"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

mercoledì 27 luglio 2011

Le principesse di carta di riso non si perdono nel bosco.


Cosa ci sto facendo qua?! Io vecchio orso grasso al tavolo di un caffè arabo, bhe finto arabo, con una ninfetta giapponese bella come una modella, mentre un pezzo di Manu Chao occupa lo sfondo sonoro. Potrebbe essere mia figlia. Ma non lo è, e non vale la pena di aspettare che cresca.
Il Giappone è cambiato, ma è inutile dirlo, il mondo tutto è cambiato. Prima ogni paese aveva le sue tradizioni. E ciò che per uno era normale, pensa solo all’ideale di bellezza, per un altro era eccentrico. Brutto. Il mondo un tempo non era meno vario ma ognuno aveva la sua tradizione e l'altro, il differente, era sempre altrove. Erano faccende esotiche. Non intaccavano le certezze. L’ambiente nel quale ci si muoveva era sempre omogeneo. Ora no, ora tutto è confuso. E ovunque chiunque può scegliersi la tradizione che preferisce. Le può mischiare, può assemblare la propria. E’ libertà questa, capisci!? A me piace molto più così. E a te?
Bhe dipende.
Indossi uno spencer di gabardine nero di cotone, una t-shirt bianca di seta senza collo con il davantino gessato e un buffo papillon viola. E una gonna nera di shantung a vita alta, a piccole pieghe, che scopre le bianche gambette che non lasci mai ferme, neppure ora, sotto il tavolo. Con l’occhio lecco le tue ginocchia, le immagino chele di madreperla.
Io sono l’anti geisha, enunci e a te pare molto importante, io mi smarrisco nel broncio da lolita che increspa le tue labbra.
Scusa quanti anni hai?
Diciotto l’anno prossimo.
Interessante quella cosa sulle tradizioni e la globalizzazione.
Un anti geisha, capisci?!
Sì, cioè, guarda, non credo di avere le idee chiare.
Significa progresso contro tradizione. Significa me.
Accendi una marlboro con il voluminoso accendino portachiavi. Fatto per stupire. E’ la replica perfetta di una palla da baseball, in vero cuoio e cuciture. Mi compiaccio di notare che è più grande della tua mano.
La mamma non voleva che venissi. Non si fida di te.
Per una volta ridi di gusto e riveli piccoli denti lucidi come perle bagnate.
Tua madre ha ragione, mi sento dire.
Aspiri con voluttà dal tubicino di tabacco, con gesti studiati fai precipitare poco a poco la cenere nel cuore del posacenere di ottone.
Sei bella. I capelli neri, lucenti, ti scivolano lisci sulle spalle. Tu hai cura che un ciuffo che pare una lama attraversi sempre sbieco il viso, che è un ovale allungato nelle cui carni sono plasmate labbra delicate eppure gonfie e sdegnose. Il naso termina tondo con due minuscoli fori per narici, gli occhi sono neri e ora si avventurano nei miei.
Essermi fatto convincere a partecipare alla tua festa di onomastico è stata una cazzata. Sono l’unico ospite adulto e interamente vestito. Un party notturno a bordo piscina, la tua, una quantità di stronzetti e stronzette che vociano e spruzzano. Neanche i tuoi genitori hanno avuto la forza di presenziare e ora sono in giro chissà dove. Mi sento goffo come un pinguino fuori dall’acqua, prendo in considerazione l’ipotesi di togliermi almeno la cravatta, ma poi rinuncio, non ve la voglio dare vinta.
Solo, steso sulla sdraio con la birra in mano a contare le stelle e le stalle con un sapore di merda in bocca. Da qualche parte ho sbagliato e ora sono vecchio e sfigato. Grasso e senza capelli.
Ciao.
Abbasso lo sguardo e ci sei tu, incantevole e lucente come una dea notturna. Nel medesimo istante che sorgi l’esistenza ammutolisce e attacca il carrillon, il xilofono, la voce dolce e femminile del Lurido in Sunday Morning.
Sei splendida, pura luminosità lunare. La solita espressione corrucciata, le mani su fianchi, la testa lievemente inclinata, un ciuffo sparpagliato sul naso e sulle labbra, fasciata in un fantastico costume intero, bianco come il latte e la spuma del mare.
Che fai, non ti spogli?
Troppo bella, impossibile. Il seno pieno si strofina morbidamente contro la lycra. Ti facevo più piatta.
Non ho portato il costume, mi spiace.
Pazienza. Ti presto uno di mio padre.
Mi andrà certo stretto. Non abbiamo la stessa taglia.
Si capisce, lui è nipponico cento per cento, basso e scarno, non come la mamma che è alta e milanese, affilata come una cotoletta.
Ho quello di mio fratello.
No guarda è lo stesso. Mi diverto anche così.
In realtà faccio già fatica ad essere presentabile vestito figuriamoci nudo. Carne vizza che pendola e grasso sparso qua e là. Tu così giovane e soda. I tuoi amici così giovani e sodi.
Contento te. Fa come vuoi.
Fuggi via veloce, scorgo appena le piatte chiappette rotolare via, e già ti getti su un coetaneo biondo e palestrato. Finite entrambi in acqua, lottate, v’avvinghiate, strepitate. Riesci a toglierli il costume, lui ti scopre i seni e tenta di succhiarli, sghignazzate. Quando siete stanchi di spruzzi e scherzi risalite dal lato opposto, vi appartate nel buio. L’avrei voluto fare io.
Si avvicinano due pupette brufolose con l’aria svenata, i loro compagni le annoiano, parlano sempre delle stesse cose, sono dei bambini. Io rispondo a monosillabi, quando si decidono ad allontanarsi scolo il bicchiere e me ne vado, sguscio via come un ladro lebbroso nella notte, senza neanche salutarti.

Non è che ti penso, sarebbe assurdo, quindi io non ti penso. E’ trascorsa una settimana dalla festa e ho fatto l’amore con mia moglie cinque volte, così l'ho stupita, ho baciato innumerevoli volte i figli, ho concluso tre buoni contratti. Però ho quella specie di tarlo. Sto giusto decidendo di comprarmi una nuova auto che mi chiami, certo con quel tuo cellulare verde a forma di rana. Te lo giuro provo tenerezza e simpatia per quell'apparecchio, mi sembra così incantevole, sento di amarlo. Già.
Mezz’ora dopo ti cerco in una sala da tè del centro. Minuscoli tavoli rotondi occupati da vecchie galline da brodo pittate e ingioiellate, tanto per bene, così rassicuranti e borghesi mentre le loro dentiere azzannano, ma con garbo, la delicata pasticceria. Due a due, tre a volte, i barboncini spelacchiati in grembo, talvolta un marito paralizzato e ammutolito da ictus sulla sedia accanto.
Poi ti vedo, al tavolino in fondo a destra, dietro a una palma vizza e a una pila di scatole di cioccolatini ricoperte di polvere. Sei in piedi, mi saluti con le mani, fai segno di avvicinarmi, una meringa non sarebbe più bella.
Fai un inchino, mi porgi la sedia, riesci a sorridermi senza abbandonare l’aria torva e fatale. Porti un abito bustier di cotone e seta, bianco, dai profili rossi e stretto in vita da una cintura di vernice del medesimo colore, che termina con una gonna a ruota.
Mi racconti delle cose che fai a scuola, e di quanto sono stupidi e immaturi i compagni e insulse e invidiose le amiche. Accenni ad un certo Piero, il peggiore di tutti, un vero imbranato, rozzo e tremendo; io capisco che intendi il biondo che in piscina ti palpava le poppe.
Non vale neppure la pena di parlare di loro. Carino qui, non trovi? Ci vengo spesso per ricordarmi come diventerò. Mi fa provare una certa urgenza, mi mette fretta.
Che cazzo ci sono venuto a fare penso ma dico invece hai ragione è un posto inusuale, anche a me mette una gran voglia di vivere. Come dopo un funerale.
Allora accade, con il dorso della mano sfiori la mia, continui a lungo, lenta e assorta. Io non rinuncio ad un’erezione. Non potranno arrestarmi per questo.
Il cameriere, anche lui anziano, in papillon e giacchetta bianca ingiallita, ci coglie mentre ormai intrecciamo le dita sul tavolo. Quando si allontana con l’ordinazione tu maliziosa dici che certo ci ha scambiato per padre e figlia.
Non credo, non ci assomigliamo.
Allora, forse, ora penserà che sei un barbablù.
Non può semplicemente pensare che siamo buoni amici? Che poi è la verità. Faccio io stizzito.
La mano abbandona la mia, corre a infilare una rosa rossa fra i capelli, gli occhi brillano.
Sono fortunata ad avere un amicone come te. Non tutte alla mia età lo possono dire. E’ come essere importanti. Speciali. Un gradino sopra.

