"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

lunedì 30 maggio 2011

SCARPE SCOMODE

Finalmente era a casa. Si era buttata sul divano e si era tolta immediatamente le scarpe lanciandole sul tappeto, prima una poi l’altra.
Le avevano fatto male tutto il giorno ma erano quelle eleganti che metteva
col tailleur quando aveva le riunioni coi venditori. Mentre parlava Spanzani, se le era anche sfilate per un po’ sotto il tavolo della conference room, provando un piacere sottile, un benessere momentaneo, sottolineato da un sospiro profondo e involontario.
Non era serena, lui non stava bene e il pensiero andava sempre là. Non si sentivano da un po’, la cura contro l’amore infelice non si poteva interrompere ma tanti anni insieme non si cancellano e l’aveva chiamato.
L’aveva ascoltato parlare per venti minuti filati, a fatica era riuscita ad infilarsi ogni tanto nel fiume di parole che arrivavano dal telefono per dire qualcosa anche lei , ma aveva avuto la sensazione che quelle brevi interruzioni lo infastidissero per la paura di perdere il filo del discorso o di dimenticare qualche particolare.Poi una chiamata sotto aveva fatto finire la conversazione bruscamente. In fondo, quello che lui doveva dire era stato detto. La telefonata poteva terminare.

Era rimasta così, col cellulare in mano per qualche secondo, sospesa tra un prima e un dopo, in un tempo irreale. Si ricordò improvvisamente che aveva un appuntamento con l’agenzia immobiliare, allora si era infilata di nuovo le scarpe scomode, aveva preso la borsa, le chiavi della macchina ed era scesa di corsa.

Mentre guidava si sentiva inquieta, una sensazione imprecisa ma crescente come di marea che saliva dalla pancia la opprimeva. Dentro di lei c’era un flusso continuo di pensieri che non poteva controllare, un ritorno infinito di immagini, ricordi, voci e poi, all’improvviso, aveva capito. Tra tutte quelle parole al telefono non c’era stato posto per un semplice “tu come stai?”, un piccolo segno di interesse anche per la sua di vita, una minima curiosità per il suo quotidiano, per le sue difficoltà, e fatiche e momenti bui, nessuna solidarietà tra naufraghi.

No, nessun “tu come stai”. Non c'era stato spazio e tempo per lei.

Si ritrovò con quelle lacrime silenziose e stupide che le scendevano a tradimento sulla faccia. Era arrivata alla ragione profonda di quel pianto ribelle e ad una rivelazione: che c’è sempre una ragione precisa dietro ad ogni evento e quella ragione adesso stava lì, in tutta la sua chiarezza, riaffiorata da sotto cento strati di sensi di colpa dove lei stessa l’aveva nascosta.

Ferma allo stop del viale alberato che portava al parco, incrociò il suo stesso sguardo nello specchietto retrovisore, quella donna riflessa la stava guardando con occhi diversi questa volta, meno accusatori del solito.
Aveva fermato la macchina al bordo della strada, la luce era veramente una meraviglia in quella sera di inizio estate. Era scesa dall’auto per guardare di più, si era tolta le scarpe e si era seduta nel prato, le mani e i piedi nell’erba fresca e gli occhi persi nel cielo rosa. L’agenzia poteva spettare..come tutto il resto.


Scritto da FULVIA LIVIERO

Ad una sconosciuta.

Sogno. Forse è il fresco della notte che mi accarezza a farmi immaginare una tenda rossa, cosparsa di macchie dorate del sole che attraversa il tessuto. Il colore cambia continuamente fra le pieghe della tenda mossa dal vento. Siamo insieme, nudi, racchiusi e nascosti dalle stesse pareti. Il respiro e la voce diventano una cosa sola, io e te siamo una cosa sola. Stiamo facendo l'amore da giorni e ancora ne vorremmo. E ancora ne vorremo. Il sogno cambia inquadratura e mi mostra da lontano due corpi che si osservano, si stringono, si tengono e si stropicciano, e le mani di uno che corrono a cercare il cuore dell'altro.
Ora lo stato inconscio del sonno ha deciso di regalarmi un brutto risveglio. Ti stai rivestendo, ti osservo sdraiato. La prospettiva obliqua e la stanchezza non aiutano a capire esattamente cosa stai facendo. Provo a chiedertelo, ma ho già la certezza che non risponderai. All'improvviso sei completamente vestita, proprio come nell'istante in cui hai messo un piede incuriosito e un po' timoroso nella stanza la prima volta. La tua mano elegante accarezza la maniglia, con una leggera pressione decide per te che è ora di andare e senza dire una parola lasci che la tua ombra che ti segue sia l'ultimo dettaglio di te che la mia memoria potrà conservare. Il sonno si fa agitato, il sogno si fa cattivo. Il vento ora è salito, se avessi la forza di alzarmi vedrei di certo dalla finestra il mare incattivito e la spuma bianca delle creste trascinate dalle raffiche. Mi rigiro scomodo, il giaciglio che prima sembrava non dovessi mai più abbandonare è insopportabile adesso. Posso tristemente distendermi in ogni senso lungo il letto e trovare uno spazio dannatamente libero. Non c'è più il tuo corpo a dare una dimensione allo spazio e il tuo respiro non è più qui di fianco a scandire il nostro tempo. Alla fine il disagio è talmente forte che mi sveglio, apro gli occhi, sul mio viso un'espressione nera e grigia allo stesso tempo. Mi volto per cercarti sapendo di trovare solo un cuscino ormai sgualcito già pronto anche lui a diventare un brutto ricordo. Poi sorrido, prima un movimento appena accennato delle labbra, poi una distensione irresistibile dei muscoli del volto. Sei ancora lì. La sequenza di immagini in cui ti alzi e abbandoni me e la stanza è stato solo un sogno. Sei lì di fianco a me, con quel corpo tanto sensuale e misterioso da sembrare ancora acerbo. Il lenzuolo ha deciso di nascondere al mio sguardo solo il tuo polpaccio. La mia mano sfiora tutta la tua schiena e corre lungo la tua pelle, fino alle caviglie, afferra decisa il lenzuolo e lo trascina fino alle tue spalle. Un piccolo, leggerissimo bacio sul collo per non svegliarti, ma per saggiare la tua distanza dal mondo in quel momento. Poi di nuovo quel sorriso che ha definitivamente scacciato un brutto sogno e che accarezza la dolcissima idea di fare ancora l'amore con te in un freschissimo mattino dall'aria un po' salmastra.

Senza

La vena è quella delle considerazioni spicciole. Ieri sera si è alzato un vento senza ragione e senza origine nota. Sembrava correre da est, attraversare tutta la pianura, volteggiare intorno alle Apuane e buttarsi sul Tirreno per fermarsi forse in Corsica. Temperatura bassa, raffiche oltre i venti nodi e quella punta di umidità che basta a far sentire ancora più freddo.
Non ricordo primavere così poco ordinarie, non ricordo salti di vento, corse di nuvole e picchi di maltempo così frequenti. Ero abituato alla sicura mutevolezza, lenta e quasi impercettibile del cielo padano. Una settimana di grigio uniforme e tre giorni di sole pallido e tiepido. Così era e così doveva restare. Invece niente è più come prima. Nello spazio di una mattinata il cielo passa dall’azzurro al nero, l’asfalto dal rovente all’umidiccio e poi di nuovo caldo per il sole nuovo. E io ho perso le mie certezze, i miei riferimenti, la mia tranquillità.
Non ho il coraggio di schierarmi dalla parte dei colpevolisti e nemmeno da quella degli innocentisti.
Potremmo essere noi la causa di tutto questo, ma potremmo esserne semplicemente attori da cammeo. Non è questo il punto.
Il punto vero è che se vi fermate a guardare il cielo per tre ore, vi accorgete che l’equilibrio non esiste più. Basta una diminuzione della salinità dell’Atlantico, una piccolissima riduzione dell’uno percento, perché le coste del Portogallo, della Spagna, della Francia e dell’Inghilterra diventino fredde come l’Alaska. Basta un punto percentuale. Meno della metà dell’inflazione annua.
Basterebbe quello a metterci in ginocchio, a creare una catastrofe, a dare inizio alla fine.
E io aspetto quello. Una passata di ghiaccio su tutto l’emisfero boreale per dare inizio all’ultima danza di questa lunga festa. Io resto qui, in piedi con la faccia rivolta al vento, ad aspettare che arrivi la fine perché ci sia un nuovo inizio. Un inizio senza cemento, senza silicio, senza petrolio, senza filigrana. E senza capitale, senza lotta operaia, senza le scomuniche, senza i satelliti, senza le bombe artificiali intelligenti e senza quelle umane e deambulanti. Senza il potere, senza la giustizia e senza l’ingiustizia, senza la morale e senza gli amorali, senza la superficialità e senza il grande pensiero. Senza la religione che china la testa e senza quella che bastona le teste che non si chinano, senza il turismo intelligente e senza il turismo sessuale, senza l’amianto e senza la carta riciclata. Senza tabacco e senza oncologi. Senza guerra preventiva e senza pace duratura.
Senza niente. Senza neanche me, perché l’Alleanza non è più possibile.
Solo un leone che corre e una gazzella che scappa. Senza metafore.

