi ero abituata alla solitudine, a sapere che a parte la zia Rosa nessuno veniva a trovarmi e poi neanche a lei in fondo interessavo, neppure lei mi amava, il senso di colpa, la faceva venire tutte le settimane per portarmi le caramelle e qualche giochino ogni tanto; che non so perché mi sembrava sempre triste e fuori luogo.
Un giorno la Chiara, la nostra bidella, mi prese per il golf e mi tirò dentro al bagno e mi fece cenno di stare assolutamente zitta, con un filo di voce mi disse che ero stata fortunata che anche se avevo ormai 8 anni avevo trovato una famiglia eccellente che mi voleva adottare.
Aveva intravisto l’uomo e la donna e gli erano piaciuti, gente a posto e anche ricca. Poi in realtà fu un affido.
Sono stata zitta, anzi muta e non solo perché me lo aveva detto la Chiara ma perché questa bella notizia mi spaventava da morire, avevo vergogna mi sentivo come quando si sogna di rimanere completamente nudi in un luogo pieno di gente.
Io mi sentivo ormai sicura in quel posto senza famiglia, le mura dello stanzone dove dormivamo erano grigie ma di un bel grigio, il mio letto era comodo e anche il cuscino. Il latte alla mattina era caldo e a quei biscotti asciutti mi ci ero abituata.
E poi avevo la mia amica Camilla una bambina con i capelli castani e lunghi. Gli occhi sempre sognanti, mai concentrata sui compiti, mai attenta alla lezione, Camilla era sempre con la testa altrove pensando a cosa avremmo fatto nel pomeriggio, a quale storia ci saremmo inventate e con quali personaggi della nostra fantasia ci saremmo imbattute.
Io diventavo matta per lei, nessuna riusciva a sorprendermi come lei, anche un giardino senza giochi come il nostro diventava un giardino delle meraviglie dove perderci e ritrovarci ogni giorno,
Avevo bisogno di lei come del sonno e del cibo, perché riusciva sempre a regalarmi un po’ di felicità, tra salti e finti travestimenti con maghi e streghe cattive, ma a volte anche buone.
Non so cosa ci trovasse in me Camilla, non capirò mai perché mi aveva scelta come la sua amica dei giochi incantati, come lei amava dire.
Ma io sapevo cos’era lei per me, un gioiello brillante come mai avevo visto e che poteva essere mio ogni giorno.
Come avrei fatto senza Camilla? Mi sforzavo di pensare che con un po’ di fortuna avrei avuto una mamma che mi voleva bene e che mi avrebbe portato in Istituto a rivedere Camilla quando volevo.
Ma sapevo già che avrei voluto tutti i giorni…e così mi veniva da piangere.
Passò solo una settimana e fui portata dalla direttrice per conoscere Sara e Luigi i miei genitori affidatari.
Avevo paura, anche se sapevo che non ne avevo alcun motivo o almeno ci speravo. Quando li vidi nel giro di pochi minuti il mio umore andò alle stelle, erano due belle persone, proprio anche fisicamente. Mi guardavano con occhi colmi di interesse e curiosità , il sorriso sempre sulle labbra, nonostante i miei occhi fermi e sospettosi, i mie silenzi e le risposte brevi che davo alle loro innumerevoli domande.
Durante tutto il colloquio ci fu un momento in cui Sara mi prese le mani e mi tirò vicino a lei, io ero come incantata dalla sua bellezza, dalla perfezione del viso e dal suo rossetto che le disegnava così bene le labbra. Mi strinse a se delicatamente e io affondai la testa in quel giacchino di lana bianca e morbidissima e mi sentii come un cucciolo impaurito raccolto e coccolato.
Aveva un profumo buono Sara, sapeva di borotalco.
Un Natale, il borotalco  me lo regalarono i miei cugini, erano venuti solo quella volta, ma me lo ricordavo quel regalo perché non sapevo che esisteva una polvere bianca e sottile così profumata.
Luigi mi guardava con tenerezza e mi accarezzava la testa.
Sono andata via dalla mia casa (io quel posto lo chiamavo così) con il cuore accartocciato, ma dopo qualche mese la mia nuova mamma mi aveva coinvolto così tanto nel suo bisogno di amore, che ero felice.
Facevamo tantissime cose insieme, mi seguiva nei compiti a scuola, mi faceva conoscere tutti i luoghi a lei cari,  tutte le persone a cui voleva bene.
A volte sentivo che era un po’ troppo, che potevo cominciare a stare anche un po’ sola oppure fare qualcosa da sola, ma lei mi riempiva le giornate con tante bellissime attività.
Eravamo sempre io e lei ..al bar a bere la cioccolata, in piscina, al cinema, a teatro, in cucina a fare le torte, a farci i giri in macchina, a comprare i regali di Natale.
A guardare la pioggia scrosciante dalla finestra del bagno e a sentire i rombanti rumori delle moto nelle notti d’estate.
Luigi invece c’era pochissimo, era spesso via per lavoro ma Sara sembrava serena, avevo la sensazione che tutto fosse normale tra loro, e poi io che ne sapevo di come era un vero papà e di come era una mamma sola.
“Un papà con un lavoro importante viaggia molto sai”  mi diceva Sara quando mi informavo sulle assenze del mio papà adottivo.
Per questo motivo, quello a me dichiarato, Sara mi volle sempre nel lettone e trascorrevo le serate con lei a leggere libri, a parlare o a guardare la televisione.
Sara era dolcissima con me, mi accarezzava sempre.
Un giorno avevo ormai tredici anni stavo prendendo sonno, quando sentii la sua mano che lievemente quasi tremante toccava il mio seno.
Erano belle sensazioni poi diventarono emozioni, ma il sesso con Sara non mi sembrava giusto perché lei era la mia mamma e nelle storie e nell’esperienze di tutti quelli che avevo conosciuto nessuno mai mi aveva raccontato che l’amore della mamma era un bacio profondo, una mano tra le cosce e molto di più.
Avevo sedici anni quando la mia mamma vera ricomparse, e per questioni giuridiche dovetti tornare da lei. Non potevo decidere, era così e basta.
Mi sentii tutto sommato liberata da una situazione che a volte mi intristiva, in fondo ero un surrogato d’amore per Sara e non volevo sentirmi così nella vita.
Stavo così male con la mia vera madre, che il trascorrere del tempo mi rese malinconica avevo poi tanta nostalgia di Sara, lei era stata l’unica persona al mondo che mi aveva amato a lungo che aveva sempre cercato di rendermi felice.
La cercai, andai proprio a trovarla a casa. Mi immaginavo abbracci baci, racconti di ore davanti ad una tazza di the…
Ma quanti pianti poi giù per le scale, aggrappata al corrimano per paura di cadere, tanta fu la delusione.
Mi disse che aveva trovato un lavoro meraviglioso nel mondo del design e che era indaffaratissima e che non aveva tempo, ma che era dispiaciutissima di non potermi dedicare più di qualche minuto.
Da Luigi si era separata perché quelle assenze l’avevano svuotata, si era quasi convinta di non essere una donna da amare.
"E invece io? Io chi sono?" Mi chiedevo e mi chiedo ancora adesso...Qualcuno mi può amare? Ma forse no io non sono tra quelli che al mondo sono amati, ci sono quelli che amano e quelli che sono amati..
Ora ho venticinque anni ho lasciato mia madre a diciottanni , sono fuggita dalla sua cattiveria.
Ho una vita mia, lavoro, faccio la costumista, perché Sara mi aveva inculcato il principio che nella vita bisogna studiare studiare studiare, e così ho finito i miei  studi.
Vivo con una ragazza, e penso che ci amiamo, nel senso che io faccio tante cose per farla stare bene e vedo che lei fa lo stesso con me, ci divertiamo e ogni giorno ci sorridiamo con gli occhi e con il cuore.
Ma spesso mi chiedo perché sto con lei..
Io che sono una donna….non so cosa sia il bacio di un uomo e la sua tenerezza, ma se dovesse succedere.. se un uomo mi volesse, quale emozione mi agiterà?