Mi hai dato appuntamento in centro per le tre. Ora sono le quattro, ho perso ogni speranza, pure guardo in successione la brace del sigaro e la punta lucida dei miei mocassini senza risolvere ad andarmene.
Sei proprio uno preciso. Se ti si da un appuntamento alle tre tu ci sei.
Cerco di esserci dieci minuti prima.
Sei quadrato, coriaceo come un cammello. Iiihhiiii, produci quello che dovrebbe essere il verso dell’animale, dischiudi le labbra e mostri i denti.
Passeggiamo affiancati in silenzio, io mi trattengo dal cogliere la tua mano ma presto lo fai tu, così galleggio in estasi dimentico della città e dei suoi rumori.
Al ristorante ordini solo un doppio succo di carote e un insalata verde che torturi con la forchetta ma non mangi. Mi osservi con orrore sbranare una bistecca d'orso, quando comprendo il mio errore è ormai troppo tardi, tu incupita non dici più che una parola, no. No non ho fame, no non mi succede mai, no non l’ho mai sentito dire, no non mi piace, certo che no.
Usciamo dal ristorante, io con il ventre gonfio di gas non riesco a trattenere un piccolo rutto, a stento contrasto con successo una scoreggia, tu strazi il ciuffo con l’aria mortalmente infelice. Mi sento come un tirannosauro, ingombrante e inutile, provo lo stesso a chiederti perché sei pensierosa e triste. Tu parli veloce, dici cose incomprensibili, qualcosa sull’ottusità del mondo e le sue incongruenze. Cerco di consolarti con delle facezie che non fanno ridere. Ho di nuovo sbagliato, sono un vecchio film, fuori moda e già visto.
All'improvviso ti fermi, guardi nei miei occhi e mi domandi: lasceresti tua moglie per me?
Ma hai solo diciotto anni. Anzi, non hai diciotto anni.
Solo? Non è per questo che ti piaccio!?
Non so che dire, rimango muto. Cinque minuti dopo prendi a correre avanti, quando sei a venti metri ti volti, mi saluti con la mano, gli occhi lucidi, mi lanci un bacio e scappi via.
Rimango immobile al centro del marciapiedi con i passanti che mi sbattono contro, vuoto, nella pupilla ancora impressa l’immagine di te. Il viso a triangolo rovesciato, il blazer bianco in tela di cotone, l’abito corto di maglia con lo scollo a barca e fusciacca coordinata missoni, la tracolla di pelle decorata dal logo louis vuitton, le gambe dritte e magre rivestite dai collants velati e dècolletèes bianche. So che è finita, ancora prima di incominciare, in bocca il cattivo gusto di un occasione buttata.

Un mese dopo caracollo con la mia valigetta nera nel caldo della città, mi sento chiamare, il cuore si blocca, sei tornata.
Ciao come stai?
Bene grazie. E tu?
Di bianco vestita, t-shirt lacoste di cotone stampato con coulisse in vita, pantaloni con pinces, le dècolletèes di pelle che indossavi l’ultima volta.
Mi getti le braccia al collo e mi baci la guancia con labbra morbide e umide.
E’ tre giorni che ti seguo. Mi è sempre mancato il coraggio di farmi vedere.
Sei terribilmente noioso lo sai!? Fai sempre le stesse cose. Lo stesso bar, la medesima colazione a base di caffè, focaccina farcita e acqua con le bolle. I medesimi giornali dallo stesso edicolante che premuroso non si dimentica mai di inserire un porno. Ho intravisto anche qualcuna di quelle riviste di annunci per incontri a base di sesso. Volevo comprarne una copia, cercare il tuo avviso e rispondere. O metterne uno mio. Che ne dici di: giovane principessa dalla pelle di mandorla è pronta a spalancarsi ad inedite esperienze?
La camera già di per se è un imbarazzo. Minuscola conchiglia, in un angolo il letto a castello, i cuscini rosa e neri di hello kitty, due scrivanie ai lati della finestra, una parete interamente ricoperta dall'immagine di un bosco di bambù. Ninnoli ovunque e un profumo fresco di cosmetici alla frutta. Il tutto così virginale che solo a calpestare il pavimento mi pare di profanare ogni purezza. Già di sotto, al portone, mi sentivo un ladro, temevo di incontrare qualcuno. Ora ho paura che le amiche che ti hanno prestato la stanza tornino prima del dovuto.
Ti spogli piano, l'espressione seria, l'intimo di pizzo multicolore, poi il seno acerbo e duro, i capezzoli puntuti dritti verso il cielo della stanza, il ventre piatto, un filo di crine nero all'inguine, le ossa fini, le carni compatte racchiuse nella pelle opalina.
Ti accarezzo piano, ritto in piedi, io vestito di scuro sono il ragno gonfio che si ciuccia la mosca bianca. Sono il ratto su l'ostrica.
Mi prendi per mano, mi distendi sul tappeto, prendi a spogliarmi con delicatezza, come la mamma col suo bambino. Quando arrivi al sesso lo catturi con le piccole mani chiare, poi lo circondi con l'anello della tua bocca. Allora la stanza scompare, il pavimento diviene morbida radura nel cuore di una foresta di bambù.

Sono passate sei settimane e due giorni, non ti ho più né vista né sentita. I miei sms si sono persi nel vuoto elettronico che ci circonda tutti. Vivo giorno per giorno, impegnato a cambiare ogni mia abitudine, mangio colazioni diverse in posti sempre differenti, non compro giornali, nell'andare e tornare dall'ufficio vario percorso, osservo le facciate dei palazzi, i volti delle persone, certe volte addirittura mi fermo e mi siedo su di una panchina. Cerco di meritarmi il tuo amore.
E' tutto così assurdo, è una storia impossibile, mi vergogno per ogni parola che ti ho detto, per ogni gesto o pensiero. Non ho il coraggio di guardare in faccia mia moglie, e più di una volta sono stato sul punto di raccontarle tutto. Sono con le spalle al muro, non so cosa fare, tu sei solo una bambina, vorrei ma non riesco a fare a meno di te. Ti amo.

Ciao. Se spargi briciole per i passeri del parco o sei invecchiato o sei ringiovanito.
Il mio cuore rimbalza, mi stacco dalla panchina e mi volto, mi appari tu, madonnina orientale circonfusa con la luce di mezzodì e il verde degli alberi, dentro un prendisole in cotone azzurro con spalline sottili e fiocco, i capelli sciolti sulle spalle nude.
Vorrei chiederti dove sei stata per tutto questo tempo e sopratutto perché. Vorrei dire ti amo, che ogni istante penso a te, ma rimango duro in piena afasia.
Sono incinta.
Il mondo diviene vertigine, sembra rida maligno di me. Resto muto. Tu mi fissa seria. Sembri più adulta ora.
E' mio?
Un'ombra cala sul tuo viso, le labbra impercettibilmente passano dal capriccio al disprezzo.
Di chi se no?
Penso al ragazzotto biondo ma non dico nulla.
Non devi preoccuparti per me. Cappuccetto Rosso e le Principesse non si perdono mai nel bosco.
Ti serve qualcosa? Hai bisogno di soldi?
Ti volti e scappi di corsa, io fermo, inadeguato, vigliacco, resto a guardare mentre il cielo urlando mi precipita addosso.

Ti cerco al telefono, invio sms, scrivo lettere d'amore che poi nascondo nello schedario tra vecchie pratiche ormai ingiallite nell'inutilità. Giro per ore e ore intorno a casa tua sperando di incontrarti, ogni figura lontana è un sobbalzo del cuore. Ho persino fermato una ragazza che so tua amica, è scappata via ridendo. Niente, tutto questo non è servito a niente.
Poi un giorno ricevo una tua lettera profumata al gelsomino, poche righe per comunicare che hai appena abortito, neanche un saluto.

Passano alcune settimane, un giorno mi accorgo che non ti penso più, mi sento leggero ma anche un verme, mi sento un uomo da nulla, un porco coperto di perle che grufola nel fango. Sto meglio ma mi so meschino, il sentimento che provavo per te era un tesoro irripetibile. Sono fatto così, non ci posso fare nulla. Torno alla vecchia colazione, al solito bar, al fascio di quotidiani farcito di rivista porno dal solito giornalaio, quello che mi conosce dai tempi del liceo. Ricomincio a fare l'amore con mia moglie ma... non so, c'è qualcosa in me, un peso.
Poi un giorno in Comune incontro tuo padre, attacco bottone, faccio finta di niente, chiedo di tua madre e di tuo fratello, poi domando a proposito tua figlia come sta? Si rabbuia, dice credevo tu lo sapessi, è morta, si è tagliata le vene. Oggi sono quarantadue giorni.

Chiuso in ufficio piango come un bambino, il fazzoletto sulla bocca perché la segretaria nella stanza accanto non mi senta singhiozzare. Apro il cassetto, da una vecchia agenda estraggo l'unica foto che ho di te, una polaroid che mi regalasti tu. La guardo un'ultima volta, tu a figura intera smarrita dentro un cappotto chiaro troppo grande, poi la brucio.