domenica 29 maggio 2011

Cartolina di natale da una prostituta di Minneapolis

Hey Charlie, sono incinta e vivo sulla nona proprio sopra una sudicia libreria vicino a Euclid Avenue
e non prendo più droga e ho smesso di bere whiskey
e il mio uomo suona il trombone e lavora giù alla ferrovia

Dice di amarmi, anche se il bambino non è suo
dice che lo crescerà come se fosse suo figlio
e mi ha regalato un anello che portava sua madre
e mi porta fuori a ballare ogni sabato sera

E hey Charlie, ti penso ogni volta che passo davanti ad un distributore
Sarà per tutta la brillantina che ti mettevi nei capelli
e ho ancora quel disco di Little Anthony and the Imperials
ma qualcuno mi ha rubato il giradischi, che te ne pare ?

Hey Charlie, sono quasi impazzita dopo che hanno beccato Mario
sono tornata ad Omaha a vivere con i miei
ma tutti quelli che conoscevo o erano morti o in prigione
così sono tornata a Minneapolis, questa volta penso di rimanerci

Hey Charlie, penso di essere felice per la prima volta dal mio incidente
e vorrei avere tutti i soldi che spendevamo in roba
mi comprerei una concessionaria di auto usate senza venderne nessuna
guiderei un auto diversa al giorno a seconda di come mi sento

Hey Charlie, cristosanto, se vuoi sapere la verità
non ho un marito, non suona il trombone
ho bisogno di un prestito per pagare l’avvocato, e Charlie, hey
potrò uscire in libertà vigilata in tempo per San Valentino.

Tom Waits
Tom Waits – Blue Valentine 1978



sabato 28 maggio 2011

La vera storia di Elvis!

Film cult tratto da un racconto demenziale di Joe R. Lansdale.
da vedere  in lingua originale con i sottotitoli.

venerdì 27 maggio 2011

Il tempo


E' il tempo che mi uccide.

Il tempo che non passa mai e ti avvolge come fosse una ragnatela dalla quale non ti libererai.

Il tempo che ti passa accanto veloce ,travolgendoti.

Non distingui più tutto ciò che nel tempo rimane o che il tempo nemmeno considera.

Io sono il mio tempo....

giovedì 26 maggio 2011

Basta con le rotonde stradali

Non se ne può più di rotonde stradali, hanno fatto il loro tempo. C'è bisogno di innovazione, di nuove idee. Modestamente io, avendo un cervello al di fuori dalla media, ho elaborato nuove forme:

Triangolo stradale

I veicoli in entrata forniscono la precedenza a chi proviene da destra e da sinistra. Quando si stufano ingranano la prima e  partono sgommando, eseguendo il gesto dell’ombrello verso gli altri automobilisti.

Ottagono stradale

Quando si giunge nei pressi di un ottagono, si esegue un testacoda e si torna a casa .

Parallelepipedo stradale.

Sul parallelepipedo possono solo transitare autovetture che vengono guidate da persone sotto il metro e sessanta d’altezza. Devono dare la precedenza a sinistra il lunedì, il martedì e il sabato pomeriggio, dalle 13 alle 14,30. Negli altri giorni facciano quello che vogliono.

Rombo stradale

 La vettura si immette nel rombo, esegue un giro completo e poi si ferma da dove era partito. Dopo tre ore il guidatore può scendere dall’autovettura e andare a prendersi un caffè. Al suo ritorno la macchina sarà messa sotto sequestro dalla polizia municipale

Pentagono stradale

Gli automobilisti devono spegnere il motore e spingere la vettura sino al centro del pentagono. Lì si terrà una gara di tiro alla fune. Il vincitore avrà diritto a prendersi la macchina che vuole. Chi si lamenta verrà impagliato e posizionato su un piedistallo al centro del pentagono.

Ennagono stradale.

Possono passare dall’ennagono solo le macchine rosse. Il comune dovrà posizionare nelle vicinanze dell’ennagono una postazione di verniciatura rapida a prezzi popolari.

Per chi legge il Manifesto sconto del 10%.

Decagono stradale

Hanno la precedenza quelli che arrivano da destra, ma solo per una volta. Se il giorno dopo ripassano da lì, devono fare passare tutti per almeno tre ore. Scaduto il termine, possono chiamare il numero verde indicato al centro del decagono e chiedere il permesso per passare. A volte è occupato, abbiate pazienza.

Ettagono stradale

Hanno la precedenza quelli che giungono da sinistra, oppure che vengono da destra ma sono di sinistra. Quelli che sono di destra, ma che arrivando da sinistra potrebbero passare, non passano comunque. Se quelli di destra si lamentano, si può mettere in atto l'esproprio popolare della vettura. Sulla vettura ci può andare a vivere una famiglia di cassa integrati.

Parallelogramma stradale

giunti nei pressi del parallelogramma, l'automobilista si deve affacciare dal finestrino e maledire a piacere:
il governo
il capo del governo
il presidente del Milan
il padrone di Mediaset
quelli che hanno pù di tre ville in Sardegna.
Dopo averlo fatto, l'automobilista può immettersi nel parallelogramma, suonando il clacson tra una folla di cittadini festanti.

Esagono stradale

L'esagono stradale va costruito in una notte, mentre i cittadini dormono, in posti dove nessuno passerà mai. Lo scopo di questa struttura è segretissimo. Quindi, è meglio non parlarne.

Cono stradale

Le autovetture si infilano in un cono e vengono teletrasportati in un pianeta meraviglioso, con alberi dai colori sgancianti, tramonti infuocati e popolato da animali mansueti e meravigliosi. Purtroppo l'aria non è respirabile dall'essere umano e l'automobilista muore dopo pochi secondi dall'arrivo.

Quadrato stradale

Le macchine da lì non passano,e basta. Se non vi sta bene ve ne potete andare affanculo!

Una chicca presa in prestito da "UN CALCIO IN BOCCA FA MIRACOLI" di Marco Presta.

"Mi trovo in quel particolare stato d'animo che, in genere, una moglie non lascia mai passare impunemente e che la porta a domandarti: "Ma cos'hai?", attendendo una risposta carica di significati. Tu non hai niente di particolare, ti girano solo un po' le palle. Lei però non è disposta ad accettare un fenomeno che non riesce a decodificare e che, soprattutto, non può ricondurre a se stessa, quindi s'intestardisce. Il sottotesto della sua domanda, che nessuna moglie confesserà mai spontaneamente, consiste nell'insinuare che il tuo malessere derivi dal fatto che ce l'hai con lei.
E ce l'hai con lei perchè non l'ami abbastanza.
Non l'ami come dovresti, come meriterebbe, e incosciamente lo senti. Ecco perchè sei inquieto.
A quel punto , tu cominci veramente ad avercela con lei, sei irritato dall'insistenza e dalla deliziosa, insopportabile dietrologia delle donne.
Sarebbe bastato lasciarti stare un'oretta a sbollire il momentaneo fastidio. le rispondi bruscamente. Sei caduto nella sua trappola, le hai dato finalmente l'occasione di dirti: "Lo vedi? Mi tratti male. Ce l'hai con me".