sabato 3 dicembre 2011

Bireweck

"Fortunatamente, secondo la moderna astronomia, l'universo è finito: un pensiero consolante per chi, come me, non si ricorda mai dove ha lasciato le cose. "
Woody Allen

BIREWECK
Sono qui al pronto soccorso.
Penso che sia tra i dieci posti peggiori per passare una festa di compleanno.
Eppure stamani, avevo tutto sotto controllo, o meglio credevo di averlo.
“Disponete la farina a fontana …”
Che immagine evocativa; una montagna innevata con, nel mezzo, una conca.
Più che una fontana, mi ha sempre dato l’idea di un vulcano, il Fujiyama, il Kilimangiaro, qualcosa di esotico, lontano dalla piattezza della Pianura Padana.
Che già per il fatto di essere pianura, è triste, ma questa per di più, è anche Padana.
Mah!
Una montagna magica, la quale, dopo essere stata ben lavorata, avrebbe eruttato una dolcissima lava.
Quest’ultima messa in forno, si sarebbe solidificata, dando origine, in una sorta di creazione primordiale, alle torte più buone che l’umanità abbia mai assaggiato: quelle della mia mamma.
Me la ricordo ancora, con il grembiule a quadretti bianchi e rosa, con le braccia infarinate fino ai gomiti, che impastava già di prima mattina …
Come al solito, sto divagando, sono fatto così: se c’è da ricordare sensazioni, emozioni, le ho così presenti che mi sembra di viverle proprio ora.
Odori, sapori, immagini, mi prendono e mi portano sempre più al largo, in un mare calmo ed accogliente, ma se mi chiedete di ricordarmi qualcosa di concreto: che so? la scadenza di una bolletta, il prezzo dei sottoaceti che ho appena comprato, la mia busta paga, allora quel mare diventa un oceano in tempesta, ed io, aggrappato ad un guscio di noce, sono spacciato, senza speranza.
Vedete?Ancora sto perdendo il filo, quando invece dovrei concentrarmi; stasera la vorrei proprio stupire.
E’ il suo compleanno, ne sono sicuro, ho fotocopiato la sua carta d’identità l’altra notte mentre dormiva, me lo sono appuntato dappertutto, non mi posso sbagliare ancora.
In tutti gli anni che stiamo insieme, non ci ho mai azzeccato: una volta prima, una volta dopo, una volta né prima né dopo, una volta persino sia prima che dopo…un vero disastro.
Ma lei mi ama anche così, ormai se ne è fatta una ragione, ma stasera la sbalordirò, le voglio preparare una torta di compleanno.
Ho impiegato una settimana a scegliere quale fare, ne volevo una speciale, poi mi sono ricordato di quella vacanza in Venezuela: il Mar dei Caraibi, il cielo stellato …
“Houston ad Apollo vi stiamo perdendo, ripeto, vi stiamo perdendo…” stai qui con la testa, la torta, concentrati su quella, dunque: “Disponete la farina a fontana, colatevi al centro i tuorli lavorati a crema con il burro e l’albume battuto a neve …” Cazzo, questa non è una ricetta, questa è poesia, quante immagini, mi sento quasi come un provetto Dante con le mani impasticciate di farina e bianco d’uovo.
Andiamo avanti “ aggiungetevi una tazzina di acqua tiepida in cui sia stato sciolto il lievito e manipolate il tutto fino ad ottenere una pasta liscia ed elastica …”
Fino a qui tutto bene.
Oddio, bene, la cucina sembra Baghdad dopo una bella iniezione di democrazia, però me la sto cavando. “… di media consistenza, da avvolgere a palla e mettere dentro un recipiente, coperta, a lievitare per due ore in un luogo riparato.” Due ore, sono un sacco di tempo, quasi quasi mi butto sul divano e faccio un riposino, già, così poi mi sveglio stasera e la palla mi diventa una mongolfiera.
Potrei vedermi un film, oppure sarebbe meglio che controllassi se ci sono tutti gli ingredienti, non sia mai che abbia dimenticato qualcosa.
Vecchia volpe, pensi proprio a tutto.
Un uovo, un tuorlo, lievito di birra, 200 grammi di burro e 500 di farina questi sono già di là, belli che appallottolati. 250 g di pere e 125 g mele sono lì da sbucciare.
Stessa quantità di pesche e susine: ci sono.
100 g di prugne secche, di uvetta e di fichi secchi: ok.
75 g di datteri, 25 g di cedro, arancia e udite udite angelica candita…
Qui ritorna la poesia di questa ricetta: angelica candita.
Io neanche sapevo che esisteva questo ingrediente.
L’ho cercato dappertutto, ho girato tutti i centri commerciali della Lombardia, ma niente.