Fuori non è rimasto nulla, dentro solo polvere e pensieri nati morti. Come vivi siamo merce invenduta, piangiamo i morti, ma loro stanno bene al caldo nella terra. In questo mondo siamo solo cose, abbiamo tutti il codice a barre e la scadenza, in prestito alla vita che non ci vuole, la morte ha detto sì e ci è sposa. Siamo come ginocchi sbucciati che non vogliono tornare a casa, alla morte, ne siamo usciti per una commissione, una passeggiata, per un gelatino, per una visita allo zoo. La fuggiamo ma non c'è un posto migliore dove stare senza affanni e riposare. Guardala la morte, imparala, fattela amica. E' dal tuo sempre che ti aspetta muta.
Sono stanco morto.
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venerdì 22 luglio 2011

MESSER FANCULO


MESSER FANCULO

di Jonny Rodary




Lo chiamano tutti Messer Fanculo
 perché mette il fanculo (come bocca di rosa)
mette il fanculo sopra ogni cosa:
non sa fare granché, solo ‘sta roba un po’ demodè.
Ma lui lo dice come un poema:
arrivan, per sentirlo, arrivan fin da Crema.
Crema Cremona o giù di lì:
lui dice fanculo a tutti i dì.
Da lui vengono in processione
dal meno imbecille al più coglione.
Dal medico di base al farmacista
lo prescrivono tutti, una cosa mai vista;
perché chiunque prima o dopo
ha bisogno di un fanculo detto a d’uopo.

Sei arrabbiato, triste, un po’ così?
Hai litigato divorziato stuprato ammazzato…
O forse ti sei solo dimenticato?
Messer Fanculo fa al caso tuo.
Ti presenti al suo cospetto, lui ti guarda con rispetto:
prende la mira, ci va giù duro,
ti guarda negli occhi e dice: ma vaffanculo.
Ma vaffanculo.
Ma vaffanculo.
Ma vaffanculo.
Mentre lo ascolti, ti senti morire.
Ti odia, ti squarta, la sua voce non fa dormire.
Ma è solo un istante, un istante appena;
nessuno te lo ha mai detto così bene.
E hai la certezza,
la certezza assoluta che lo dice a te:
e questo ti aiuta.
Lo dice con cura, preciso e spietato,
gridato sussurrato o cantato;
quello che pensi è che te lo sei meritato.
Dopo il fanculo la gioia è tanta:
paghi in contanti, sono cinquanta.



Una volta mio zio ci ha portato la cugina:
per una casa da dividere tra il salotto e la cucina
non trovavano l’accordo, la quadra, il benestare.
Per lignaggio mio zio non è volgare,
non ha avuto il coraggio di mandarla a cagare:
l’ha portata dal messer e in un momento
la cugina s’è beccata un fanculo di cemento.
Un signore di Turbigo ci ha portato
il capo, figo, che voleva aver ragione
senza chiedere mai scusa;
dopo il rutto del fanculo adesso ascolta e fa le fusa.
E così in ogni dove, in ogni reame castello o regione
trovi qualcuno che ti ci porta
e ti recapita un bel fanculone.

Da dove veniva, Messer Fanculo,
qual era la sua storia e il suo destino buio?
Dicevan che fosse un supereroe,
un genio della lampada o un avvocato.
Un giorno la sua moto non fece la curva
e questo ancora oggi lo disturba.
Mentre lo racconta, guarda lontano e dice tutto scuro:
“quella cazzo di curva… ma vaffanculo.”
Gli era rimasto un fanculo incastrato
tra la bocca e i denti si era impigliato.
Tra gli l’alba e la notte lo dice a tutte le ore,
lo dice di continuo per lavare il dolore.

Signore e signori, ecco la verità:
Messer Fanculo è il mio papà.
Capirete, come figlia,
quanta per me sia la meraviglia.
Ad avere un simile genitore si prova un onore
(o forse un dolore).
E’ un uomo solo, triste e stanco
ma non ha neppure un capello bianco.
La sera lo metto a dormire, non ce la fa più:
oramai dice fanculo anche a testa in giù.
E mentre lo corico, lo poso sul letto,
guarda anche me col suo fare maledetto…
Ma poi s‘addolcisce,
non mi carica di botte,
e invece del fanculo
mi dice “buona notte”.

Ma vaffanculo.
Buona notte.

giovedì 21 luglio 2011

Essere sexual adict nel Popolo delle Libertà. Il fai da te delle pratiche perverse.

Una mattina il Silvio Cavaliere si alza e va in bagno ad orinare ma dalla patta esce solo un incazzatissimo Russel Crowe che dopo avere intimato giù la mani dalle bambine ordina al mio segnale scatenate l'inferno. E l'inferno è, i muri spruzzolano piscia fanghicciando il belletto spesso e con voci da spettri posseduti formulano nefaste profezie elettorali, il Silvio Cavaliere si sveglia zuppo nel lettone di Putin con in mano il pene idraulico che ancora zampilla oro. Questa pratica di auto erotismo è detta pissing.
Dopo la siesta in villa con ottuplice piscina e vulcano frigo sottomarino il Silvio Cavaliere si tira su ma inciampa in una girl da paura con divisa da poliziotta cattiva tatuata sulla pelle nuda ed il ghigno da caimana perversa incollato sotto il naso appena rifatto. Il Silvio Cavaliere umiliato si sveglia a testa giù attorcigliato all'amaca, con il potente teleobiettivo di Zappadu ad altezza bacino di alcuni centimetri più dentro che fuori. Tali pratiche molto popolari presso i Boscimani e nell'Alto Lazio sono comunemente dette bondage e feticismo.

Dopo la consueta pennichella in parlamento il Silvio Cavaliere sbadiglia e compila la lista del lato b delle parlamentari di entrambe gli schieramenti con i relativi voti dalla somma dei quali risulta la schiacciante maggioranza del centrodestra. A furor di popolo passa l'Inutile Impedimento e il Silvio Cavaliere viene ricoperto dall'ermellino in una sontuosa cerimonia che spalma il suo sorriso a doppia dentatura su ogni teleschermo del nuovo Regno del Sole in Tasca. Ma sul più bello il Silvio Cavaliere si sveglia dolorante e torto nel banco di Montecitorio, con la lingua di Ignazio ormai penetrata in profondità attraverso la tromba d'eustachio, giù giù fino a leccare all'ano. Questa pratica leggendaria è sconosciuta in natura, ha molti nomi purtroppo tutti troppo spaventevoli ed estremi per essere pronunciati qua, ci limiteremo a ricordare che nei suoi aspetti superficiali può essere assimilata alla quasi innocua zoofilia.

Alle 4 di mattina dopo il sonno dei giusti seguito all'estenuante attività istituzionale colma dei gravosi cori con Apicella, dei festosi per fortuna Silvio c'è, delle vorticanti ragazze nude aggrappate ai pali lustri, appesantita dai blobbosi filmati con il Silvio Cavaliere, sempre ripreso dal basso, che sovrasta le più importanti personalità mondiali, sempre riprese d'alto, che racconta scipite barzellette su dio che a sua volta racconta inverosimili barzellette con bestemmia su di lui. Fino al G8 a l'Aquila, fianco a fianco all'abbronzato Obama, con il Silvio Cavaliere che troneggia su di lui di almeno quaranta centimetri, un po instabile invero sui trampoli che spuntano dal fondo dei pantaloni, fino a quando una scossa di assestamento lo fa crollare. Fortuna che Bertolaso già sul posto interviene con decreto d'urgenza e lo ponteggia e lo transenna subito. E' a questo punto che il Silvio Cavaliere si sveglia accanto a quattordici femmine nude tutte nipoti di Bondi, delle quali nessuno potrebbe mai sospettare i giovani anni, perché tutte dotate di un attestato di maggiore età firmato da Lele in obesa persona, perché a precisa domanda rispondono maggiorenne, perché tutte fornite di una lunga e posticcia barbe bianca da rabbino. Il Silvio Cavaliere si alza, s'incammina attraverso l'alcova a due piazze San Pietro ma mette il piede in fallo sulle tette rifattone ad effetto saponoso di una, perde l'equilibrio e finisce con il naso nell'incavo delle chiappe di un altra, ma non si sveglia, è già sveglio. Alcuni esperti sostengono che tale pratica sopravviva solo presso alcune isolate culture africane, altri affermano che essa è ormai dismessa e dimenticata, i più sostengono che non è mai esistita, che è solo una leggenda metropolitana se non una vera e propria barzelletta. Il suo nome è bunga bunga.

mercoledì 20 luglio 2011

La panacea del diavolo e il riso degli idioti

Questa è la storia di Claudio.

Nato nel 1990, con una grave malformazione alla schiena che lo rese curvo, morto nel 2008, il giorno del suo compleanno.

Cresciuto in un semplice paesino del nord Italia è sempre stato deriso per le sue fattezze.

Chi lo conosceva lo descriveva come una vecchia cornacchia, sempre solo ed ombroso con un libro in mano. Tutti lo schernivano, giorno e notte. I suoi genitori piangevano per lui. Rimproverandosi di aver partorito un mostro. Un mostro tale che probabilmente anche il Demonio ne avrebbe avuto compassione. Pensiero forse non così lontano dalla realtà.

Difatti una notte, per l'esattezza il 18 settembre del 2008, il Demonio gli apparve davanti.