mercoledì 25 maggio 2011

Tacchi a spillo










Da bambina Alessandra era la più alta della classe. Tutto faceva prevedere che sarebbe diventata una stangona, e invece no: a 14 anni la sua statura si arrestò al metro e sessanta, e da lì non si schiodò più.
Lei, per la verità, non aveva il complesso dell’altezza. Era minuta, ben proporzionata, si piaceva così. Anche per questo indossava invariabilmente mocassini, ballerine, sneakers, infradito (d’estate) e stivali (d’inverno) del tutto privi di tacco, che accentuavano la sua aria sbarazzina e le calzavano a pennello. E poi, con quelle scarpe basse, si sentiva come Mercurio… con le ali ai piedi! Poteva correre quando vedeva arrivare l’autobus alla fermata e prenderlo al volo, senza rischiare di spezzarsi una caviglia per colpa dei tacchi. Poteva camminare agevolmente anche su un viottolo di sassi o attraversare il parco dietro casa senza affondare nel prato, perfino quando la pioggia lo rendeva insidioso come le sabbie mobili. Insomma, Alessandra aveva un rapporto idilliaco con le sue scarpe rasoterra e per nulla al mondo le avrebbe cambiate con un paio di “tacco 12”.
Eppure.... eppure anche Alessandra finì col cedere all’imperativo dei tacchi. Accadde quando aveva 27 anni. Sua sorella stava per sposarsi, lei doveva farle da testimone e non poteva sottrarsi all’obbligo di un abbigliamento chic. La commessa della boutique a cui si era rivolta le aveva consigliato un vestito semplice ma elegante, che rispecchiava i gusti di Alessandra. Ma al momento di abbinare le scarpe, la donna l’aveva squadrata dall’alto del suo vertiginoso tacco 14 fino al basso del misero tacco zero che lei aveva ai piedi, e le aveva detto con fare incredulo : “Non penserà di calzare delle scarpe così?” Alessandra fu colta alla sprovvista e, per la prima volta in vita sua, provò disagio con le sue ballerine piatte piatte . Si sentiva come una persona completamente nuda fra le altre vestite di tutto punto, o come se si fosse mascherata da Carnevale durante un funerale. Fu così che comprò un paio di sandali tacco 13 con un palateau di 2 centimetri e la mattina del matrimonio li indossò senza battere ciglio, rassegnata all’idea di dover fare la funambola per tutto il giorno.
Non appena mosse un piede davanti all’altro, ebbe la netta sensazione di non essere più lei. Era un’altra: niente più piccoli passi affrettati – come chi non ha tempo per frivolezze - ma un’ andatura lenta, morbida, femminile. I fianchi le ondeggiavano come quelli di una modella, la gonna svolazzava frusciando attorno alle sue gambe e lo sguardo…. lo sguardo spaziava compiaciuto 12 centimetri più in alto del solito, tanto che incappò dritto dritto negli occhi di Daniele, uno degli invitati, un pezzo d’uomo che mai lei avrebbe preso in considerazione prima di quel giorno.
I tacchi, oltre ad accrescere la sua altezza, facevano aumentare anche la sua disinvoltura. Si presentò con spavalderia: “Alessandra, sorella della sposa”, e fu facile stringere amicizia. Altrettanto facile fu, la sera stessa, stringersi fra le braccia di Daniele, senza porsi tante domande, senza chiedersi tanti perché, e accettare un appuntamento con lui per la sera dopo.
Il giorno successivo passò mezzo pomeriggio a fare shopping. Voleva essere all’altezza dell’immagine che Daniele si era fatto di lei. Alla fine optò per un tubino in seta che sottolineava la sua silhouette perfetta. Quanto alle scarpe, ne provò parecchie paia senza mai essere soddisfatta, ma alla fine …. eccoli: dei sandali elegantissimi, con un sottile cinturino attorno alla caviglia e un altissimo, sottilissimo tacco a spillo che la rendeva sexy dalla testa ai piedi… Era talmente “stregata” da quei sandali che uscì dal negozio indossandoli direttamente, con una strana, eccitante sensazione di leggerezza e di estraneità da se stessa. Camminò sovrappensiero fino all’angolo della strada, svoltò … e di colpo la vide: una donna in tutto e per tutto simile a lei, alla “nuova” Alessandra 12 centimetri più alta e più spavalda. L’abito che indossava assomigliava a quello che lei aveva appena comprato. Ai piedi, il suo stesso paio di sandali.
No, non era un riflesso della vetrina. Era davvero un’altra donna, una sconosciuta che tuttavia – con quel look - sembrava la sua fotocopia. Invece colui che le cingeva il fianco con un braccio e ammirava compiaciuto le sue gambe slanciate non era uno sconosciuto: era Daniele, lo stesso uomo con il quale anche lei avrebbe dovuto incontrarsi, qualche ora più tardi.
Fu così che Alessandra tornò con i piedi per terra e poco tempo dopo, dal suo metro e sessanta scarso, incappò nello sguardo schietto e scanzonato di Matteo: quello che per il primo Natale che hanno festeggiato insieme le ha regalato un paio di scarponcini Timberland rosa shocking , con la suola “carrarmato” e il pelo dentro.




(Immagine dal web)





martedì 24 maggio 2011

LA COLLA

Da quando quell'uomo aveva lasciato la famiglia,moglie e figli, la sua vita stava andando in pezzi.
Ogni giorno ne perdeva alcuni e lui li raccoglieva come fossero i cocci di un vaso rotto .
Era un bel vaso pieno di fiori colorati e profumati, la sua esistenza.
Si,ogni tanto quei fiori appassivano e scolorivano senza che se ne accorgesse ma bastava metterne altri e quel vaso si trasformava in un prato fiorito all'inizio della primavera.

Insomma, quei cocci li teneva in mano e sospirando diceva tra se e se: < E adesso ? Anche questi;se vado avanti così non riuscirò più a riattaccarli,sono troppi>.
Erano cocci di un amore perso nel tempo, di amicizie ormai lontane,di abitudini stravolte, di orizzonti cambiati,di una salute un tempo forte e che ora, data l'età, non lo era più.

Ci pensava tutti i giorni,come fare a rimetterli insieme tutti quei pezzi di vita che perdeva quotidianamente.

" Se avessi una colla speciale per riattaccare tutto" si diceva pensando ironicamente a tutto quello che gli era successo nell'ultimo anno.

Quei cocci li aveva numerati in modo tale che ,il giorno che li avrebbe riattaccati, non avrebbe avuto difficoltà a trovare gli incastri giusti.

Aveva perso l'amore di sua moglie, che l'aveva lasciato costringendolo ad andarsene da casa. Coccio numero uno…

Con i figli i rapporti erano buoni ma gli mancavano al punto che spesso gli succedeva di piangere pensando a loro.Coccio numero due…

I soldi scarseggiavano e si era visto costretto a chiedere un prestito ai suoi genitori. Coccio numero tre….

E la salute non era più quella forte di un tempo.Coccio numero quattro…

Questi erano i cocci più grandi. Ma ce n'erano altri,più piccoli, comunque importanti.

Dunque bisognava trovare una colla,un adesivo,si insomma qualcosa che rimettesse assieme quei cocci, quei pezzi smarriti della sua vita.

Passò del tempo e come per incanto l'uomo si trovò tra le mani un potentissimo collante.
Non era un prodotto che si potesse comprare in qualche negozio specializzato.
Non era nemmeno una cosa che aveva ideato lui.
Non sapeva da dove venisse ma capiva che faceva per lui: quell'uomo aveva riscoperto l'amore!!!!
Si, si era innamorato di una donna che lo ricambiava.
Era tornato pieno di energie e voglia di fare.
Aveva ritrovato i suoi vecchi amici e con quella donna ne aveva trovati di altri.
Cambiò lavoro, il che gli permise di guadagnare di più.
I figli, che nel frattempo erano diventati maggiorenni, spesso andavano a trovarlo nella sua nuova casa.
Un mattino,era guarda caso la giornata di Pasqua, si svegliò e capì che era riuscito a mettere insieme ,finalmente, tutti i cocci che aveva conservato.

Quel giorno cominciò per lui una nuova vita.













Alaa Wardi - Ma3gool

verranno a chiederti del nostro amore (F.De Andre')

Quando in anticipo sul tuo stupore
verranno a chiederti del nostro amore
a quella gente consumata nel farsi dar retta
un amore così lungo
tu non darglielo in fretta

non spalancare le labbra ad un ingorgo di parole
le tue labbra così frenate nelle fantasie dell'amore
dopo l'amore così sicure a rifugiarsi nei "sempre"
nell'ipocrisia dei "mai"

non sono riuscito a cambiarti
non mi hai cambiato lo sai.

E dietro ai microfoni porteranno uno specchio
per farti più bella e pensarmi già vecchio
tu regalagli un trucco che con me non portavi
e loro si stupiranno
che tu non mi bastavi,

digli pure che il potere io l'ho scagliato dalle mani
dove l'amore non era adulto e ti lasciavo graffi sui seni
per ritornare dopo l'amore
alle carezze dell'amore
era facile ormai

non sei riuscita a cambiarmi
non ti ho cambiata lo sai.

Digli che i tuoi occhi me li han ridati sempre
come fiori regalati a maggio e restituiti in novembre
i tuoi occhi come vuoti a rendere per chi ti ha dato lavoro
i tuoi occhi assunti da tre anni
i tuoi occhi per loro,

ormai buoni per setacciare spiagge con la scusa del corallo
o per buttarsi in un cinema con una pietra al collo
e troppo stanchi per non vergognarsi
di confessarlo nei miei
proprio identici ai tuoi

sono riusciti a cambiarci
ci son riusciti lo sai.