Poi, mentre tornavo da uno di questi, mi sono smarrito in un paesino fuori Milano, mi fermo per chiedere informazioni e vedo una latteria, di quelle di una volta, quelle con i vasetti di vetro ricolmi di caramelle, gommoni e tutte quelle delizie raccomandate dall’associazione medici dentisti.
Ci entro, quasi spinto dal destino. Oltre a chiedere indicazioni, provo, con un po’ di vergogna, a domandare dell’angelica candita.
Il lattaio, un ometto sulla cinquantina basso e grassoccio, invece di strabuzzare gli occhi e mettersi a ridere come mi sarai aspettato, apre un cassettino dietro il bancone, mi porge una bustina argentata, e mi dice “due euro e trenta”. Lo guardo come se mi avesse salvato dalle sabbie mobili, gli porgo i soldi ed esco, dimenticandomi delle indicazioni stradali.
Dopo quattro ore per fare ventidue chilometri dopo sono a casa, stanco ma felice.
Tutto questo per dire che l’angelica candita c’è, non manca nulla…
Oh no! 75 grammi di gherigli di noci, nocciole e mandorle, me le sono dimenticate.
Poco male, ho due ore di tempo per rimediare: parte da ora la missione “frutta secca”, faccio un salto al supermercato qui vicino, le compero, e in men che non si dica, sono di nuovo pronto per la torta.
Dove ho messo le chiavi della macchina? Dunque, ieri ho usato il giubbetto verde o quello blu? meglio controllare in tutti e due.
Porca miseria, quante tasche hanno ‘ste maledette giacche; comunque, qui non ci sono.
Nei pantaloni, no; Ma certo!!! In salotto, sulla mensola nello svuotatasche oppure nel primo cassetto del soggiorno, anche qui non ci sono, però guarda guarda:le prime lettere che scrissi a Vanessa.
Potrei recitarle a memoria, tutte dalla prima all’ultima.
Ero, a quel tempo, un ragazzotto alquanto confuso; poi arrivò lei e mi scombussolò ancora di più.
Provai a mettere in ordine i miei pensieri, le mie emozioni, scrivendole delle lettere.
Rileggendole ora, mi accorgo che non erano delle vere e proprie lettere d’amore, ma piuttosto una specie di diario,
un giornale di bordo, un tentativo di orientare la mia vita sulla giusta rotta.
Mi sto innervosendo, queste fottute chiavi non saltano fuori! Dove diavolo si possono essere nascoste, mi viene voglia di ribaltare tutta la casa, a cominciare da questo tavolo…
No!non ci posso credere, eccole lì, sotto quella pila di volantini pubblicitari (che dovevo buttare via già da tre giorni), proprio lì, davanti ai miei occhi.
Bene le ho trovate, o loro hanno trovato me? In ogni caso, “via più veloce della luce”, che di tempo ne ho già perso abbastanza.
Corro lungo le scale, attraverso a grande velocità il cortile, supero atleticamente il cancelletto d’ingresso, mi catapulto nel parcheggio, raggiungo velocemente… dove l’ho messa? L’auto, dove l’ho posteggiata? Ah, eccola!
Sul parabrezza c’e un foglietto… non sarà l’ennesima multa...
No, a meno che i vigili siano diventati estremamente creativi ed abbiano cominciato a scrivere le contravvenzioni su bigliettini colorati e a caratteri cubitali con l’evidenziatore arancione.
È un messaggio di Vanessa: che mi esorta, e sto usando un eufemismo, a passare all’ufficio postale a pagare il canone della RAI, che scade oggi e non vuole pagare la mora come tutti gli anni.
Ok, ce la posso fare, posta e supermercato, Rai e frutta secca, non è difficile.
Come è cara Vanessa, è così dolce, oddio si arrabbia come una bestia, quando mi dimentico qualcosa di importante, però è sempre pronta a perdonarmi e a rammentarmi le cose.
La sua arma preferita è il post-it.
Nelle sue mani quel piccolo lembo di carta colorata diventa pericoloso, una sorgente infinita di minacce e improperi; una di quelle bombe a grappolo, che vanno di moda adesso, si moltiplica all’infinito.
Ad esempio quando dobbiamo partire per le vacanze, la casa diventa colorata di quei foglietti adesivi, li trovo dappertutto.
In bagno, che mi ricordano di mettere in valigia lo spazzolino da denti, il dentifricio, la schiuma da barba ecc. in camera da letto, sul guardaroba, dalla mia parte, trovo scritto” due paia di pantaloni, cinque camicie, le mutande” ecc. tutto ciò è uno spasso.
Allo stesso momento, faccio la valigia e mi diverto, perché mi sembra di partecipare ad una caccia al tesoro.