Claudio stava dormendo quando fu svegliato da un suono sordo e dalla puzza zolfo. Accese la luce e si guardò attorno sconcertato, credendo fosse un incendio. Poi lo vide, il diavolo, imponente e sogghignate proprio a pochi metri da lui. Preso dal panico sentì il desiderio di scappare con tutte le sue forze ma non lo fece. Sapeva che sarebbe stata una scena indecente, difatti quando correva sembrava una parodia del Gobbo di Notre Dame, e lui non voleva essere deriso anche da un diavolo.

<< Buona sera Claudio, dormito bene?>>

<< Claudio? Chi è Claudio? Io sono Quasimodo!>>

<< Simpatico.>> disse il diavolo ridendo <>

Claudio lo guardava inebetito. Non capiva se fosse sogno o realtà.

<< Mi fai pena e per questo sarò la tua Esmeralda. Ti darò una schiena nuova e sana, però...>>

<< Non mi piacciono i però.>> lo interruppe il ragazzo.

<< Però quando morirai verrai confinato in un inferno dove sarai solo. Tu e nient'altro, nessun vivente, nessun tempo, nessuna materia.>>

Claudio cercò con le mani di toccarsi la gobba.

<< E in oltre, solo perché sei pietoso, ti concedo tre desideri per quando sarai là.>>

<< Fammi indovinare, non possono chiederti che ci sia qualcuno a farmi compagnia o cose del genere giusto? >>

Il diavolo rise, in fondo era una ragazzo in gamba quello storpio.

<< Esatto. Ora dammi la bottiglietta di grappa che hai sotto il letto.>>

Era vero. Claudio aveva davvero una piccola boccetta di superalcolico sotto il letto che, quando non riusciva a dormire, stappava e ne beveva un sorso. Gli capitava spesso di non dormire. Quando succedeva era perché nel buoi della sua stanza sentiva le voci dei suoi compagni che lo deridevano e i pianti dei suoi genitori. Oppure perché le lacrime e il desiderio di non essere mai nato lo facevano eccitare tanto da fargli perdere il sonno.

La prese e gliela porse. Il diavolo ne bevve buona parte, sospirò, come tutti dopo una sorsata di grappa, e poi ci pisciò dentro.

<< Ora bevilo tutto, senza storie.>>

Claudio pensò che ne valesse la pena: superare il disgusto per una schiena nuova.

Così bevve. Sancì il patto col diavolo tra lacrime e un gusto amaro sul palato.

La schiena dopo un lungo scricchiolio si raddrizzò.

<< Come sei bello ora.>> disse il diavolo.

Il ragazzo accese la luce e si guardò a lungo allo specchio. Così non era poi tanto diverso dai suoi compagni, in più con la schiena dritta sembrava molto più alto e gli scomparvero i rotoli sulla pancia.

<< Ora è il momento dei miei tre desideri giusto? Allora, quando sarò là voglio tutti i libri e tutta la musica di sto mondo. Come ultimo...>> sospirò << Voglio andarci subito!>>

Il diavolo rimase sorpreso dalla sua risposta.

<< Va bene.>> disse << Ora dormi. Spera di fare un bel sogno visto chequesto sarà l'ultimo!>>

Lo accarezzò sulla testa e mentre si addormentava scomparve.

Il giorno del funerale i compagni di scuola rimasero stupiti dallo splendido aspetto della salma.

Qualcuno di loro si permise di dire << Che ottimo lavoro hanno fatto i becchini! L'hanno raddrizzato e messo in faccia un sorriso soddisfatto. Non sembra neanche Claudio!>>

martedì 19 luglio 2011

IL SAPORE DEL SOLE.

 Il cioccolato nausea prima di saziare. E' un bene, che se vai oltre arriva la caghetta. La dispensa contiene milletrecento tavolette al latte più numerose confezioni di cioccolatini, compresi gli scioglievolissimi ovetti Lindor della Lindt e gli insuperabili Baci Perugina. Scarto una mozartkugeln, la faccio rotolare in bocca, lascio correre pochi interminabili secondi, poi la trituro in fretta, operoso, fingendo di assaporare il cuore di marzapane e gli strati sovrapposti di crema di nocciola e cioccolato, ingoio. Bevo un sorso d'acqua, gassata, quattromilaottocento litri contenuti in tremiladuecento bottiglie da un litro e mezzo accatastate in una stanza tutta per loro, in confezione da sei, con accluse le Cartoline della Fortuna tutte regolarmente compilate e già spedite. Si può vincere una vacanza in Thailandia ed un mucchio di premi minori. Chissà se poi faranno l'estrazione. Se non dovessero consegnare i premi, neppure qualcosa di sostitutivo nel caso la Thailandia di fatto non esista più, sarebbe disonesto, lesivo della fiducia dei consumatori nei confronti delle grandi marche, un cattivo affare per chi investe milioni in pubblicità. Scarto un Mon Cherì, forse il preferito da mia moglie Lucrezia, mentre scivola grasso fra le labbra la nausea mi provoca un breve reflusso. A pensarci tutto ciò è disgustoso, dieci cioccolatini fa' ha smesso di essere un piacere, è diventato un dovere, ora è un supplizio.
Mi muovo a vanvera, tocco il termostato, accendo e spengo le luci della stanza, quindi mi do una regolata ed una direzione, infilo le mani in tasca, esco dal bagno e percorro il breve corridoio che conduce alla stanza centrale, quella dei giochi.
Ancora prima di entrare sento urlare, Maicol sta surclassando Fede in uno stupido gioco alla Wii, vince chi affetta la verdura più veloce. Se gli chiedessi di farlo in cucina mi manderebbero a cagare, non avrebbero il tempo, per questo mangiamo scatolette e piatti già pronti. Lucrezia sa lavare i piatti, stirare, riassettare, non sa cucinare, Penelope ha paura di rovinarsi lo smalto delle unghie o dio non voglia spezzarsene un paio, poi non sa fare nulla, e se pensate a me io sono un impiegato di concetto, un dirigente per dirla tutta. Ho studiato tanto, e per arrivare dove sono arrivato ho lavorato anche la notte mentre la maggior parte di voi si faceva le pippe o si dilettava a fare la troietta alle feste in casa di amici.
Li osservo per un po', Maicol arriccia le labbra in modo speciale mentre in piedi contrae le spalle per lo sforzo e serra le mandibole, il viso arrossato, le gote gonfie, le lentiggini che sembrano sul punto di esplodere e decollare. Fede no, lui è rilassato, gioca, intanto fuma, beve e ghigna, sprofondato nel divano, con la barba vecchia di giorni e i vestiti sgualciti e macchiati di sugo. Maicol è mio figlio, ha otto indomabili anni, Fede ne a trentaquattro, è mio fratello, che Lucrezia sempre puntigliosa ancora chiama per intero, Federico, per sottolineare la distanza che corre fra lei, bennata borghese ancor meglio educata, e lo stato sub umano vegetalalcolicodepravatodrogato di lui. Secondo Lucrezia il suo è un atteggiamento positivo e progressista, funzionale all'evoluzione di Fede, un attestato di fiducia nella possibilità che in futuro lui possa avvicinarsi a sperimentare la condizione umana. Maicol esulta, ha vinto ancora, Fede fa' spallucce, lancia una nuova sfida, dichiara solenne che d'ora in poi vincerà sempre e comunque, che raddoppia la posta, a fine frase gli scappa un singhiozzo, è franto, già sbronzo a mezza mattina ed infatti affetta la verdura da schifo. Vivono entrambi ignari, come in una bolla, non pensano, hanno deciso di non pensare a là fuori, come se niente fosse successo, come se niente stesse succedendo, a loro bastano le repliche dei Simpson e del Gladiatore che l'hard disk collegato al televisore garantisce ab libitum. Per loro il mondo non è mutato perché il loro mondo irreale non è mutato, papà raccontami ancora la solita favola, certo figliolo, allora ho alzato il pugno al cielo e a quella schiera di eroi ho ordinato “al mio segnale scatenate l'inferno”.
-Aldo prendimi una lattina
-Anche a me papà, di coca.
Mentre mi dirigo in cucina entra Penelope dalla porta che dopo il breve corridoio conduce alla stanza da letto sua e di Fede. Si è appena alzata eppure già vestita e truccata trampola su altissimi tacchi a stiletto.
-Cazzo cazzo, qui è un abbrutimento generale. Perché non stai un po' con me invece che masturbare quel coso di plastica? Io per te non esisto?
-Dai Fede, Pe' vuole farsi una sbaciucchiata.
-Piccolo non rompere, ti ho già spiegato che a me i bambini non piacciono, tanto meno quegli degli altri. E poi se non fossi ancora nano sapresti che ho ben altre esigenze che qualche bacio.
-Ma tu figli non ne hai.
-Quando ti ho conosciuto ho deciso che non ne avrei mai avuto.
-Maicol, zia Pè è un toast freddo, non ha ancora imparato a fare i bambini nonostante zio Fede ce la metta tutta e sia un buon maestro.
-Sei solo un grosso pezzo di merda. Ti avverto, non mi prendere in giro chiamandomi zia Pè o toast freddo, ma sopratutto non prendermi in giro in generale.
Penelope parla rapida, con tono aspro, il viso contratto, le vene pulsanti bene in vista sul collo, gli occhi ridotti a fessure lampeggianti, sembra sul punto di perdere il controllo ed esplodere ma quando rientro con le lattine l'atmosfera è totalmente mutata, ora è latte e miele, con un po di zucchero filato anche.
-Se mi prepari un cappuccio come solo tu sai fare io ti faccio delle fantastiche ciribiribì coccole. Provare per credere. 5 minuti, solo 5 vedrai, della Penelopina t'innamorerai.
Fede rutta, scivola con il culo sul divano, invita Penelope a sedersi nel ristretto spazio che si è liberato. Lei accomoda le lunghe gambe da gru e fa' una smorfia, lo accarezza, inizia dalla testa e con lentezza scende al petto, disegna deliziosi circoli intorno al capezzolo, risale, intanto gli soffia leggera nell'orecchio, intanto mi guarda, mi fissa intensa, dischiude le cosce strette nei jeans firmati, si lecca le labbra gonfie come canotti e fa scivolare il dito proprio lì dove ha la fessura. Spaventato, turbato, ingolosito mi volto e scappo nel corridoio che conduce all'esterno, dove sistemando una scrivania ed una poltrona ho ricavato lo studio. Proprio non mi tornano i conti del commercialista.
Più tardi mentre mi angusto con la rata del muto scaduta ieri l'altro arriva Lucrezia, Barbie in bigodini, una piega amara le attraversa le labbra vizze anzitempo, è incazzata nera ma lei si definisce appena un po' indispettita, vuole solo mettere i puntini sulle i, perché non ama farsi prendere in giro, che quella là nulla fa', che quando apre il frigo solo per scegliere uno stracchino fa tutto un casino, che produce briciole, che ha trovato buttato in bagno il più minuscolo tanga che si possa concepire, un filo appena, credimi un filo che lo puoi infilare nella cruna di un ago. Neanche fosse un cammello. E' che fra donne non si sopportano. In una casa può esserci una sola regina. Ma qua dobbiamo stare tutti, e per quanto tempo nessuno lo può dire.
E' accaduto così in fretta, in modo così irreale, stavo guardando il telegiornale sulla RAI con il Cav che dopo aver sparato ad alzo zero sui magistrati venduti ai comunisti raccontava una barzelletta davvero divertente quando il servizio è stato sospeso, e per fortuna che la barzelletta già la conoscevo*, la conduttrice, quella con gli occhi da cerbiatta e un davanzale stupendo, ferale ha annunciato la crisi imminente, l'allarme totale, non uscite, se siete in giro raggiungete al più presto un posto sicuro. Il tempo di chiamare mio fratello sul cellulare e ho trascinato Maicol e Lucrezia nel bunker antiatomico che mi sono fatto costruire due anni fa'. Fra le altre cose questo dimostra che sono un tipo lungimirante, che è stato un ottimo investimento, che chi rideva rideva fesso, che un bunker non serve solo per farlo visitare agli amici durante i barbecue. Ne sono sempre stato orgoglioso, per me è stato come una seconda casa, come dice il depliàn della ditta che li produce e li installa un rifugio antiatomico è una vera è propria soluzione abitativa, solo che per evitare la contaminazione da radiazioni nucleari o qualsivoglia problema chimico ha solette di quaranta centimetri e pareti di trenta, tutto calato bene in profondità per sfruttare l'azione schermante del terreno ed evitare il contatto con l'atmosfera radioattiva. Qui è comodissimo, davvero, non manca niente, ne lo scorte alimentari ne i passatempi, c'è il riciclo dell'aria, il controllo dell'umidità e della temperatura, i letti sono morbidi.
 La cena è stata deprimente, trippa per gli uomini e carne in scatola per le donne e il bambino, per sovrappiù tutto il tempo mio figlio Maicol e Penelope hanno duettato senza sosta "Buona la carne Tinsemmhal.". "Si dice Simmenthal.". “E per secondo?". "C'è carne Simmenthal!". "Ma come... la Simmenthal... a mio figlio?!". “Siii, Simmenthal. SimmenTALMENTE BUONA.". “Se trippa Simmenthal dò a mio marito lo so, che sono abbracci, abbracci, ahhh.”. E sull'ahhh finale Penelope ha prodotto immancabile un gemito rauco inequivocabile di piacere, qualcosa che sapeva di orgasmo, che divertiva da pazzi Maicol ma che si traduceva in una smorfia sulla faccia di Lucrezia. Nessun altro ha parlato, neanche per chiedere il sale, Fede ha fatto una sequenza di rutti, solo un po' d'aria aromatizzata al luppolo e un altra smorfia per Lucrezia.