Ma senza che gli altri non ne sappiano niente
dimmi senza un programma dimmi come ci si sente
continuerai ad ammirarti tanto da volerti portare al dito
farai l'amore per amore
o per avercelo garantito,

andrai a vivere con Alice che si fa il whisky distillando fiori
o con un Casanova che ti promette di presentarti ai genitori
o resterai più semplicemente
dove un attimo vale un altro
senza chiederti come mai,

continuerai a farti scegliere
o finalmente sceglierai.

domenica 22 maggio 2011

I GRANDI FILM: Le pale dell'amore


Primo Tempo

 Primi 800.
La contessa Josephine torna a Parigi dopo un lungo soggiorno in Inghilterra,  e decide di andare a trovare il suo vecchio maestro di violino, da lei segretamente amato. Suona il citofono, ma nessuno risponde. Riprova. Niente.
Un  mendicante le si avvicina, e ride bellamente di lei.
"Perchè, villico, ridi bellamente di me?" chiede Josephine.
"Perchè non puoi suonare quel citofono!" urla il mendicante.
" E perchè mai non posso farlo?" chiede la contessina.
" Perchè il citofono nell '800 non è ancora stato inventato!" Esclama il villico, quindi, dopo aver riso bellamente, senza nessun motivo le dà uno scappellotto sul coppino, facendola cadere a terra.
La contessina è sconvolta, per calmarsi tira fuori dalla sua borsetta un violino ed inizia a suonarlo soffiandoci dentro, avendo sempre preferito gli strumenti a fiato piuttosto che quelli a corda.  Incantato da quelle note melodiose, da un negozio di frutta e verdurta esce un uomo: e' lui, il suo vecchio maestro di violino, il professor Ernesto. La contessina intuisce immediatamente che quell'uomo è malato, si sta lentamente spegnendo. Infatti, poco prima aveva preso fuoco mentre cercava di cucinare un mazzo d'asparagi. I due si riconoscono e corrono ad abbracciarsi, ma lui scotta ancora e lei si ustiona il naso. Non importa, sono felici.
Ernesto racconta a Josephine di vivere nella miseria da quando ha perso l'uso della mano destra giocando a briscola e sbattendo troppo forte l'asso sul tavolo. Lei invece ha fatto fortuna prostituendosi e aprendo altri punti vendita in franchesing.
i due si baciano, Ernesto collassa e muore.
Giorno del funerale
Piove. Josephine sotto una vecchia quercia osserva depositare la bara dentro una fossa. non ha più lacrime da versare, benchè ne avesse portato un bottiglione da tre litri. Ne chiede un pò ad una piccola fiammiferaia infreddolita, ma, con grande sorpresa scopre non essere una bambina ma bensì una nana di 85 centimetri.
Le due donne si fissano negli occhi.
josephine trasecola! riconosce la sua anziana madre, da lei creduta morta in mare, quando aggrappata alla lenza era sparita tra le onde trascinata via da un enorme tonno.
Le due donne si abbracciano, ma Josephine scivola su una buccia di anguria, cade e si rompe il femore. La madre chiede aiuto ad uno splendido becchino.
La contessa sviene

Secondo tempo

Josephine apre gli occhi, è in una camera d'ospedale. di fronte a lei sua madre, il primario e il becchino, che scopre chiamarsi Gino, anche se tutti lo chiamano Alfonso, non si sa perchè.
Il primario le spiega che è salva grazie al tempestivo intervento di Gino ( detto Alfonso), pochi minuti ancora e non sarebbe stata che cibo per vermi. josephine osserva il giovane becchino e se ne innamora subito, e lo invita a entrare nel lettino per praticare sesso selvaggio. Ma Gino ( detto Alfonso)  si schermisce, è timido; emozionato inizia a vagare per la stanza a prendere le misure a tutti con metro e matita, quindi con la sua inseparabile pala scava una buca nel pavimento e ci si allunga dentro.
tutti ridono. I raggi del sole filtano dalla finestra. i due giovani si guardano negli occhi. La madre e il primario, anche. Un usignolo si appoggia sul davanzale e cinguetta.
questo momento iddiliaco viene interrotto da un uomo precocemente calvo, che entrato nella stanza spara all'uccellino, quindi sfida a duello il becchino.
I due si odiano da molto, da quando l'uomo precocemente calvo accusa Gino ( detto Alfonso)  di avere sotterrato suo padre con le chiavi di casa nel taschino e sono tre anni che non puà rientrare nell'appartamento. In più, sostiene che il becchino usi una pala non omologata.
Ma tutti sanno che mente, non solo suo padre non è morto, ma è in vacanza a Rimini (dove ha una relazione peccaminosa con un bagnino)  ma se guardasse sotto lo zerbino troverebbe un duplicato delle chiavi. Per quello che rigurada la sua pala, invece, essa ha passato tutti i rigorosi controlli che prevede la legge su pale e affini.
In realtà l'uomo precocemente calvo è invidioso del successo di Gino, sia come sex machine, sia come becchino, e aspira al suo posto di lavoro, oltre che al posto macchina.
L'uomo precocemente calvo e Gino il becchino ( detto Alfonso) decidono di sfidarsi a duello il giorno dopo, alle 7, 30 di mattina, ma, cedendo alle preghiere della contessina, spostano il duello alle 8,30.
Gridando parole offensive e accompagnando il tutto col gesto dell'ombrello, l'uomo precocemente calvo esce dall'ospedale e con un chiodo riga tutto il cavallo dell'avversario. Quindi ridendo attraversa la strada e viene investito da una carrozza.
Subito soccorso da  Gino ( detto Alfonso) l'uomo precocemente calvo mormora:
" Scusa Gino, sei un becchino divino..." e spira.
tutti piangono, tranne il cavallo che è stato rigato, e un signore che passava di li per caso e non è al corrente di tutta la vicenda. Il signore, tra l'altro, è anche il vicino di casa del commercialista del becchino, ma questo a noi non interessa.
Finale
Gino ( detto Alfonso) abbraccia Josephine, dichiarandole tutto il suo amore. Lei lo bacia, mentre tra le nuvole nel cielo azzurro, compare il maestro di violino, che sorridendo, suona col suo strumento una versione acustica di Je t'aime moi non plus.

Fine

sabato 21 maggio 2011

...silenzio...


...il silenzio di un uomo che cammina solo, è senza parole, le ha perdute tutte nel tempo e adesso sembra un albero spoglio, rinsecchito, le sue parole sono volate via come le foglie secche...

...il silenzio di ha troppo da dire e sta cercando le parole giuste, troppe emozioni, sembra che esplodano in lui e allora tace e riflette, sembra un albero carico di gemme che devono aprirsi alla vita e stanno aspettando e cercando il modo giusto per farlo...

...il silenzio dell'uomo che sa cosa dire ma non dice niente perchè ha già tutte le risposte, ma le tiene per sè come un albero selvatico carico di frutti maturi che nessuno raccoglierà, cadranno e la dolcezza di quei frutti sarà persa, nessuno potrà sentirla...

La colla

...la colla...