Parcheggio l’auto nello spiazzo davanti alle poste, scendo e mi dirigo, a passo deciso, verso il mio obiettivo.
Entrerò nell’ufficio, che figata c’è la porta girevole, mi ricorda quell’unica volta che andai alle giostre con mio padre, lui lavorava sempre, ma quella volta mi portò, come era bello e semplice il mondo allora, bastava un giro di giostra. Soprattutto non c’erano ‘sti stramaledetti bollettini da pagare.
Mi metterò in coda, mi toccherà sorbirmi tutti i brontolii dei pensionati, che pur avendo tanto tempo da perdere sentono di averne sempre meno a disposizione e quindi si lamentano di quello che sprecano.
Pagherò il vaglia postale e finalmente potrò tornarmene a casa tranquillo.
Ma, già lo so, il destino con me si diverte ad inventare rotte bizzarre, ad assumere forme imprevedibili, per portare il mio povero guscio di noce in acque sempre più burrascose.
Questa volta il bastardo non ha nemmeno dovuto sforzarsi troppo, gli è bastato assumere la forma di due orecchie sproporzionate, anche per il testone e il conseguente corpo massiccio a cui sono attaccate.
Due orecchie che non si fanno dimenticare, neanche dopo trent’anni.
Ci guardiamo e ci rivediamo come eravamo, i peggiori alunni della sezione B delle scuole elementari G. Pascoli.
Ci abbracciamo, cominciamo ad raccontarci.
Le parole e il tempo scorrono come un fiume in piena, svuotiamo il sacco (tanti anni in troppo tempo), ricordi ed emozioni cadono a terra scivolando come sabbia tra le dita.
- Cazzo, sono quasi le dodici e mezza, è tardi devo andare –
- Accidenti! Anch’io devo correre, se chiude l’ufficio postale sono morto. Ciao ci rivediamo… tanto… -
- Si, tra altri trent’anni – risponde, con la sua consueta cinica lucidità.
Ci siamo ritrovati come fratelli e ci salutiamo come sconosciuti.
Tutto il resto sono granelli di memoria, adagiati ai nostri piedi.
Volo a diversi centimetri dal terreno, tanto sto correndo.
Entro così velocemente nell’ufficio, che la porta girevole si trasforma nel cestello di una lavatrice in centrifuga, milleduecento giri al minuto, arrivo allo sportello ansimando, l’impiegato mi guarda con l’aria insofferente e noncurante del polmone che gli sputo sul banco mi dice:
- Stiamo chiudendo –
- Allora sono ancora in tempo, non avete ancora chiuso – abbozzo con un sorriso a trentadue denti.
L’ironia si rivela una tattica sbagliata, si irrigidisce.
Passo alle suppliche, gli dico che, se non pago questo semplice bollettino, ne va della mia vita coniugale e non solo. Sembra irremovibile.
Insisto, mi prostro e faccio appello alla sua bontà d’animo, adduco scuse insostenibili per giustificare il mio ritardo. Tutto ciò pare far breccia nella sua corazza di zelo.
Passo alle lusinghe personali e professionali, decanto l’efficienza del servizio pubblico e insulto i suoi detrattori; sembra che funzioni.
Si!!! Ce l’ho fatta! Riesco a pagare quel fottutissimo canone Rai.
Missione compiuta, si torna alla base.
Appena entro in casa, una sottile traccia di profumo di vaniglina mi cattura, le sue evanescenti spirali, mi riportano a colazioni con latte e biscotti, a cucinini piccoli e stretti, al tavolino basculante, che mio padre aveva appeso al muro, per un lato, così che si potesse richiudere e guadagnare spazio.
A tempi che sembrano antichi, tempi senza computer, con solo mezz’ora di televisione al giorno, la Tv dei ragazzi, Emil e le sue marachelle, parola di cui ignoravo il significato, Furia, cavallo del West… tempi ingenui, ma pieni zeppi di fantasia e di aria aperta.
Seguo quella scia, inebriante fin dentro la mia cucina abitabile e super moderna, con tanto di forno a microonde e ammennicoli tecnologici vari.
Lì, appoggiata sul tavolo di vetroresina, la vedo, la mia palla di pasta, sbatto violentemente il naso contro la realtà, mi sono dimenticato della frutta secca. Ripeto il rito delle chiavi, della macchina, ma con più calma, tanto i supermercati fanno orario continuato, poveretti, ho tutto il tempo.
Quando esco dal megastore, vincitore, con in mano i sacchetti di mandorle noci e nocciole, sento appiccicata addosso una strana sensazione, non mi sento euforico come in posta.
Sono, finalmente in cucina, è ora di rimboccarsi le maniche, gli ingredienti ci sono tutti.
“Sbucciate le pere, le mele, le pesche e le susine; mondatele e tagliatele a pezzetti; raccoglietele in casseruola con un trito di fichi e prugne secche, cuocetele con poca acqua e zucchero”. Cosa vi avevo detto? Questa ricetta è un’opera completa, c’è anche il mistero, quanto cavolo sarà “poca acqua e zucchero”?
È così che chi ha il potere ci frega.
O sono troppo vaghi, oppure troppo precisi “ versate ventisettevirgoladodici ml di acqua”; così ci tengono a distanza, con paroloni o misure improbabili.
Il risultato è identico: noi comuni mortali non riusciremo mai a fare una torta come si deve.
“Aggiungetevi la frutta candita tagliata a dadolini e l’uvetta sultanina ammolata nella grappa. Quando la pasta sarà lievitata tornate a batterla energicamente aggiungendovi, poco alla volta, le noci, le nocciole e le mandorle, la buccia d’arancia e i datteri a pezzetti. Versate il preparato in una teglia e ponetelo in forno preriscaldato a 160 gradi, per un’ora e tre quarti.”

Il citofono, è lei, corro ad aprire la porta.
Ciao amore, indovina che giorno è oggi? – mi domanda maliziosa, credendo di cogliermi di sorpresa. Cerco di fingere, di farle credere che mi sono dimenticato anche questa volta, ma quando guardo dentro quegl’ occhi verdi, il mio guscetto di noce si inabissa nelle loro profondità.
Tanti auguri amore!!! - grido.
Vanessa rimane a bocca aperta, incredula balbetta qualcosa sul fatto che non sia possibile che mi sia ricordato, su imminenti quanto disastrose calamità che si abbatteranno su di noi, per questo.
Ma in fondo lo si vede che è al settimo cielo, per la prima volta da quando ci conosciamo mi sono rammentato del suo compleanno.
Le socchiudo la mandibola pendente e la conduco per mano in cucina dove ci aspettano due pizze fumanti.
Ceniamo, lei è sempre più stupita, le ho ordinato la sua pizza preferita:
- ma come hai fatto a ricordartene? – mi chiede.
Su questa parte glisso elegantemente, qui sono stato fortunato, l’avevo scelta a caso.
Poi con gesti consumati, gli giro attorno, le bendo gli occhi con un tovagliolo e con voce solenne le annuncio un’altra sorpresa.
Le spire voluttuose arrivano alle sue narici:
- una torta! ti amo definitivamente! - esclama.
Taglio una fetta e gliela porgo, la morde ancora prima di togliersi la benda
- Uhm !!! che buona… No! Non dirmi che… - si toglie rapidamente il tovagliolo.
- Caro, sai dove sono le chiavi della macchina? –
- No, ma tanto non dobbiamo uscire, vero? –
- Allora comincia a cercarle, subito – il tono è perentorio – io credo che invece dobbiamo proprio uscire! –
- Ma… - farfuglio
- Ho capito, fa tutto parte del tuo piano… -
- Non capisco… -
- hai un’altra donna e vuoi eliminarmi?
- Ma cosa dici amore? Mi sono ricordato del tuo compleanno! – mi difendo
- Si, però ti sei dimenticato che sono allergica alla frutta secca, disgraziato! -