*In breve la barzelletta è questa: Il Cav è in Inghilterra per una visita ufficiale, sicché la Regina Elisabetta lo invita Wermaister a prendere un tè con i pasticcini. Il Cav approfitta della situazione per porre alcune domande sulla di lei strategia di leadership, la Regina risponde che ciò che davvero importa è avvalersi di persone molto ma molto intelligenti. Il Cav chiede allora a Sua Grazia quale elaborato sistema utilizzi per stabilire quali persone sono realmente intelligenti. “Lo so facendogli la domanda giusta.”, risponde la Regina “Mi permetta di dimostrarglielo.” La Regina telefona a Tony Blaire e chiede: “Signor Primo Ministro la prego di rispondere alla seguente domanda. Suo padre ha un bambino, sua madre ha un bambino ma lei Sir non ha ne fratelli ne sorelle, chi è questo bambino?” “E' semplice” risponde Blaire “sono io”. Rientrato in Italia il Cav decide di mettere alla prova i suoi collaboratori, convoca ad Arcore Pierferdinando Casini, il Presidente della Camera, e gli chiede “Pierferdi tuo padre ha un bambino, tua madre ha un bambino ma tu non ha ne fratelli ne sorelle, chi è il bambino?” Casini ci pensa su, poi imbarazzato chiede di potersi accomiatare in modo da rifletterci meglio. Subito convoca una riunione di partito ma nessuno degli esimi colleghi riesce ad arrivare a nulla. A quel punto decide di usare l'estrema risorsa, convoca l'onorevole Buttiglione che è pure rinomatissimo e valentissimo filosofo e gli dice “Ascolta, tuo padre ha un figlio, tua madre ha un figlio, ma tu non hai fratelli ne sorelle, chi è questo figlio?” “Naturalmente sono io” risponde subito Buttiglione “Tutto qui?” Casini trionfante corre ad Arcore “Presidente conosco la risposta. E' Buttiglione”. Allora il Cav rassegnato risponde “Cretino, è Tony Blair!”.

FINE PRIMA PARTE.


sabato 16 luglio 2011

Se mi chiamassi ( di Evita Alvarez Salinas)




Se mi chiamassi
Ecco sì
Spero non lo faccia
All’alba
Quando ancora
Ninnolo tra le braccia di Morfeo
Se mi chiamassi
Se mi chiamassi
Mi domanderei
Come cambierà il tempo
Se tu mi chiamassi
E non mi chiamerai
Come potresti mai
Visto che non hai il mio numero
Penso
Che sarebbe
Un tragico errore
Se tu mi chiamassi
Ti chiederei chi sei
E cosa cacchio vuoi
Se mi chiamassi
Spero che non
Mi addebiti il costo
Della chiamata
Se mi chiamassi
Ti chiederei con chi
Vuoi parlare
Se mi chiamassi
Ti pregherei
Di lasciare un messaggio
Dopo il segnale acustico
Se mi chiamassi…
Oh...se mi chiamassi…
Ascolta tesoro
Chiunque tu sia
Io non posso vivere
In questa incertezza
Dimmi se mi chiami o no
E anche quando lo farai
Anzi Facciamo una bella cosa
Senti non chiamarmi
Che è meglio
Per tutti e due
Che ancora non ti conosco
E mi hai già stressato