La mente umana è una cosa assai strana. Ci penso e non mi so spiegare come funzioni realmente.
Sono a scuola e sto lavorando con i miei bambini. Tutti i giorni lo faccio, eppure ogni giorno è unico, loro sono diversi e così io. Distribuisco una scheda, la devono incollare e passo tra i banchi per vedere che non finisca a cavallo del quaderno o fuori dal bordo del foglio, quasi sul banco. Rimango sempre stupita di come riescano a sbagliare cose semplici come incollare un pezzo di carta in uno spazio e alttrettanto quando mi danno risposte che sembrano le più speciali del mondo.
Mi avvicino ad un banco e vedo il tubetto di colla; non è come quello di tutti gli altri ed ha qualcosa di familiare. Lo prendo in mano, lo annuso. La mia colla.
Mi guardo intorno e sono nella mia classe, ma non sono io l'insegnante che gira per i banchi, sono la bimba seduta al suo banco che cerca di mettere quella benedetta scheda dritta sul quaderno, con la sua colla in mano che ha un profumo così strano. Mi affascina quell'odore ma non so perchè.
La maestra controlla, io ho il fiato sospeso. Poi un sorriso; sì, ce l'ho fatta, la scheda è dritta, sono stata brava. A scuola me la cavo, sono più brava in matematica. Inumeri per me non hanno sorprese. Ma le parole. Quelle mi fanno paura, è stato così fin dal primo momento che le ho viste. Le guardo e vanno tutte insieme. Sulla pagina del libro non vogliono stare ferme mentre cerco di inseguirle per riuscire a leggerele. La maestra, severa, mi guarda e mi dice che devo esercitarmi di più, se voglio leggere come si deve. Ci provo, ma è tutto contro di me. Anche quando voglio scriverle, la stessa cosa. E' una vera congiura. E poi la manina bella e quella brutta. Se guardo le mie mani le vedo uguali, ma la maestra no. Lei diceva che la manina bella deve scrivere. Tra le mie mani, vuole scrivere quella brutta. In tutta quella lotta, di mani, di parole, di suoni, non ci capisco più niente. Ma sono una bimba piena di risorse, come tutti i bambini, che riescono a trovare soluzioni possibili anche dove non ce ne sono.
Chiedo alla mamma di leggere almeno una volta per me e sto così attenta da mettere nella mia memoria, appiccicate, come incollate con la colla dal profumo strano, tutte le paroline, tanto che quando leggo, nessuno si accorge che ripeto a memoria quello che ho sentito. Non dura molto il mio inganno, perchè la manina bella tiene il segno dove vuole e non segue il mio racconto. Insomma, è una dura lotta, ma alla fine riesco a mettere pace tra tutti. Mani, parole, maestra e me. Oggi amo le parole.
Prendo il tubetto di colla e lo porto verso il viso; chiudo gli occhi un attimo ed aspiro. Poi lo restituisco: "Sai che da piccola usavo questa colla anch'io, mi piaceva tanto il suo profumo". La mia bimba mi guarda e sorride:"Piace tanto anche a me".

Post-mortem.

Salgo i gradini due alla volta con l’affanno del fumatore e la mole del sedentario.
Otto piani da qui a casa di Marta e ho scordato di prendere l’ascensore.
In questi giorni mi ritrovo in situazioni ridicole che non so nemmeno spiegare. Una persona normale può scegliere di prendere un ascensore come può decidere di farsi otto piani a piedi. Non può semplicemente scordarlo.
Mi fermo al quinto piano, soddisfatto per le rampe che ho lasciato dietro e mi accorgo che nella fretta ho rovinato una scarpa contro un gradino. Un’imprecazioe risuona per tutto il palazzo, ma credo che nessuno mi abbia sentito. Affronto gli ultimi tre piani con calma perché odio arrivare da Marta col fiatone. Manca l’ultima rampa e già sento gli odori che arrivano dal suo appartamento.
Sono tre anni che sto con lei e ogni domenica al settimo piano sento lo stesso odore di cassuela. Credo si faccia con parecchie verze e pochi soldi. Non l’ho mai assaggiata, sempre con la scusa di una fastidiosa allergia alimentare. Oggi non toccherò nulla, ho un molare che urla perché ieri ha avuto un contatto ravvicinato con il trapano del dentista. Al solito suo promette pochi minuti indolori e regala invece imperdibili week end di pulsazioni sulla tratta dente-cervello. Ma oggi non ho tempo di pensare nemmeno al dolore. Oggi no. Non al mio, per lo meno. Non riesco a premere sul campanello. Lo guardo fisso e nel frattempo sono altrove. Sono nella stanza di una clinica insieme a Marta. Mi guarda nell’istante prima di essere addormentata. Mentre l’ago del sonnifero le scivola sotto la pelle, io sento una lama che mi trafigge il fianco. Ce l’ho portata io qui. L’ho spinta su quel letto, lo sta facendo per me. Ha accettato di abortire solo perché io non mi sento pronto. Solo perché io sono un trentenne che non vuole pesi. E un figlio è un peso. Soprattutto dentro questa clinica. Ma in questo momento un figlio è solo una lama fredda nel fianco.Riapro gli occhi proprio mentre il mio indice preme sul campanello. Marta apre la porta e dal suo sguardo capisco che nemmeno stanotte ha chiuso occhio, ma che la madre non sa ancora nulla. Mi dice sottovoce che dovremo parlarne con lei oggi stesso. Io sono frastornato da tutti i dolori che ho scoperto di poter provare. Annuisco senza sapere cosa dirò.
In pochi minuti mi passano davanti gli odori di quella casa, il profumo di Marta l’estate scorsa, le rughe di sua madre e le mie pulsioni incontrollate che hanno tracciato questo solco. Mi assale una paura irrazionale, paura della scelta che abbiamo preso, paura che quando sarò morto incontrerò quel figlio che ho ucciso e lui chiederà vendetta. Paura che tutti i miei peccati siano lì ad aspettarmi per rendermi orribile l’eternità della morte. Vorrei dire a Marta tutte queste cose, ma mi prenderebbe per pazzo.
Preferisco ingoiare, seppellire sotto strati di vita quotidiana e tentare di dimenticare.
Dimenticare persino che, anche se per un solo momento, ho avuto la tentazione di diventare un padre e mi sono trasformato in assassino.

L'alleanza.

Qualche altro giorno di solitudine, addormentato dall'onda lunga di un mare vecchio di libeccio. Ho passato quattro giorni per i fatti miei, semplicemente a seguire il vento e a tagliare le rotte dei delfini. Quando si affiancano alla prua e ti seguono per una buona dozzina di minuti ti viene solo voglia di urlare di felicità.
Getti una lenza e in pochi minuti abbocca un tonno abbastanza grosso da riempire frigo e stomaco per una giornata intera. La sacra legge australiana del non chiedere al mare più di quanto ti serva, ti impone di riavvolgere la lenza intorno al sughero e di accontentarti di quanto hai pescato stamattina. Domani lasceremo ancora correre il nylon e un altro pesce dalla faccia stupida e dall'anima più pulita della mia, confonderà la piuma bianca con uno spuntino di mezzogiorno. E il mio stomaco avrà di che godere anche domani. Ogni giorno il rito sanguinario dell'uccisione del tonno si ripeterà in pozzetto. Un fiotto denso di sangue caldo bagnerà il legno delle panche e della coperta, la lama del coltello non sarà mai conficcata abbastanza in profondità da evitare sofferenze atroci a quel pesce, ma in fondo la natura va così.
L'accettazione della propria natura, è questo che un uomo deve saper fare. Arriva quella mattina in cui apri gli occhi e finalmente capisci davvero chi sei, cosa cerchi, dove vuoi finire. Capisci che se aprire la pancia del primo pesce ti provoca terrore, la volta dopo è un atto quasi dovuto, è un momento di unione fra te e il mare. Quel tonno è tuo. Solo quello. Non pescarne altri. Non ti servono. Chiedi al mare ciò che ti serve, non ciò che soddisfa la tua natura avida di predatore. Un leone sceglie una e una sola gazzella in mezzo al branco. Un gabbiano sazio lascia correre sotto i suoi occhi banchi interi di sarde senza beccarne una sola. Tu hai bisogno di un solo pesce ogni giorno. Il resto lascialo vivere, lascialo agli altri, lascialo al mare.
E' l'alleanza fra te e l'ordine naturale delle cose. Non lo dimenticare mai.

giovedì 19 maggio 2011

Dostoevskij nella suite

ECCO, quello che si può leggere sul volto di Dominique Strauss-Kahn mentre sta in tribunale e viene a sapere che resterà in carcere, che nessuna cauzione lo tirerà fuori di lì, che non solo una grande avventura politica finisce in quell'aula ma una vita libera, una reputazione politica nobile. Ha la barba sfatta, gli occhi sperduti, la bocca come di chi d'un tratto s'accorge d'aver bevuto veleno, i tratti legnosi del caduto, colpito da nemesi inaudita. Eppure quel volto non appartiene a un uomo ignaro, incosciente di sé e del paese dove lavora, colto di sorpresa dalla vastità del delitto (tentato stupro, aggressione sessuale, sequestro di persona: non sono accuse minori).

Strauss-Kahn sapeva com'è fatto il mondo, conosceva l'America e una giustizia che non concede impunità ai potenti e anzi spettacolarizza l'uguaglianza di tutti davanti alla legge (lo si è visto nel caso del finanziere Madoff, di Spitzer costretto a dimettersi da governatore di New York per un giro di escort). Conosceva a perfezione, come tutti coloro che sono ai vertici del potere e non sono stupidi, che ogni sua mossa era da anni spiata con occhio non solo curioso ma avido, spesso vendicativo. Conosceva anche i propri avversari, e ne aveva tanti sia in Francia sia altrove, da quando era direttore del Fondo monetario internazionale e aveva cominciato ad affrontare a modo suo, controcorrente, una crisi economica che tutto aveva messo in forse, e in primis l'ideologia stessa del Fondo. Dostoevskij ci fornisce il ritratto più calzante di quel che DSK è divenuto in queste ore: un potente scaraventato a terra, un uomo che ha sfidato il destino e che di fatto è un suicidato. Più precisamente: un giocatore d'azzardo che non gioca a casaccio, ma compulsivamente.