La sala d’aspetto è illuminata da un neon freddo, attendo che Vanessa esca dall’ambulatorio dopo la flebo di antistaminici e cortisone e… mi perdoni.
Come ho già detto, il pronto soccorso non è il posto migliore per festeggiare il proprio compleanno.
Sì, questa volta l’ho combinata grossa, ma già lo so, lei passerà anche sopra a questo, mi ama.
Credo.

mercoledì 30 novembre 2011

Racconto erotico 2 . Dalla parte della swarz

Non è per vantarmi, ma sono una swarz con i più grossi rabonf di tutto il pianeta Vromptz. Gli gnom fanno la fila per infilare i loro sgrap nella mia sgnec, nella crip e nella cipeciap. E non parlo di gnom qualsiasi, parlo di gnom di gran classe, quelli che abitano nelle oasi dorate di Orabit! Gnom che potrebbero avere tutte le swarz ai loro 12 piedi, swarz con delle borf meravigliose, sode, liscie, dalla forma ottagonale perfetta.
Ma io sono una swarz speciale, una che fa intostare gli sgrap come meteoriti dei Burugnach solo con lo sguardo!
Una che gli gnom se li succhia come delle cozze di fruz.
Eppure quella volta ho perso la testa per uno gnom
E' stato per quello gnom di Sgrom
Si, avete capito bene : uno gnom di Sgrom.
Uno gnom di Sgrom della provincia di Brom del pianeta di Crom.
A sud di Zom.
Si chiamava
Gigi.
Ci siamo incontrati durante un aperitivo da Crisputz, il famoso locale dove gli sgnic si accoppiano con gli sciac per fare un patratrcic. Ero vestita come solito in circostanze simili: una tuta spaziale aderentissima, dove ci avevo versato dentro il mio corpo, facendo risaltare i miei spledidi rabonf, e le 87 curve del mio sodo crip.
Di fronte a me, due coatti gnom, uno verde e uno arancione, ballavano in modo lascivo lanciandomi occhiate provocanti. Quello verde tirò fuori la lingua e se la passò sulle labbra bitorzolute, poi si sfilò un occhio e lo fece rotolare sino ai miei piedi. L'occhio mi osservò, sbattendo le ciglia, quindi prese a saltellarmi intorno. Feci finta di nulla, benchè la mia sgnec trillasse così forte da frantumare il bicchiere che tenevo tra le ventose. Diedi un calcetto all' occhio e lo rimandai al proprietario, che con un'alzata di spalle lo rimise al suo posto. Il tempo di versarmi da bere che osservai lo gnom arancione sparire con uno sbuffo di vapore, per poi materializzarsi al mio fianco.
Osservai la sua enorme testa ovale schiudersi come un fiore di caprapazof , da dove fuoriuscì una voce stridula:
Sono disposto a darti 1700 eiuchi, se ti fai zugrugnare da me e dal mio amico”.
Gli allargai l'elastico della tuta dei pantaloni e ci versai dentro l'intero contenuto del mio bicchiere, il kaboom! Una bevanda ribollente, calda come la lava di Zuzuratz.
Un leggero sfrigolio, seguito da uno sbuffo di vapore gli uscì dal pantalone, mentre lo gnom urlava, bestemmiando come uno scaricatore del porto di Rochit di Baluch di Frucit. Quindi con uno sbuffo di vapore nero sparì dalla mia vista.
Non avevo voglia di avventurette, volevo qualcosa che mi coinvolgesse totalemente. Dopo un paio di ore, e dopo parecchi bicchieri di kaboom ( difficile resistere a quella massa gelatinosa ribollente) decisi di uscire dal locale. La testa mi girava così forte che ad un certo punto mi si staccò. Riuscì a rinfilarmela solo grazie all'aiuto di un giovane barman, che in cambio mi chiese di poter toccare una delle mie famose rabonf.
Certo, fai pure” dissi, con un sorriso “ ma fai attenzione, potrebbero staccarti la mano con un morso.”
Il barman rinunciò, allontanandosi borbottando. Ne avevo abbastanza, volevo andarmene da quel posto. Barcollando mi incamminai verso l'uscita, quando la porta si aprì e lo vidi entrare:
Uno Gnom di Sgrom, bello come un tramonto di Elup!
I nostri sguardi si incrociarono, e io immediatamente mi gonfiai in modo abnorme. La tuta esplose in mille pezzi e rimasi completamente nuda, di fronte a lui, con le mie rabonf che lo puntavano fameliche. Era la prima volta che incontravano uno gnom di Sgrom e ne erano rimaste folgorate, come me d'altronde. Sgrom era un pianeta famoso per i suoi abitanti, di una bellezza sconvolgente, rinomati per le loro arti amatorie. Purtroppo gli abitanti di Sgrom si erano estinti da quando un enorme Blof, scambiando quel pianeta per una pallina da tennis, lo aveva lanciato fuori dalla galassia con un colpo di racchetta.
Ma tu non dovresti essere vivo!” esclamai. Mi resi subito conto di quanto fosse ridicola quella frase, e gli chiesi scusa. Il suo viso delicato cambiò colore, divenne giallo fosforescente, illuminando tutto i l locale.
Sono morto, infatti” mormorò “ ma prima di estinguermi, volevo sfrugugliare per un ultima volta. Vuoi sfrugugliare con me?”. Rimasi un attimo interdetta. Poi scrollai le spalle: uno dei tanti misteri degli gnom di Sgrom del pianeta di Crom.
Come si dice a Uachacha” dissi con un sorriso “Arucha tuzucha barucha rurap!”
La bocca sopra la fronte dello gnom di Sgrom emise una risata fragorosa, mentre dall'altra bocca la lingua guizzò fuori e si avviluppò intorno al mio collo, tirandomi a se, il suo sgrap turgido premuto al mio petto.
E tanto che non mi faccio una bella rambuzolok coi controrambuzolok.” mormorò lui, metre la punta della lingua mi si infilava dentro l'orecchio.
Ho la sgnec che ulula come fosse un barabau.” sussurai “Che ne dici di andare in un luogo appartato, cosi mi potrai fare provare i tuoi sgrap?” i suoi sgrap, sentendosi nominare, iniziarono a trillare all'unisono, felici .
Da me, oppure da te?” domandai. Non riuscivo a staccare il mio occhio da quell pezzo di Gnom di Sgrom.
Da me” mormorò lui, quindi mi sollevò da terra usando la lingua, adagiandomi delicatamente sulle sue spalle. Usciti dal locale, quel magnifico pezzo di pocioch iniziò a galoppare, veloce come il vento. Io, agrappata al suo sinuoso collo, cercavo di non cadere, e nello stesso tempo gli accarezzavo le spugnose spalle bitorzolute. Lui nitriva eccitato, scintille fuoriuscivano dalle orecchie. Sfondò la porta di casa sua con una testata, quindi ci gettammo nel letto e lì, lui si spogliò completamente, lanciandomi occhiate compiaciute...
Quel pezzo di Gnom di Sgrom della provincia di Brom del pianeta di Crom! Altro che sgrap, i suoi erano dei super bazuk, coi contro bazuk! Ne agguantai uno e ci soffiai dentro, con tutto il fiato che avevo in corpo. La testa gli prese fuoco, come un tizzone ardente del vulcano di Ikatuka.
Che Swarz fantastica!” ululò lui, quindi iniziò a saltarmi sulla schiena.
Non fermarti, magnifico Gnom di Sgrom della provincia di Brom del pianeta di Crom!” dissi io, felice.
Si, chiamami Gigi!” esclamò lui, librandosi in aria per poi ricadermi sulla schiena.
Gigi, Gigi! Sono la tua frugast!”
Frugast! frugast! Sei la più sballach di tutte le frugast!” urlò lui, così forte che i muri vennero giù.
Si, Gigi, continua così!” esclamai io, tra i calcinacci.
Lui si inalzò in alto, sino al cielo, con la sua meravigliosa testa fiammeggiante, quindi mi ricadde addosso, con un tonfo sordo. Szugurgliammo insieme, appagati e felici.
Quando ripresi coscienza, di lui non era rimasto che un mucchietto di cenere al mio fianco. Lo Gnom di Sgrom della provincia di Brom del pianeta di Crom era morto. Definitivamente. Soffiai delicatamente sui suoi resti, che si persero nell'aria frizzante del mattino.
Addio, Gigi” mormorai “ Sei stato come un Cutala di Gevach, in una notte di Babusoch..”