venerdì 15 luglio 2011

culone

Sono seduto nel banco in prima fila, e aspetto. I ragazzi urlano, si tirano pezzi di carta, alzano le gonne alle ragazze che sbuffano, fingendo fastidio. Io sono seduto e aspetto. Sistemo i quaderni, il libro, tempero le matite, controllo i compiti. Mancano pochi minuti all'inizio della lezione; gli occhiali per il sudore sono scivolati sulla punta del naso, li sfilo e con l'angolo della camicia pulisco le lenti per bene, quindi li risistemo, spingendoli col dito in alto, nella posizione corretta.
Sono pronto. Ecco, la porta si apre e entra la ragione della mia spossatezza, dei miei sogni agitati, delle occhiaie profonde.
E' enorme. E' l'abbondanza fatta persona, una quantità di carne spropositata per un'altezza di poco superiore alla cattedra. Tutto è rotondo in lei, è una donna senza angoli. L'abito, seppur ampio fatica a contenere tutto quella natura, i fiori stampati sul vestitino in alcuni punti si dilatano, come se dispiegassero i petali per offrire polline alle api.
Ci saluta con un sorriso, fa cenno agli alunni di sedersi mentre le sue gambe, eroiche, la trasportano verso la cattedra. Osservo il suo passo ciondolante, quel corpo senza fine avvicinarsi. La professoressa mi regala un'occhiata, passa davanti al mio banco, e io, come ogni giorno di scuola, la seguo con lo sguardo, folgorato dal suo enorme culone.
Un culone ampio, morbido, dolce, eccessivo, poetico. E' un oceano e io mi ci perdo dentro, come fossi il capitano di una barchetta di carta, navigatore felice lungo il solco di quelle natiche.
Che meraviglia quel culone, lo vedo passarmi davanti in tutta la sua baldanza, inguainato da fiori sgarcianti che quasi ne sento il profumo, fatico a trattenermi dal balzare fuori dal banco e sprofondare il mio naso tra quei colori sgargianti.
La osservo giungere a destinazione, soffermarsi un attimo a calcolare lo spazio disponibile per eseguire la missione impossibile dell'infilarsi tra la cattedra e la seggiola. Eppure questo miracolo, costante, puntuale, ligio agli orari di scuola, si avvera sotto gli occhi della classe. Quindi la professoressa si siede, e la sedia sparisce, come fosse un piccolo pomodorino su cui si adagia una burrosa mozzarella di bufala.
Che invidia provo. A volte sogno di essere la mozzarella, altre il pomodorino.
L' incombenza nel sostenere il peso di tutta quella grazia, passa, ora, dalle gambe della professoressa, a quelle della seggiola. E' un cigolare triste, un'allarme continuo:
presto cederò, sembra dire, mi schianterò, di me non rimmarrano che trucili!
Quel culone morbido saltella, si sistema, si struscia su quel legno per tutta la lezione, e ogni scricchiolare mi terrorizza, perchè il pensiero che quelle natiche prestigiose impattano sul pavimento, provocando le risate degli alunni, mi pare un sacrilegio, uno spregio intollerabile.
Potrei uccidere per un offesa simile.
Prego tra i denti quella sedia di non cedere alla legge fisica, così banale e crudele, e di portare in salvo quel culone innocente sino alla fine dell'ora. Intercedo per la professoressa, che non si rende conto del costante pericolo, che spiega, legge e interroga come se sotto di lei non stesse avvenendo la grande battaglia del secolo, non si stesse decidendo il destino della sedia, del suo culone, e del mio cuore.
E le mie preghiere vengono incredibilmente ascoltate perchè la sedia, benedetta, non si piega, non collassa sotto l'attacco di quel peso improponibile.
Resiste.
Sapesse che fitte al cuore mi provoca tutta questa bellezza, signora professoressa. Fosse solo libidine, eccitazione me ne farei una ragione, ci riempirei i miei sogni erotici, e ne trarrei momenti di felicità. Ma non è solo quello, no, quello che provo è passione vera, ammirazione, è amore.
Amore incondizionato per l'ondeggiare ipnotico di quelle natiche che vorrei scalare, come un alpinista impavido pronto a morire sotto una slavina rosa.
E il prossimo anno, cosa ne sarà di tutto questo amore? Un'altra scuola, altri amici, altre professoresse. Ma questo culone non ci sarà più..
E allora, professoressa, mi bocci, mi declassi, mi abbandoni su questo banco per tutta l'estate. Non mi muoverò da qui, rimarrò immobile sino a che non la rivedrò entrare da quella porta, col suo meraviglioso sorriso verticale.

Che culo!

Che culo quelli che vivono in città ed hanno tutto sotto casa.

Che culo quelli che vivono in campagna, in mezzo al nulla. Vuoi mettere la pace che li avvolge?

Che culo avere degli amici che hanno la casa vuota a Ponza proprio quando serve a te.

Che culo prendere l’ultimo volo al volo.

Che culo poter viaggiare quando si vuole.

Che culo sodo quel tizio palestrato.

Che culo! Diluvia proprio adesso che sono arrivata sotto casa.

Che culo avere un lavoro a tempo indeterminato, oggi.

Che culo nascere da questa parte de mondo.

Che culo nascere donna.

Che culo poter amare ed essere amati.

Che culo poter sorridere.

Che culo aprire il frigo e …..scegliere.

Che culo avere una penna ed un foglio adesso.

Che culo avere del tempo per scrivere in una serata estiva della nostra fortuna occidentale o per meglio dire

del nostro gran culo occidentale.

domenica 10 luglio 2011

Meraviglioso!


'Marino Pacileo, alias Gorbaciof per via della voglia che ha sulla fronte, vive in una condizione di solitudine volontaria. Gli piace la sua routine: al lavoro ruba i soldi del carcere per giocare d’azzardo nel retro di un ristorante cinese. Negli occhi di Lila - interpretata da Mi Yang - lui vede purezza, un altro sé stesso, vede un possibile 'noi'. Decide di fuggire con lei, e si gioca tutto al tavolo della vita'.

venerdì 8 luglio 2011

Meglio il medico.

  Cassette di legno leggero o plastica impilate una in fila all'altra compongono fantastici labirinti, ruttano frondosità compiacenti, imprigionano rotondità intriganti: seducenti carciofi, mazzi di asparagi spersi vicino a loquaci arance, timide zucchine in trepida attesa, bietole in disordine, cicoria spettinata, lucide melanzane, occhieggianti pomodori, pere ordinate in loculi di plastica sottile, limoni dispettosi, funghi orfani di foglie e muschi, piselli spaventati, fave sconcertanti, carote turgide, prugne dissolute, fichi osceni, sgocciolanti insalate in fila per quattro, pelosi kiwi, ciliege preziose, il dolce basilico, l'invadente prezzemolo, mele furbastre e saccenti, dinamici navoni, peperoni compromettenti, fragole orgogliose. Ma che pesche nell'ombra, che angurie al sole, ma quanto costano le banane? Chi ha raccolte gli ananassi?
Mi afferro ad un poderoso melone, uno dei primi della stagione, lo tasto quindi lo porto al naso, lo annuso con finta competenza, comunque non ha odore alcuno. Anna, mia moglie, me lo toglie di mano e lo ripone in cima al mucchio, lei non necessita di sfoggiare inutili virtuosismi, è una femmina pratica, fornita di autentica famigliarità per tutto ciò che concerne la spesa, compreso l'utile e sempre aggiornato database interno dei prezzi e della qualità nei diversi negozi. E' in grado di dire, per esempio, in quale i pelati o l'extra vergine sono più a buon mercato questa settimana, ed è capace di percorrere un chilometro a piedi solo per fare un buon affare. Non è per i soldi, per lei è una questione di principio, non ci tiene a fare la parte della stupida, così facciamo ampi giri, entriamo e usciamo dai diversi super in perenne ricerca della maggiore qualità al minor prezzo.
Anna indossa il guanto di plastica come non avesse mai fatto altro, solleva un sacchetto di patate al selenio maggiorato e lo cala nel cestino di plastica la cui custodia tocca a me, è il mio principale compito, il motivo per cui sono qui insieme al trasporto della sporta e ad una gradevole conversazione, o meglio alla mia capacità di prestare un ascolto partecipante a tutto ciò che mia moglie ha la bontà di dire.
-Tesoro, che dici stasera di una crema di fave e piselli? Poi bistecca ai ferri e patatine, ma quelle surgelate già tagliate, non queste?
-Va bene Annuccia ma una frittatina di zucchine invece non è meglio? Mangiamo troppa carne ultimamente.
-Purché tu non lo dica per il colesterolo, ce l'hai basso, è inutile che ti preoccupi, e tra uova e carne...
Intanto Anna sbatacchia una noce di cocco come a cercare la sorpresa, quindi passa a strizzare zucchine, soddisfatta ne fa una piccola scorta che ripone nel cestino sempre più pesante.
-E' che da un po di tempo non mi va di fare niente.- dice - E se ti arrostissi una fetta di spada con una bella insalatona fresca? Fa un caldo oggi.
-A me va tutto bene, anche la fettina, non voglio che ti stressi.
Anna sceglie sicura pomodori, ma sono verdi, lattuga e insalata riccia, guarda che freschezza, sedano e carotine, a questo prezzo mi pare di rubare, ripone tutto in sacchetti che annoda e affida all'abbraccio del solito cestino. Soddisfatta lo afferra e s'incammina nel dedalo fino nel ventre del negozio, per pesare e pagare, non perdendo lungo la strada occasione di palpeggiare ogni varietà esposta.
-Si prenda un po di queste mele, non sono belle ma le garantisco che sono ottime. Si usa dire no(?) che in botte piccola...
-La ringrazio ma le mele non mi piacciono.
-Ma come? Lo dice chiaro anche il proverbio, una mela al giorno...
E' un uomo piccino e asciutto, anziano e ingobbito ma instancabile a riordinare la merce e a spostar cassette.
-Si prenda un po di queste banane, sono favolose, come il prezzo.
A parlare è una signora opulenta, le labbra g-rosse e il sudore che le luccica sul trucco pesante, oppressa nell'abito di maglina che sagoma il ventre gonfio e i fianchi colossali, che strizza il seno immenso e molle che deborda oltre la scollatura.
-Sono veramente buone, non hanno niente da invidiare a quelle dieci e lode. Non sono ripetenti, non le hanno mica bocciate e iscritte al Cepu. - Ride forte che la ciccia fluttua come gelatina.
-E' vero,- interviene una giovane donna attraente, sudamericana forse- banane così sono davvero splendide. Prendile anche tu, non vedi quante ne portiamo via noi? Non bastano mai.
Gli vorrei dire che non dipende da me ma mi limito a sorridere e scivolo con lo sguardo sulle natiche della giovane, ha begli occhi.
-Che le banane fanno bene. Bisogna mangiarne tante. Io le do sempre al mio compagno.- ricomincia la grassona.
-Eh sì, tengono l'uccello bello duro.- chiosa la ragazza, intanto fa un gesto simile a quello detto dell'ombrello. Non potrebbe essere più chiara.
-Quante ne ho mangiate io ai miei tempi. Che ne facevo anche tre quattro al giorno, non me ne scappava nessuna. Altro che viagra, o quell'altro, come si chiama(?), non avevo certo bisogno di pastiglie. La voglia ce la mettevo io, al vigore ci pensavano le banane.- si intromette il vecchio gobbetto, tutti e tre prendono a ridere.
Io elaboro un risolino stentato ma vorrei sprofondare, vorrei non essere qui. Mi allontanerei ma ho paura di fare la figura dello sfigato, rimango con quella specie di smorfia sulla faccia che dovrebbe essere un sorriso e che invece ogni istante che passa rassomiglia sempre più ad una sinistra paresi, ad un rigor mortis.
In mezzo alla gente non mi trovo a mio agio, sempre stato così. Per fortuna arriva Anna, mi passa la sporta, intanto fulmina le due donne con un'occhiata, quelle si voltano serie, riprendono ad accumulare banane. Anche il vecchio si allontana, s'appiccica ad una massaia disorientata dinnanzi alla cassa di fagioli.
-Andiamo. - dice Anna, e andiamo.
Quando scatta il semaforo Anna balza in avanti, io arranco dietro, è allora che me lo vedo venire incontro, ad attirare la mia attenzione è la mascherina sanitaria che gli copre la bocca nascondendo parte del viso magro. Quando i nostri sguardi si incrociano quasi non provo imbarazzo, mi sembra di conoscerlo, per un pelo non lo saluto.
-Possibile che non ascolti mai!? Sto parlando a vanvera a quanto pare. Giovanni, ma è possibile che un giorno sì e l'altro pure il cervello ti vada in pappa!?
Non è vero, ve lo giuro, non capita mai, non so cosa mi sia successo, non è mai necessario che Anna mi rimproveri o alzi la voce. Forse al massimo un trimestre sì ed uno no. Da quanto sono distratto, perso, assente? Non lo so dire, ho camminato come in sogno, inconscio dell'ambiente intorno, delle mie azioni, come un fantoccino di creta. Da tempo non mi accadeva. Ho smesso da così tanto di incorrere in questa brutta abitudine, è una cosa che non mi succede più.
-Ma la vuoi smettere!? Non hai voglia di vivere come gli altri? Non ti basta essere un insetto inetto che ha paura della propria ombra, che non è in grado di intraprendere alcunché, vuoi anche essere uno zombie? Guarda, stai attento a te, sento che mi sta salendo su un fumasso che se non la pianti ti incenerisco.
Vorrei rispondere ma non ne sono capace, come in sogno quando vuoi camminare ma non puoi, io non riesco ad uscire da qua dentro, da questa cappa che mi circonda opprimente, continuo a muovermi lo so, ascolto, ma...
Inciampo e precipito a terra rovesciando la spesa, le zucchine sboccano, i pomidoro rotolano lungo il marciapiedi, Anna mi afferra per un braccio, mi aiuta a tirarmi su.
-Stai attento a come cammini- dice a voce alta a beneficio dei passanti incuriositi, certo divertiti dalla mia goffaggine. Ma io lo so che è stata lei a farmi lo sgambetto.
-Grazie cara.