La politica è piena di simili Posseduti - in medicina si parla di dipendenza senza sostanze: in Italia ne sappiamo qualcosa, anzi molto. Giocano con tutto: non solo col potere politico ma col proprio corpo e con i corpi altrui, che calpestano. Dostoevskij racconta questa speciale dipendenza: il suo Giocatore finge l'attaccamento al lucro (o al sesso) ma l'oscuro oggetto del desiderio è altro: è l'"estrema bramosia di rischio, la voglia di stupire gli spettatori rischiando follemente". Inabissato nell'umiliazione, il direttore del Fondo monetario ha il volto di Aleksej Ivanovic: "Mi sembra di essermi fatto come di legno, di essermi come impantanato nella melma". Fatale, la roulette ha fermato il suo giro. Nella vita e nella politica, la chiave è nel vocabolario del croupier: "les jeux sont faits", "rien ne va plus". I giochi sono fatti, le puntate sono chiuse. Rien va: avrebbe chiuso Tommaso Landolfi.

Strauss-Kahn, non un Eroe ma un Giocatore dei nostri tempi. E forse anche di altri tempi: l'agonia della democrazia di Weimar, Fritz Lang la riassunse nella figura allegorica dello Spieler, del Giocatore. Può darsi che la vicenda sia una lurida montatura, o un equivoco atroce, anche solo in parte. Può darsi che qualcuno abbia teso una trappola, nella suite del Sofitel. Ma se trappola c'è stata, è stata tesa a un uomo che ha prestato il fianco, immerso nel fascino del rischio: ogni sorta di rischio, dal più nobile al più sozzo, fino allo stupro. A un uomo che intrecciava politica e sesso, senza tema di provocare disgusto. C'è una politica del disgusto - Martha Nussbaum ne descrive le ordalie in Disgusto e umanità - e Strauss-Kahn non l'ha messa nel calcolo. Se hai un punto debole, la politica del disgusto fa sì che resti impigliato e tramortito come un grosso ragno dentro l'aggrovigliata, troppo aggrovigliata tela che hai tessuto con le tue mani.

Il fatto che DSK non abbia calcolato razionalmente, pur conoscendo il precedente di Spitzer, che sia vissuto senza un grammo di prudenza: questo crea sgomento. Ha preferito la roulette agli scacchi, che secondo Benjamin Franklin insegnano ben diversi comportamenti: "Primo: la preveggenza, che guarda un po' nel futuro e considera le conseguenze che possono venire da un'azione, perché il giocatore pensa continuamente. Secondo: la circospezione, che percorre l'intera scacchiera o scena dell'azione, le relazioni fra i diversi pezzi e le situazioni, i pericoli a cui sono rispettivamente esposti, (...) le probabilità che l'avversario faccia questa o quella mossa e attacchi questo o quel pezzo. Terzo: la cautela di non fare mosse troppo affrettate" (La morale degli scacchi, 1779). La regola dello scacchista è "accettare tutte le conseguenze della tua precipitazione". Strauss-Kahn l'ha sprezzata e ha perso tutto: la bramosia lo ha stritolato e rabbuia le stesse sue battaglie politiche. Forse non teneva a esse come diceva. Era pronto a sperperarle, sprecarle. Alcuni dicono: forse era un politico leggero, che si gettava nell'agone capricciosamente, che nell'intimo non ne aveva sufficientemente voglia. Non era un antipolitico come Berlusconi, ma si è comportato come se lo fosse.

È talmente incredibile, la sua storia nell'hotel (l'aggressione di una cameriera, e poi la colazione con la figlia come se nulla fosse, e infine i preparativi del viaggio in Europa dove l'attendevano riunioni decisive su Grecia e Portogallo minacciati dalla bancarotta) che allo stupore s'aggiunge qualcosa di infuriante. Se la sequela dovesse rivelarsi veridica, se l'accusa del procuratore venisse confermata, lo stupore si tramuterebbe in disgusto e anche collera. Disgusto per come un potente del mondo perde il senso della realtà, e viene a tal punto trasformato dalla politica e dal potere da accantonare sia la decenza sia la prudenza. Collera per le ripercussioni dell'accaduto e per l'idiota sottovalutazione prima del disastro, poi della soddisfazione che esso procurerà a tanti che esecravano la sua persona.

Questo colpisce nelle vicende di chi, forte della posizione di comando esercitato nel Fondo, si preparava presumibilmente a tornare in Francia, a duellare con Sarkozy nelle presidenziali del 2012. Colpisce l'abissale indifferenza alle frecce che possono trafiggere il potente, quando con disinvoltura si asserve alla roulette. Ci sono tutti gli ingredienti della favola nera: c'è il Dr. Jekyll che beve la miscela che s'è fabbricato e barcolla in vie notturne tramutato in criminoso Mr. Hyde. E c'è qualcosa di talmente cupo che si stenta a non fantasticare su avversari che altro non aspettavano che il finale sbandamento. Perché gli avversari politici esistevano, sesso e violenza non occupavano tutti gli spazi di DSK. Quel che stava facendo, nel Fondo, era secondo alcuni una rivoluzione. Appena 9 giorni prima del fattaccio, Joseph Stiglitz, l'economista che da anni denuncia i misfatti del Fmi, scrisse un articolo in cui annunciava la svolta radicale che Strauss-Kahn voleva imprimere all'istituzione: la fine delle condizioni capestro imposte ai paesi poveri, il "nesso indispensabile tra equità, occupazione e stabilità economica", la volontà di mettere tale nesso al centro del governo mondiale dell'economia (discorso alla Brookings Institution, 13 aprile 2011, vedi http://www.imf.org).

Anche per questo sul web ci si interroga, si parla di trame livide. Si ricorda l'offensiva contro Assange, accusato di stupro per screditare Wikileaks. Si enumerano i poteri forti (a Wall Street o in Francia) che potrebbero profittare del ragno suicidatosi nella tela. È troppo presto per trovare risposte chiare. E in fondo importa poco, sapere se il film noir è anche un noir politico. Per gli effetti che ha, è la storia di una gigantesca sconfitta politica. Di un giocatore talmente imbozzolato che nulla sa, come in Borges, dei pezzi che ha mosso: "Dio muove il giocatore, e questi il pezzo. Quale dio dietro Dio la trama ordisce di tempo e polvere, sogno e agonia?".


Barbara Spinelli "la Repubblica"

