"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

lunedì 12 dicembre 2011

La città di spago e di cartone

La memoria è un luogo fatto di strade, case, di nomi e di volti.
A volte sono immagini nitide, a volte sfocate.
I ricordi sono scatole cinesi, che ne contengono altri e altri ancora; come in un infinito gioco di specchi.
Ci sono momenti in cui non posso fare a meno di accettare la magia di questo gioco.
Chiudo gli occhi.
Riconosco il luogo della mia memoria: la mia città, ma non com’è ora, ma quella di trentacinque anni fa.
Uguale, ma profondamente diversa.
La prima cosa che “vedo” , è una città fatta di incroci e spigoli “vivi”.
Ad ogni angolo, bambini giocano a palla o sfrecciano su Grazielle sgangherate.
Ogni tanto devono interrompere i loro giochi per far passare una 127.
Di CityVan o SUV neanche l’ombra.
La giornata inizia, davvero, con il suono della campanella di fine lezioni.
Finalmente fuori.
Un esercito di soldatini con le uniformi bianche e nere che, appena superato il portone della scuola, rompono le righe.
Tanti bambini e pochi genitori.
Centinaia di gambette secche, dentro a improbabili pantaloni a quadri, si riuniscono in drappelli per progettare il futuro: “ Appena dopo mangiato ci troviamo tutti in piazza”.
La città è piena di trabocchetti e antri misteriosi, di avventure e territori da esplorare.
Vicolo Pomè, per esempio, è una livida ferita tra le due vie principali: Via Madonna e via Matteotti , una sorta di compromesso storico in pieno Rho.
È un vicolo buio e sporco; puzza di piscio di cane e rancido.
Ho nove anni e il cuore che batte forte in gola.
Lo devo attraversare, è l’ultima prova di coraggio per entrare nella banda.
Mi aspettano all’altro capo e non sono sicuri che io ce la possa fare.
Cammino piano, raggiungo il punto più buio, li una leggera curva piega verso sinistra, a destra si spalanca una spaventosa bocca sdentata pronta ad inghiottirmi.
È l’arcata di un vecchio cortile, si mormora che tra quelle mura umide e scrostate siano scomparsi decine di bambini, tutti di nove anni.
Stringo i pugni ed accelero il passo.
Vorrei correre, ma non mi è permesso.
Respiro forte e finalmente vedo i lampioni della piazza, sono fuori, sano e salvo.
Mi volto, guardo l’oscurità alle mie spalle, e mi sento un po’ più grande.
Altri vicoli e altri cortili abitano i miei ricordi, non tutti così spaventosi.
Vicolo Resegone numero 6, un posto incantato: il rottamaio.
Con poche lire potevi acquistare il tuo destriero; un Ronzinante vecchio ed arrugginito che, con qualche pennellata di vernice, si trasformava in “Furia cavallo del west” o in Tornado di Zorro.
Oppure, portando carta, stracci e rottami, Martino, così si chiamava, ti dava in cambio qualche spicciolo che potevi spendere in caramelle gommose e patatine.
Ce ne sono altri di luoghi magici: c’e, negozietto polveroso e senza nome dove si potevano scambiare fumetti e soldatini.
Poi c’era la strada.
Le vie della città, le stesse di ora, ma decisamente più larghe.
Tanto da permettere alla mamma di seguirti con lo sguardo dalla finestra, mentre ti dirigi, tutto impettito verso scuola.
Tanto da poter trascorre interi pomeriggi a giocare a ce l’hai o mago libero.
Strade di gatti e cani randagi, di uomini e donne dallo sguardo severo, di ore passate a girare e girare.
Strade di figurine da lanciare più lontano, di cinema dai sedili di legno, di gazzose da bere con la stringa di liquirizia.
Strade di citofoni da suonare e poi scappare, di muri da scalare, di voci che gridavano “ mamma! buttami le chiavi che salgo” o più spesso “Mamma ancora cinque minuti”
Strade di scale scese in fretta e risalite ancora più velocemente, di pianerottoli bui e mamme che ti aspettano “che è già in tavola”
Strade di “non accettare le caramelle dagli sconosciuti, possono essere drogate”, nessuno me le ha mai offerte, ma i tossici quelli li vedevamo, ombre che camminano, li spiavamo nascosti sugli alberi del giardino del santuario, mentre si facevano.
Ci spaventavano ma allo stesso tempo ci incuriosivano, anche quella per noi era un’avventura.
Le vie del centro si aprivano e si chiudevano alla nostra fantasia.
Erano immensità infinite da perlustrare stile Spazio 1999, oppure le strette gole dell’Ok corrall nelle quali stavano in agguato le bande rivali.
Erano lanci di sassi e di cerbottane, erano ginocchia sbucciate e miccette da far scoppiare tra le dita.
Strade intricate come vasi sanguinei di un corpo vivo, una città semplice, fatta di spago e cartone dove tutto, o quasi, era possibile.
Un luogo conosciuto e allo stesso tempo, ignoto.
In periferia le strade si allargavano e correvano dritte verso la prateria, noi a cavallo dei nostri destrieri battevamo quei percorsi alla ricerca di nuovi confini.
Insieme a quello sciame schiamazzante, rumoroso di cartoncini tra i raggi per credersi più grandi, di urla e di risate, supero i limiti della mia memoria.
Tutto diventa più confuso, come l’età che sto per raggiungere, come la fine dell’infanzia.
Sono costretto ad aprire gli occhi, ad abbandonare la magia.
Vedo i miei figli che, ora, giocano in una città virtuale, dentro una stanza, dentro uno schermo.
Un po’ mi dispiace.
Perché, in fondo, sarà che avere dieci anni è meglio che averne quaranta, ma non scambierei mai la mia infanzia con la loro.