A casa continuo a non sentirmi bene, vago da una stanza all'altra senza ragione, e poiché la cosa mi fa sentire davvero stupido invento scuse a beneficio di me stesso, cerco oggetti di cui non mi curavo da mesi, o che ho appena posato, che magari ho sotto gli occhi. Controllo cento volte i rubinetti temendo di averli lasciati aperti, così col frigo, vado ad orinare più volte, che provo lo stimolo ma poi no, ripongo l'affare e parto alla ricerca di un certo cacciavite.
Diciamolo, sono inquieto, sento un'oppressione al petto, un vago senso di vomito, credo di essere depresso, è uno di quei giorni in cui non vorrei esistere. Devo anche badare a non finire fra i piedi di Anna, non aspetta altro per strapazzarmi, quando sono così non mi sopporta, e la capisco, ha ragione, sono il primo a non sopportarmi. In me ora c'è qualcosa che conosco, come un ospite sgradito che non si faccia scorgere per anni, che ti scordi persino che faccia ha e che esista, e all'improvviso quello comincia a ciabattare per le stanze, a sputare a terra, ad imbrattare di escrementi le pareti. E tu lo sai che questo è solo l'inizio, presto comincerà a mordere e a graffiare, diverrà pericoloso, armerà le mani di coltelli e martelli. E tu hai già paura.
Prendo a sudare, maniacale vado più volte al telefono e digito il numero della croce verde ma poi non ne faccio nulla. Dopo avere cancellato per l'ennesima volta la chiamata mi capita di pensare, non so il perché, al viso esangue di don Pino Cicogna, il vice parroco di quando ero bambino, il prete che ci spiegava il catechismo, che ci portava in gita sui prati, che ci assisteva nei ritiri spirituali. Magro, il viso affilato, il naso adunco con triplice piega della pelle ad ogni lato, una faccia da squalo.
Dapprima questo è un pensiero mite, insignificante direi, poi si acumina, fa male, all'improvviso ricordo chi era don Pino, perché lo chiamavamo tutti Don Pompino. Incredibile come li avessi dissociati, don Pino e don Pompino intendo, Dr. Jekill da Mr. Hide. Un bel tuffo nel lontano passato. Di pancia.

-Togliti di torno quando fai così sembri più scemo di quello che sei. Non vedi che ho da fare?!
-Non mi trattare così, anch'io merito quel poco di rispetto.
-Non ci provare nemmeno, non sei neanche in grado di fare i tuoi interessi. Tua sorella se la ride nella casa in montagna che ti ha fregato. Se non ci fossi stata io ti avrebbero spogliato di tutto.
-Smettila anch'io sono un uomo, come tutti.
-Non ti permettere di alzare la voce con me. Scordatelo, non ci provare neppure, tu sei un ameba non un uomo.
-E tu sei una troia. Una puttana, una zoccola, una bastarda senza cuore. Ho voglia di ucciderti.

Chiuso al cesso temendo terribili rappresaglie, dopo il mio sfogo, l'unico da sempre, sono dovuto fuggire per non prenderle, che Anna è temibile, non che sia poi così forte, sono io ad essere cagionevole di salute. Comunque sono qui seduto sulla sponda della vasca alla mia quinta sigaretta tremula, avevo smesso tre quattro anni fa, me ne ero liberato insieme all'antico vizio della bottiglia. Questo è il pacchetto che mio cognato ha scordato la settimana scorsa a cena. Rimugino e soffro, mescolo mescolo, trituro l'anima senza sapere il perché, mi graffio il petto glabro per avere un po di sollievo. Non so cosa mi stia accadendo ma me la merita tutta, ha ragione Anna, sono solo una merdolina pazza.
Di colpo realizzo, l'uomo anziano che ho incontrato oggi, quello con la mascherina davanti al viso, è don Cicogna.

La rivelazione mi ha in qualche modo calmato, ho aspettato che Anna uscisse e sono corso qui in salotto a cercare Cicogna Pino sull'elenco. Così scopro che abita in zona, giusto due comuni più in là, a Rapallo. Ma appena lo trovo, provo sì un senso di potere e di trionfo, ma subito con mio sconcerto mi sento vuoto, non so che fare. Allora mi fumo le ultime due sigarette, sì proprio in salotto, e a bella posta getto la cenere a terra, persino sul tappeto. A pensare che l'unico che può fumare in casa è quel bellimbusto del caro cognato, ma neppure lui in salotto. Io quando fumavo lo dovevo fare al freddo, al caldo, sotto la pioggia sul terrazzino.
Spento l'ultimo mozzicone nell'orribile bomboniera di vetro soffiato male in Cina risolvo di chiamare.
Quando Don Pino risponde resto zitto, la sua voce annaspa nell'ansia crescente, aspetto che sia lui a mettere giù. Dopo dieci minuti richiamo, poi ancora e non parlo.