mercoledì 18 maggio 2011

Vacanza in Spagna

La prima vacanza con gli amici fu in Spagna. Eravamo io, Gino, Mimmo ed Emilio. Avevamo 18 anni. Io ero il solo ad avere una macchina. Mi era stata venduta da dei giostrai, si trattava di una macchinina dell'autoscontro, con sotto un motore elaborato di un tagliaerba, capace di raggiungere i 180 chilometri orari solo toccando il pedale dell'acceleratore. Aveva, oltre i due posti davanti, altri due sedili saldati dietro, ricavati da seggiolini del calcinculo. Quel gioiellino era munito di stereosette, collegato a delle casse acustiche da 300 watt di potenza. Se mettevo il volume a palla, la macchina si cappottava. Era una meraviglia, l'unico problema era che ogni tre chilometri bisognava infilare un gettone nella fessura.
All'alba del 13 agosto 1983 feci il giro delle case a recuperare i miei compagni di viaggio. I genitori piangevano, sventolavano fazzoletti bianchi come se partissimo per una missione suicida. Mia madre mi aveva dato da tenere in tasca la foto di Padre Pio, come portafortuna, la madre di Gino gli aveva fatto promettere dinanzi ad una statua della Madonna di due metri d'altezza che avrebbe dovuto chiamare ogni tre ore, il papà di Mimmo gli aveva infilato in tasca con fare complice una scatola di preservativi, che si tramandavano in famiglia da più di 4 generazioni, ancora intatta.
Finalmente eravamo tutti in macchina. La mamma di Emilio disse:
Mi raccomando, andate pia...”
Schiacciai l' accelleratore. In 12 secondi eravamo a 4 chilometri di distanza. Io al volante, Emilio di fianco a me infilava gettoni nella fessura a ritmo indiavolato, Gino e Mimmo aggrappati ai seggiolini, le gambe che svolazzavano in aria come bandierine.
Pochi minuti dopo eravamo al casello di Melegnano, fiamme alte tre metri uscivano ai lati della macchina, dalle casse acustiche le note della Carmina Burana frantumavano i vetri delle finestre a chilometri di distanza. Il casellante vedendoci arrivare pensò fosse giunto l'Armageddon e si diede alla fuga. Passammo sotto la sbarra senza fermarci, ad una velocità che superava di molto il muro del suono.
Dopo dieci minuti Emilio mi chiese di cambiare cassetta:
Basta con questa musica classica, ascoltiamo qualche cosa di italiano, di più divertente ”
Cosa vuoi sentire?” chiesi.
Ho portato Guccini!” Non ci diede il tempo di ribattere, aprì il suo borsone e tirò fuori Guccini,. Era un omone altro più di un metro e ottanta, con una folta barba. Iniziò a suonare alla chitarra le sue canzoni. Ogni volta che ne finiva una, dalla barba Guccini tirava fuori una bottiglia di Sangiovese e si faceva una bella sorsata. Dopo quattro canzoni era ubriaco fradicio. Lo abbandonammo in autostrada.
Avevamo una gran fame. Ci fermammo in un' autogrill vicino Montecarlo. Mimmo, che aveva comprato in edicola un corso di lingua Spagnola in127 fascicoli settimanali, e non vedeva l'ora di farci vedere quanto fosse bravo, disse :
Mi raccomando, fermiamoci massimo 10 minuti”.
Tranquillo” rispondemmo all'unisono.
Dopo tre ore Emilio era in coma etilico, io mi ero fidanzato con una cassiera ex campionessa provinciale di lotta greco romana, Mimmo aveva rubato dei giornaletti porno, si era chiuso nei bagni pubblici e non dava segni di vita, Gino aveva incontrato nel reparto insaccati una cantante d'operetta ed era pronto per partire con lei per una tournèe in Alsazia.
Per fortuna, Mimmo, uscito dal bagno pubblico dopo una full immersion a base di Jacula, Zora la vampira, Sukia e il Lando tre palle, anche se parecchio provato dalla esperienza, riuscì a portarci fuori da quel girone infernale, e potemmo ripartire.
Viaggiavamo oramai da parecchie ore, avevo guidato sempre io, e mi sentivo un po' stanco. Allacciati ai seggiolini dietro,Gino e Mimmo dormivano a bocca aperta, ingurgitando quantità enormi di moscerini. Mi voltai verso Emilio, che seduto al mio fianco, continuava ad infilare i gettoni a ritmi elevatissimi. Ansimava per lo sforzo, gli occhi sgranati per la concentrazione.
Come ti senti?” gli chiesi.
ALLA GRANDEEE!!” urlò lui, senza distogliere lo sguardo.
Vuoi fare cambio?”
SIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII!”
Mi fermai in una piazzola di emergenza e ci scambiammo di posto.
Sei pronto?” gli chiesi, tenendo il gettone sospeso sopra la fessura.
ALLA GRANDEEE! VAIII!”
Feci scivolare il gettone nella fessura. Emilio schiacciò l'acceleratore a fondo, la macchina emise un ruggito agghiacciante,impennandosi come un cavallo imbizzarrito, mentre le ruote posteriori sgommavano sull'asfalto, producendo fumo nerastro. Mi voltai terrorizzato verso Emilio.
Lui mi rivolse un sorriso satanico, gli occhi inieittati di sangue.
ALLA GRANDEEE! VAIIIIIII!!” urlò, felice. Poi la macchina partì come un razzo, sfondò il guard-rail, e si inoltrò nella fitta vegetazione al lato dell'autostrada.

Fine prima parte.

domenica 15 maggio 2011

LA MIA CODA METROPOLITANA

utti i giorni mi rompo le palle, tranne i week end, vado al lavoro e prendo la metro.
Scendo dalla macchina a Molino Dorino (e non so perché si chiama così) faccio due passi a piedi e prendo i giornali .
Sono quotidiani e si chiamano City, Metro, Leggo e sono distribuiti gratuitamente da gentili persone chiamate spesso extracomunitari; una parola senza una briciola di affetto.
Ma non è così rapidamente che prendo i giornali, perché i pulmann che arrivano a Molino rigurgitano un sacco di persone che li vogliono come me e che diligentemente più o meno, fanno la coda per averlo, proprio come me.
Li infilo nella borsa, timbro il tesserino settimanale e scendo le scale,
Sono giù in due minuti, il treno arriverà tra pochissimo, c’e’ una bolgia di gente sulla banchina studenti e lavoratori tutti mischiati, belli e meno belli, alcuni assonnati e altri svegli come grilli, tutti uguali ansiosi di sedersi e di arrivare in fretta.
La metro arriva con un rumore quasi assordante e rassegnati saliamo.
Cerco un posto libero per appoggiare le chiappe e un po’ di tranquillità.
Ma eccoci qua nella giostra della metro rossa linea RHO FIERA – SESTO S.GIOVANNI.
Sono seduta e inizio a leggere il mio City; inizio da lui, tanto più o meno raccontano tutti le stesse cose.
Ma è tutt’altro che facile leggere e concentrarsi, quasi impossibile. Per esempio potrebbe succedermi come stamattina che la mia vicina di posto ha ricevuto una telefonata , era la sua bambina, ha risposto ad alta voce e con un tono da cornacchia.
”Quello che sentirete è quasi come un discorso di Rubbia ad Annozero, non c’e’ differenza”.
Mi ha dato l’impressione che volesse convincerci di questo.
E chi osa contraddire la signora? La tolleranza è sempre stata una parola illuminante per me.
Di fianco sulla sinistra, subito dopo la gracchiante signora, tuffo nel passato!
Affiorano i ricordi della scuola, le prof, le verifiche, le risatine cretine tra noi compagne, una starnazzare di galline ( alle scuole superiori eravamo tutte femmine, che sfiga) i compiti copiati dal libro sotto il banco e poi i voti.
Per comodità ora parlerò al presente perché è più comodo per me e sarà come se stesse succedendo tutto ora.
C’e’ una ragazza, una bella ragazza seduta alla mia sinistra, di quelle tutte vestite bene, con gli abbinamenti giusti alla moda, ha il corpo di una gazzella, gli occhioni stampati sul quel bel ragazzo che ha di fronte.
Intuisco trattasi di liceali, parlano di filosofia, di fisica e di matematica, con competenza e nel contempo con leggerezza.
Lei vuol far colpo su di lui e lui su di lei e si vede che aspirano entrambi a stare insieme nudi nel box di papà, lasciatevi andare ragazzi non c’e’ bisogno di parlare di storia dell’arte.
Arriva la fermata di Lampugnano e la gazzella con il boy scendono per raggiungere la scuola o per bigiare, chissà!
A me di leggere mi è passata la passione, mi metterei un dito nel naso.
Ok ora sono più tranquilla,cerco di concentrarmi su un articolo che mi sembra interessante”Negozi aperti il 1 maggio?” ma la suoneria del cell di quello davanti a me suona e poiché non risponde velocemente, tutti irritati ci agitiamo e pensiamo “ma cazzo rispondi cretino” e infatti il cretino risponde “si ciao! No no non guardare sul quel file, i dati sono tutti in hpprcuyypuccc , poi clicchi su open lo visualizzi e poi se c’e’ qualche problema mi chiami okkk???”
Non è per niente tutto ok! E quindi con un respiro profondo che riempie i polmoni e rilassa il diaframma sopportiamo in silenzio anche i 5 minuti dell’informatico..
Ad un tratto non respiro, entro in apnea, mi sento invadere dalla mia aria che repressa mi blocca lo sguardo e il volto.
Arriva la signora zingara lei mi inquieta.
Ha un bambino piccolo, un bebè avvolto in uno straccio lercio e puzzolente legato in vita; la guardo e mi chiedo, “ ma il nodo reggerà questa creatura incosciente?”
Il piccolo sembra dormire profondamente.
La zingara invece urla che è una povera donna senza casa e senza mangiare, fa fatica a passare e urta tutti e soprattutto quella creatura come un fantoccio di stoffa rimbalza sul culo e la schiena della gente. Ho proprio un’allergia acuta ala sua indifferenza, ma non solo alla sua.
Finalmente si scende, fermata San Babila, si scende piano, si fa la coda davanti alla scala mobile… si dovrei utilizzare le scale ma dopo tutta la pazienza che ho regalato al mondo vorrei un attimo di comodità, staccare il cervello dal corpo e farmi portare su.
Alle 14,30 riprendo la metro per tornare a casa.
Scendo dalle scale, sulla banchina c’e’ un cartello che indica quanto devo aspettare per andare verso RHO FIERA.
Ci sono un sacco di fantasmi sulla banchina, (gli stessi della mattina?) ognuno con un nome,una faccia e una storia personale, a me sembrano tutti uguali, la maggior parte silenti e con lo sguardo fisso nel vuoto o su un giornale. Ma so che respirano nonostante quest’aria pesante , ma mai pesante come quella quella del treno che sta per arrivare.
Non c’e’ posto per sedermi e chiudere gli occhi come spesso faccio, un po’ per sonno e un po’ per sognare.In questo caso sto in piedi e mi guardo intorno, sento sempre che il mio corpo è di troppo, riempe uno spazio che in molti vorrebbero libero ma insisto, perché io esisto.
Ci sono e ci voglio stare anche comoda come tutti. Le mie mani agganciate per non cadere per alcuni sono mani superflue, mani da tagliare con l’accetta.” Preferisci che con i miei 63 kili ti piombi addosso?”
Sento una voce che con cantilena dice sempre la stessa frase ma non riesco a capire a chi appartiene…c’e’ troppa gente, cerco con gli occhi e ad un tratto vedo delle mani sul pavimento..è un uomo senza gambe con un cappello una camicia e un gilè, che striscia come un polipo per terra, solleva il suo tronco con le braccia robuste e avanza senza nessun timore su quel pavimento così sporco, che non si pulirà mai.
Chiede soldi per mangiare.
Ma quanta gente c’e’ che vuole mangiare? Ma quanto cibo c’e’ ogni giorno dappertutto?
Non me l’aspettavo di vedere quest’uomo strisciante, ho lo stomaco tutto accartocciato.
A volte sai, vorresti trovare sollievo e distrazione, girarti e guardare fuori per vedere qualcosa di bello, soltanto il cielo con tutti i colori che ha, anche grigio; o la pioggia sul vetro, un giardino e un cane che corre; osando fantasticare anche il sole..ma invece devi stare lì, con il tuo corpo fermo che respira e non si muove.
Secondo me sogniamo tutti sulla metro quelli seduti, quelli in piedi, quelli che dormono o fingono di dormire, approfittiamo tutti per sognare.
Perché se sei fermo che puoi fare? Pensare e sognare.
Ci guardiamo e ci osserviamo tutti anche di nascosto, chiedendoci “ma quello lì che cosa farà?” “Dove andrà a lavorare?”Sarà fidanzata ?””Chi amerà” ?
Quando ascolto le conversazioni degli altri ..capita che mi viene da ridere.
L’altro giorno per esempio ne ho sentita una : un tizio dice all’amico “Che ha detto quello?” “Mind the door?” “E che vuol dire?” “Occhio alla porta” “Ah …Ma occhio non si diceva “eye”?
Però capita anche di spaventarsi inutilmente come l’altro giorno che alla fermata di Pagano
vedo alcune persone che scendono tossendo dalla carrozza, il mio cervello ha rapidamente cercato nelle casistiche dei casi di cronaca nera, e così pensando al peggio sono corsa fuori anch’io dalla carrozza.
Era solo una fuga di un gas tossico dall’impianto dell’aria condizionata.
Quando arrivo a Molino ed è finita la mia giornata lavorativa potrei farmi le scale a piedi ma faccio la coda per salire sulla scala mobile..mi piace mi rilassa e poi , sono stanca.