L'attesa






Arrivo col cuore in gola, sono emozionata. Tu non ci sei ancora, ma sono certa che fra poco ti vedrò spuntare là in fondo, come fai sempre. Tu mi correrai incontro ed io sarò felice di lasciarmi accogliere nel tuo abbraccio così familiare.

Un week end come questo non è una novità, ma la mia gioia è la stessa della prima volta che siamo partiti insieme. Tu ed io che abbandoniamo la città e ce ne andiamo al mare, lasciandoci alle spalle tutto e tutti. Pregusto già la sensazione di arrivare là, di tuffarmi fra le onde e lasciarmi cullare dai pensieri più romantici.

Una signora corre trafelata alle mie spalle e per poco non mi fa cadere. Non mi arrabbio, ho altro per la testa. I miei occhi sono puntati alla ricerca di te, aspetto impaziente il tuo arrivo ed è l’unica cosa che conta in questo momento.

Che strano, però! È passata la una e un quarto, dovresti essere già qua. Tu non tardi mai, sei sempre puntuale. Ti sarà successo qualcosa? Non avrai avuto un incidente? Ma no, cosa vado a pensare. Sono la solita ansiosa!

Se potessi, ti telefonerei. Ma tu non usi il cellulare. Non mi resta che aspettare, paziente. Non è mai capitato che tu mancassi a un appuntamento e non capiterà neppure oggi, ne sono certa. Per ingannare l’attesa, frugo nella borsa, prendo le sigarette e me ne accendo una. La fumo nervosamente, il non vederti arrivare mi agita ogni momento di più.

Forse non era qui l’appuntamento? Impossibile, ci troviamo sempre allo stesso posto. Però non si sa mai, provo ad allontanarmi per vedere se per caso mi aspetti poco più in là. Niente da fare, non ti vedo. Torno dov’ero e scruto di nuovo l’orizzonte.

Mi chiama Donatella. Mi chiede: “ Ti disturbo? E’ arrivato? Già in partenza?”. “Purtroppo no, non è ancora arrivato e sono un po’ preoccupata” le rispondo. “Tranquilla – mi rassicura lei – avrà semplicemente incontrato traffico, abbi pazienza. E quando sarà lì, fammi uno squillo, così saprò che tutto è a posto”.

Sono passati altri dieci minuti. Comincio ad arrabbiarmi. Ma è questo il modo di fare? Sai che sono qui ad aspettarti, perché mi fai stare sui due piedi per quasi mezz’ora e non ti sbrighi? Mi viene voglia di andarmene, e al diavolo il mare! Al diavolo anche tu, che cominci ad essere inaffidabile come tutti gli altri.

Ma ecco, mentre impreco stizzita fra me e me, vedo apparire là in fondo una sagoma familiare. Sei tu? Sì, sei proprio tu! Il Frecciabianca 35269 delle 13.10, al solito binario 5. Sei in ritardo di venticinque minuti, in stazione nessuno si è curato di annunciare il disservizio e sto morendo di caldo su questa maledetta banchina dove ci saranno almeno trentacinque gradi. Ma chi se ne importa! Ora si parte. Bye-Bye Milano, Varazze mi attende, e se tu recuperi il ritardo alle 15.21 saremo già là.