All'inizio non c'era niente che paresse strano, solo un'amicizia che non poteva che lusingarmi, uno grande che si interessava all'ometto di sei anni che ero. Don Pino una volta alla settimana mangiava a casa nostra, aiutava mio padre in giardino, asciugava i piatti nel corso di fitte conversazioni con mia madre, scherzava con mia sorella più grande dei suoi tanti fidanzati. Sempre allegro, ripieno di scoppiettante energia, sempre al centro della scena. Aveva la voce stridula e il sorriso affilato, ora lo so era una persona colma di sé, si piaceva tanto. O forse no.
Per anni sono stato suo schiavo, obbedivo e non fiatavo. Credevo fosse amicizia, lui diceva che era una forma di amore divino, io mi sentivo sporco. Non potevo parlarne con nessuno, troppa la vergogna, con i miei genitori poi mi sarei imbarazzato il doppio, ero anche convinto che non mi avrebbero creduto, che magari le avrei pure prese.
Nonostante lo schifo che provavo ero orgoglioso di quelle attenzioni che credevo esclusive, ancora non sapevo che erano equamente divise fra parecchi di noi.
Col tempo le cose si sono complicate, le pratiche si sono evolute, per esempio mi faceva orinare nel calice, nella pisside, persino nelle ampolline, e, dopo averle raccolte con somma cura dalla patena, metteva le ostie consacrate tra il mio ano e le mutande. Io dovevo dormire, mangiare, sedere nei banchi di scuola recitando ogni ora un numero prestabilito di pater e ave sempre con l'ostia consacrata nell'incavo dei glutei, che don Pino la recuperava solo il giorno dopo.
La cosa è andata avanti fino ai miei undici anni, quando ha cominciato ad ignorarmi, ero diventato grande, non lo stuzzicavo più. E' allora che ho scoperto che non ero il solo, che a soddisfarlo eravamo una coorte; la maggior parte di quelli che frequentavano i locali annessi alla chiesa, attirati dal ping pong e dal calcio balilla.
E' andata che quando don Pino si è girato dall'altra parte io ho continuato ad indossare il mio vestito di colpa e vergogna, non lo smettevo mai, né durante l'adolescenza né alla maggiore età. Così non ho avuti carezze né casti baci, quelle erano cose che funzionavano per gli altri, non per me.
Il mio primo rapporto sessuale l'ho compiuto a 28 anni, nei giardini della stazione con un marchettaro in astinenza. Mi sono sentito male per settimane, ma è stato l'inizio della risalita e del riscatto, tanto che pochi mesi dopo ho trovato il coraggio di andare dal vescovo a raccontare tutto. Mi ha dato del visionario, mi ha minacciato, ha usato tutte le armi per dissuadermi a intraprendere azione alcuna.
Sono andato dai carabinieri, mi hanno consigliato di lasciare perdere, don Cicogna era una personalità stimata da tutti, un pilastro della comunità, aveva fatto così tanto per la gioventù. Mi hanno anche messo in guardia, con le calunnie, hanno detto, si passano guai seri, e solo dietro mia insistenza si sono messi davanti alla macchina da scrivere. Mi hanno informato che loro certo erano obbligati a raccogliere la mia denuncia ma che tanto non sarebbe servito a nulla, che era tutta roba prescritta, che col caldo che faceva avrei fatto meglio a mettermi il costume e andarmene al mare.
Ciò che è seguito è stato un inferno che ho vissuto solo contro tutti. Ma con il tempo qualcosa ha cominciato a muoversi, qualcuno è uscito fuori dal buco, ha superato il muro dell'omertà e si è fatto avanti, dal buio al centro del cerchio di luce.
Quello che è venuto a galla è stato devastante per tutti, per noi vittime, per la comunità, per la diocesi, per don Pino, che infine è diventato un ex prete, nudo e crudo come tutti. Si è scoperto che altri prima di me avevano raccontato prima al parroco e poi al vescovo ciò che avevano subito, ma quelli avevano negato, avevano minacciato, avevano soffocato, non avevano preso alcun provvedimento. E così don Pino ha potuto continuare i suoi maneggi per anni su decine di bambini contemporaneamente, straziando oltre cento vittime. Ha infierito pure su bambini che comprava dal suo spacciatore di cocaina. Per finanziare i suoi vizi ha realizzato foto e film pedopornografici, si è prostituito lui stesso, in rapporti dove era lui a incarnare l'impotenza umiliante della vittima.
E' stato sopratutto merito mio se è stato giudicato dalla giustizia, se ora non è più prete ma una persona comune, per nulla in intimità con Dio. Fosse dipeso da me lo avrei scomunicato. Non credo abbia fatto un solo giorno di carcere. Fosse dipeso da me...non lo so.

-Pronto! Ho detto pronto! Ma chi è? Non vi stancate mai? Vi avverto che ho intenzione di rivolgermi alla polizia postale.
-Sono Riccardo. (…) Riccardino.
-Riccardino? (…) Cosa vuoi? Non ti basta avermi rovinato la vita? Cosa vuoi ancora? Come hai fatto a trovarmi?
-(...).
-Rispondi.
-(...).
-Parla per il maledettissimo Dio.
-(...).
-Mi hai accusato, mi hai trascinato nella polvere come l'ultimo dei criminali. Mi hai messo alla gogna. Per cosa poi? Cosa ti avevo fatto? Non ti volevo bene? Hai messo contro di me gli amici, i parrocchiani che mi stimavano, il vescovo, l'intera chiesa. Per colpa tua mi hanno messo alla porta, ho passato dei giorni in prigione, ho perso la fede. Per colpa tua mia madre è morta di crepa cuore. Io non ti avevo mai fatto del male. Rispondi: ti ho mai fatto del male?
-(...).
-Indulgere nel sesso è sempre stata la mia debolezza. Dovevo essere più forte. Avrei dovuto impegnarmi di più nel coltivare la temperanza, è vero, ma certi appetiti me gli ha dati Dio. Se li avevo era perché Lui lo aveva voluto. Quel che ho fatto l'ho fatto in quanto uomo. E' capitato a me ma poteva capitare a chiunque. Ogni uomo poteva essere al mio posto. Quello che fa uno è nelle corde di tutti. Vi atteggiate a virtuosi ma basta tanto così per trovarsi dall'altra parte. E tu, pensi di essere senza colpe? Rispondi!
-(...).
-E non pensi che prima di essere il carnefice io sono stato la vittima, che ho subito ciò che poi ho imposto? Che ciò che ho fatto allora l'ho fatto perché ormai, proprio in quanto vittima, ero già parte di una catena che non potevo spezzare? Che ripetere il crimine era per me un sollievo, una riparazione?
-(...).
-E non pensi che seppure carnefice, uomo nero, mangiatore di bambini, mostro, cattivissimo pedofilo ho mani e piedi come tutti gli altri? Se mi spari io non sanguino? Se mi insulti non soffro come gli altri? O pensi che io sia un alieno, insensibile, la creatura di un altro pianeta, un insetto con le antenne magari. Cazzo parla!
-(...).
-Sono malato. Sono stato punito. Ho l'accaivu. Non provi pena per le mie sofferenze?
-(...).
-Io ho pagato il mio prezzo, tu magari pensi che è ancora poco, che avrebbero dovuto buttarmi dentro le fogne e gettare via la chiave. Straziarmi le carni magari, ma non è questa la legge degli uomini. No, sono stato giudicato ed ho pagato per intero il conto. E tu? Tu che odi e non sai perdonare sei convinto di avere regolato i tuoi conti? Non credi che un giorno qualcuno ti chiederà ragione del male che mi hai fatto? E parla! Stai sempre zitto, sei un verme senza la lingua? Godi a fare il vigliacco? Parla, mi hai chiamato, ora parla! Io non sono un mostro. Io non merito questo.
-Porco.
(Clic). Metto giù.

Steso sul letto abbracciato alla bottiglia di vecchio liquore stantio un po' svanito, disperato e senza alcun futuro. Immagino spettacolari suicidi come scene di un film lacrimoso ben sapendo di non avere coraggio. Non sarei qui ora. Sarebbe già successo tanti anni fa. La nausea mi assale improvvisa, liquidi acidi risalgono alla luce e si lanciano sul prezioso copriletto di seta.
Mi tiro su seduto, solo sul letto, solo dentro la stanza che gira, solo dentro il palazzo che vortica, solo come una briciola di polvere dentro la città, incastrato nella roccia che sostiene il continente, schiacciato da un pianeta vuoto, lui sì fermo, disabitato, giusto che in mare forse ci sono dei pesci, ma quelli non contano. Non molto più di un brano di muffa sotto piedi dell'evoluzione, poco più di una merda dispersa dal vento. Un puntino di niente.
Poi all'improvviso senza ragione msono felice, non era mai capitato, sarà il liquore ma sono sazio, sono forte, sento che ho pagato il mio di debito, per la prima volta avverto che l'universo è casa mia, che dove mi trovo è proprio il mio posto, solo il mio, e non per caso. Sento di essere perfetto così, che ogni cosa va bene, provo intimità con tutto, sopratutto con me stesso, e ve lo giuro questa è la parte migliore. Potrei morire adesso, non me ne importerebbe, ora che sono in pari con l'esistenza, che non ho nulla da recriminare, ora che ho trovato il mio posticino non ne verrei affatto diminuito. Ho finalmente appeso il cappello ad un chiodo là sopra l'arcobaleno. Tutto il resto non conta, niente può più accadere, è finita, per sempre, basta finalmente. E tutto sommato sì, questo è un buon finale.