3 commenti:

  1. è triste ammetterlo nella nuova veste di genitore ma quell'infanzia è stata veramente nostra, consumata fino all'ultimo gioco senza limiti di spazio e tempo...un esercito di esploratori liberi.

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  2. ... anch'io la penso come te, ma scommetto che neppure i nostri figli scambierebbero la loro infanzia con la nostra....e allora certe volte non so più cosa sia meglio, cosa sia peggio.... l'unica cosa che so è che non rinuncerei mai ai miei ricordi, anche se fossero preziosi per me soltanto
    Flavia

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  3. Ciao, l'idea di fondo è buona, ma la trasformi un po' in una fiera delle ovvietà, della serie "si stava meglio quando si stava peggio" o qualcosa di simile. Mi ritrovo nel tuo racconto, perchè di anni ne ho 50 e so di cosa parli, ma non dovresti scrivere la grande premessa per arrivare poi alla fine a domandarti se scambieresti o no la tua infanzia con quella dei tuoi figli. Mia figlia di anni ne ha quasi 18, ma non credo consideri la sua infanzia e la sua adolescenza migliori o peggiori della mia. Semplicemente sono le sue e, come dici giustamente tu all'inizio, si porterà dietro le sue scatole cinesi e i suoi specchi, le sue istantanee nitide o sfocate. Non puoi sostituirti alla loro esperienza. Puoi forse aggiungere qualcosa raccontando della tua, di come fosse differente, trenta o quanranta anni fa essere dei ragazzini senza internet. Anch'io andavo a scuola con i pantaloni corti, ben pettinato, con il grembiule nero e il fiocco azzurro. E con le scarpe pulite e spazzolate tutte le mattine, ché mia madre ci teneva così tanto. Diceva che le persone eleganti si distinguono dall'orologio e dalle scarpe pulite. Non per questo sono convinto fosse meglio di mia figlia che invece andava alle elementari senza grembiule e con le scarpe da jogging rosa della Barbie. Non dico che sbagli, dico solo che è un paragone inconsistente.
    Dal punto di vista strettamente letterario direi che scrivi bene, anche se spesso mi racconti le cose, anzichè farmele vedere. Attento a qualche concordanza soggetto-verbo e al cambio tra passato imperfetto e presente che, in alcuni casi disorienta.

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