Flavia

martedì 29 novembre 2011

l'invettiva di Alfredo

Mi chiamo Alfredo, ve l'ho avevo già detto?
Ora ho trentacinque anni ma non sono qui per parlarvi del mio ''adesso''. Vi voglio parlare della mia infanzia, o meglio di quello che voi rappresentate nel capitolo infanzia.
A quei tempi la mia vita era simile a quella di quei squallidi film giapponesi horror, dove il ricordo di qualcosa che ti è avvenuto in passato ti fa rimanere attacato al mondo.
Un capitolo che sarebbe dovuto essere nero; tengo a sottolineare ''sarebbe dovuto'' ma che per voi non è stato così.
Sognavo un robot di metallo o un supereroe che mi salvasse da quel capitolo buio, ero un bambino, pensavo solo a giocare e non pensavo alla morte.
Ora ho trentacinque anni, come vi ho detto prima, e onestamente, il pensiero della morte non mi tocca più.
Tutti nella vita attraversano un capitolo buio ma il mio fu diverso: la sensazione del fango addosso, la solitudine, la sensazione di essere chiuso in una colonna di cemento e terra che tutti voi avete provato per me è stata diversa.
E io in quella situazione speravo che qualcuno mi tendesse la mano, volevo che i miei eroi di infanzia fossero lì con me ma non c'erano.
Ero solo in quel baratro. Voi potete dire " Ma pensa ai poveri bambini africani, loro si che stanno male'' o " Ma di che ti lamenti ora?''.
Come dicevo prima mi lamento ora perché è tutto finito, ed allora non capivo e non potevo lamentarmi.
Torniamo alla parte importante, quello che voi foste per me a quell'epoca.
Per me a quell'epoca eravate solo una voce lontana, ipocrita, debole.
Sentivo il presidente e i ministri che si dicevano indignati, il papa che diceva di pregare e quel rumore metallico che fanno le telecamere quando vengo montate sul set.
Sentivo un sindaco che si scusava della città di merda che non poteva e non voleve cambiare e i soldi che gli portavano quelle voci. Voi per me eravate solo rumori in lontananza.
E io non le capivo quelle voci. Erano parole troppo difficili per un bambino. E io nella mia testa, che fino a pochi giorni fa era abituata solo a pensare al gioco, proprio non le capivo.
Volevo solo che un supereroe venisse a farmi compagnia. Punto.
Ma voi parlavate, parlavate e parlavete.
Un giorno l'uomo ragno venne davvero da me. Mi allungò la ragnatela ma nel farlo mi ruppe un braccio (è sempre stato un eroe distratto, per questo mi piaceva) e mi fece sentire ancora più a fondo in quella poltiglia.
No, questa non è una metafora.
Io ero davvero sul fondo di un buco. Il mio capitolo nero è avvenuto davvero in un luogo scuro. Ero li sul fondo, di un pozzo e voi ad arricchirvi parlando di me. La vostra finta solidarietà finita sui giornali e alla televisione, una viaggio verso il mio paese solo per dire ''io c'ero''. Mi avete dato una fama che non volevo e mi avete illuso che un robot con la sua enorme manona mi avrebbe salvato, che spiderman era li con me.
Le vostre erano solo voci. Voi eravate parte della causa del mio capitolo nero.
Ed ora?
Facevo audience e mi avete messo sotto i riflettori, e dopo di me Tommy, Sara e tutti gli altri.
E siamo tutti qui.
Il nostro ricordo tipico da film horror giapponese che fa rimanere il protagonista attaccato alla vita. Un ricordo che ci vogliamo togliere di dosso.
Ci avete dato la fama, noi vogliamo la vostra vergogna. Siete stati sciacalli, ci avete usato, io sono stato il primo e, se volete ricordateci tutti, ma smettetela di usarci. Non vogiamo più sentirci legati a questa terra da questo tipo di ricordo. Eravamo bambini, non animali in uno zoo.


lunedì 28 novembre 2011

monologo di un' extraterrestre

Io non sono di qui, questa non è la mia terra.
Provengo da un'altra galassia, distante anni luce da questo pianeta.-Non veniamo per spiarvi, nè per conquistarvi, neanche per studiarvi: noi ci veniamo in vacanza. Ci passiamo i fine settimana.
Veniamo a farvi gli scherzi. Fasci di luce, omini verdi, teste grosse, cerchi di grano...non c'è un perchè, lo facciamo solo per ridere un po', per prendervi in giro.
Siete così buffi, visti da noi, da lontano.
Da noi è tutto pianificato, il caso non esiste.
Da voi, qui, invece, è tutto un tirare dadi e vedere che succede, andate avanti a scrollate di spalle. Siete affascinanti, devo dire, interessanti e buffi. Le facce che fate, quando vi sbuchiamo davanti. Le risate...
Sarà stata l'aria, il clima, sarà che siete contagiosi, voi e la vostra idiozia, ma quel giorno, quando mi si è parata davanti quella ragazza lì, con quella criniera di capelli rossi, il volto spaventato coperto di lentiggini...
Nel mio pianeta non esistono queste differenze. Siamo tutti uguali, tutti come me. A volte un po' più alti, un po' più bassi, leggermente più rotondetti. Ma insomma, uguali.
Invece voi siete tutti diversi, tutti! E una cosa che mi fa impazzire, c'è da perderci la testa a pensarci..
Non so come è successo, voi lo chiamate colpo di fulmine, noi lo chiamiamo..
lo chiamiamo..
noi non lo chiamiamo perchè non ci innamoriamo mai.
Da noi ci si accoppia per estrazione numerica, tipo tombolata, tanto per capirci. Si va nell'uffico apposito, si compila un modulo , quindi l'addetto con un timbro ci stampa sulla fronte un numero e ci fa accomodare. Aspettiamo in silenzio sino a che non entra una donna (la chiamo donna per comodità, in realtà da noi si chiamano 14682,54) ,Da un sacchetto di tela la donna estrae un numerino. Chi ha quel numerino viene portato a casa.
Invece a me capita questa cosa, questo colpo di fulmine.
Per farla breve, dopo tre mesi io e Marinella, così si chiama, siamo andati a vivere insieme.
Non è che sia stato facile, perchè io ho il mio carattere,un po' freddo, distaccato, lei invece è tutto un fermento, un movimento, un gesticolare continuo, con quelle mani che spiegano, sottolineano, disegnando in aria strane geometrie. Non è stato facile davvero, però io stavo bene. Ero innamorato.
Innamorato..
Se ci penso sento ancora un fremito, mi manca ancora il respiro,e quello che voi chiamate cuore mi batte forte, come se volesse uscire dal petto. È in tumulto. Ma anche il cuore, voi lo sopravvalutate, sempre a citarlo
il cuore il cuore il cuore!
A me l'amore aveva preso fegato, polmoni, reni, tibie e peroni , mi circolava nel sangue, andava sù e giù, vibrava nelle antenne, nelle orecchie, si insinuava nel naso, sù per le narici.
Ero innamorato con tutto il corpo,insomma!
E' durato tre anni. Poi è finito.
Io lavoravo dall'altra parte del sole, partivo la mattina presto e rientravo la sera tardi, stanco.Non ero molto presente, lo confesso. Però si andava avanti, si pensa sempre che sia un momento, una fase passeggera, ma poi le cose miglioreranno.. vedrai, miglioreranno..
Una sera arrivo a casa e lei mi dice che mi deve parlare. e che non sa come dirlo, ma insomma..ecco..scusami ma non ti amo più.. non è colpa tua, è colpa mia.
E io cosa avrei dovuto rispondere?

E' colpa tua si! Io non ho fatto niente! Io sono stato su Marte, cazzo!

E invece sono rimasto in silenzio.
Muto.
Che mi è anche congeniale stare in silenzio, perchè nel mio pianeta siamo abituati sin da piccoli a usarle con parsimonia. Le parole. Perchè lì da noi le parole costano, le dobbiamo pagare, non le possiamo usare gratis. E allora, visto che hanno un prezzo, quello che diciamo lo abbiamo pensato a fondo, ci abbiamo ragionato su.
Non vuol dire che è giusto, intendiamoci, solo che non parliamo a cazzo, per intenderci.
Ma quando l' ho vista li, di fronte a me, disarmata, dirmi che era tutto finito,
non ho detto niente.
Ho sentito una fitta, come se una scarica di corrente mi avesse colpito in pieno.
e avevo dolore dappertutto
Un dolore..
.Che anche questo sentimento è stata una bella novità. Non intendo il dolore strettamente fisico, quello legato, che so, ad una martellata sulle dita. Quello lo sentivo anche prima, no, io intendo quello che viene da dentro. E' come una mano enorme che s'infila dalla bocca e ti strizza tutti gli organi, ti blocca il respiro.
E infatti sono rimasto lì in silenzio, ad ascoltare le sue parole. Anzi, non le ascoltavo, le vedevo. Guardavo quelle parole, fatte di lettere maiuscole, minuscole, con l'accento, i punti di sospensione, le vedevo uscire dalla sua bocca e cadere a terra, strisciare verso di me come soldati in guerra, muniti di baionetta, arrampicarsi per le mie gambe sù sù sù sino ad arrivare al cuore..
si, l'ho detto,il cuore..
Arrivare sino a lì e poi piantaci le baionette.
zac e zac e zac
e tutte quelle parole io le vedevo.. erano
rimaniamo amici.. sentiamoci ogni tanto.. ti voglio tanto bene..non so cosa mi sta succedendo..ho bisogno dei miei spazi...

E così è andata via.
E io mi sono ritrovato solo. E depresso.

Sul nostro pianeta non si sa cosa sia la depressione. Non abbiamo quel tipo di patologia. Nel nostro pianeta a volte può capitare di avere voglia di dare delle testate al muro, ma così, tanto per vedere la consistenza dei muri.
Prendiamo la rincorsa e ci lanciamo contro i muri a testa bassa. BOOM. E poi andiamo a casa.
Invece qui mi sono messo a tirare testate contro i muri giusto perchè sentivo il bisogno di farlo.
Anche i vostri muri sono belli duri.
Non come i nostri.
Ma duri comunque.
Bè, insomma ero depresso. Mi sono messo a tirare testate ascoltando canzoni tristi. Mi piacciono tanto le canzoni. Noi sul nostro pianeta non abbiamo la musica. Niente. Però abbiamo le discoteche. Il sabato sera andiamo in queste enormi discoteche e stiamo lì, fermi e in silenzio per ore. Fermi. Immobili. Non vola una mosca.
Poi ad un certo orario andiamo a casa.
Invece qui avete le canzoni.
Non sottovalutatele le canzoni, anche le canzonette, quelle che vi sembrano brutte orribili, quelle che parlano d'amore e del cuore, e di tutti quei sentimenti...emozioni.. sono meravigliose.
Io apprezzo molto Albano. Mi piace quando con quella voce parte con gli acuti e non si ferma più! Va e va e va!
Magnifico. Una delle mie canzoni preferite è Nostalgia Canaglia. Quel testo mi commuove sempre:
Nostalgia, nostalgia canaglia
Che ti prende proprio quando non vuoi
ti ritrovi con un cuore di paglia
e un incendio che non spegni mai”

sul perchè quando si è spezzati dal dolore, si ascoltino canzoni del genere, ci sarebbe da discuterne.

Il tempo cura tutte le ferite, dite voi. E' vero.
Ma quale tempo? Quanto dura, il tempo?
Sul mio pianeta il tempo passa secondo le nostre esigenze. Lo comprimiamo, lo dilatiamo a nostro piacere. Hai un'appuntamento per domani? Chiudi gli occhi, li riapri..
...e sei al domani.
Oppure al mese prossimo.
all'anno successivo. Attenzione, non lo salti l'anno, non viaggi nel tempo. No. Vivi, ma quel tempo si comprime in un battito di ciglia.
Soffri?
Chiudi gli occhi, li riapri e sei all'anno dopo. E il tempo è passato.
Le ferite, rimarginate.
Sulla Terra questo non succede. Qui il tempo è pesante, ogni dolore, ogni emozione, si aggrappa ai secondi come avesse le unghie. Qui da voi il tempo non scorre..
arranca.

Eppure non sono andato via, sono ancora qui.
Le ragioni cercatele nel clima, i paesaggi, la musica, il cinema, nel profumo di una torta appena sfornata, nella consistenza di una zolla di terra che si sfalda tra le mani, nel passo svelto delle donne la mattina, nel buon vino.. e altro ancora.
Quante cose
A metterle in fila,
sembra tutta pessima pubblicità, da baci Perugina.
Da lieto fine appiccicato con lo sputo.
eppure
La verità, la pura e semplice verità è
che nonostante tutta questa follia
Adesso, il mio cuore
batte per voi.
Stronzi