Single per sempre

Una nuova figura si è affacciata nel panorama femminile del terzo millennio: le "single per sempre". Donne che hanno rinunciato alla presenza fissa di un uomo nella loro vita. Che non si fanno illusioni sul maschile, non si aspettano protezione per sé o per la prole, non sperano nel mantenimento economico né nella gratificazione sentimentale garantita da un marito. Che non hanno fantasie amorose su un improbabile principe azzurro. Che non credono neanche più al principe azzurro, ma organizzano la loro vita (e quella dei loro figli) intorno al concetto che l'uomo è "un accessorio": utile e piacevole, a volte, ma alla lunga seccante, fastidioso, limitante e spesso addirittura nocivo. Qualcosa di cui si può, e spesso anzi è meglio, fare a meno. Come si è arrivati a scelte esistenziali così drastiche? Quali percorsi psicologici, quanta rabbia, o frustrazione, o delusioni, spingono le donne di oggi a un'esistenza in cui il maschio è sempre meno fondamentale? Maria Rita Parsi analizza il fenomeno e lo illustra attraverso dieci storie esemplari di donne tutte single-per-scelta. Da una giovane che a vent'anni ha eletto Condoleeza Rice a suo modello di vita e non intende sacrificare a un uomo il suo progetto di libertà e indipendenza, ad Angela, cinquantanovenne vedova senza figli che dopo trent'anni di matrimonio, una volta sepolto il marito, perde ventotto chili, si iscrive a un corso di salsa e scopre la gioia di un'esistenza autonoma.


http://www.ibs.it/code/9788804570189/parsi-m--rita/single-per-sempre.html

sabato 14 maggio 2011

IL BACIO DOLCEAMARO DELLA SIGARETTA

“Apri quella finestra! Non senti che puzza di fumo c’è in questa casa?” esclamò lui con un gesto di stizza.
Lei non rispose. Si accese una sigaretta, spalancò la porta d’ingresso e uscì nel giardino su cui si affacciava la loro villa.
Respirò con rabbia le prime boccate e sul suo viso si dipinse una smorfia: non aveva ancora fatto colazione e il fumo le stringeva lo stomaco in una morsa dolorosa, acuita dalla tensione. Poi però, a poco a poco, cominciò a rilassarsi e a godere il piacere quasi carnale del suo vizio. La sua espressione cambiò: le si leggevano in volto la voluttà con cui assaporava la prima sigaretta del mattino e quel leggero stato di stordimento che le procurava la nicotina dopo l’astinenza notturna!
Mentre stava spegnendo la sigaretta ancora a metà e già si frugava in tasca per cercarne un’altra, osservò la sua immagine riflessa nella portafinestra; di colpo le parve di avere davanti a sé suo padre, con una sigaretta in mano, mentre un’altra si stava consumando sul posacenere.
In quel gioco di specchi, lei aveva addirittura la sensazione di rivedere il tipico gesto con cui il padre afferrava il suo Ronson color acciaio, portava la sigaretta alla bocca e gustava il gesto stesso di accenderla.
Questo ricordo la fece sorridere, ma un’ombra al di là del vetro la riportò alla realtà. L’immagine del padre si dissolse, per prendere le sembianze di suo marito, che la stava osservando. Aveva un’aria cupa; le rughe attorno alla bocca accentuavano la piega amara che gli anni avevano scolpito sul suo viso e gli occhi erano gelidi. Lei si accigliò: doveva tornare in casa e trovarsi faccia a faccia con quest’uomo, con ciò che lui era diventato nel corso del tempo. Non ne aveva proprio voglia, pertanto entrò dal retro, si truccò molto in fretta e si avviò subito verso l’ ufficio.
Mentre avanzava a passo d’uomo nel traffico, placava il nervosismo fumando una sigaretta dopo l’altra, incurante dell’impaccio durante la guida, della nebbia che si creava nell’abitacolo e della cenere che finiva sul cruscotto, sui sedili, sul suo vestito. All’improvviso si ricordò della prima “bionda” che aveva sottratto a suo padre a 14 anni e di tutte quelle che aveva fumato di nascosto fino a quando, a 18 anni, era uscita allo scoperto, usando il vizio del padre come alibi e dichiarando che la sua vita era soltanto SUA.
Quei pensieri furono interrotti dall’arrivo al posteggio, davanti all’ ufficio dove lavorava. Fu una giornata intensa e per lei diventò un vero calvario rispettare il divieto di fumare fra quelle mura. Ogni tanto, andava al distributore automatico di bevande calde e ingollava un caffè, ma soltanto per poter godere subito dopo - sul terrazzino – il gusto della sigaretta mescolato a quello della caffeina.
Arrivò sera. Terminato il lavoro, avrebbe voluto girare senza meta per la città, ma era troppo stanca e si mise in viaggio verso casa. Le tornò in mente quando lei, a trent’anni, aveva incontrato l’uomo che era poi diventato suo marito. Si erano conosciuti a un corso di fotografia, ed era stato un vero colpo di fulmine. Appariva tutto perfetto… tutto a parte un piccolo particolare: nel dichiarare i propri sentimenti, lui le aveva detto: “Ti amo, ma non amo baciare l’amaro delle tue sigarette.” Lei non ci aveva pensato due volte: aveva smesso di fumare da un giorno all’altro, certa che un simile sacrificio le avrebbe garantito un amore eterno. Ma dopo nove anni di matrimonio e altrettanti di astinenza dal fumo, si era ritrovata a desiderare sempre più spesso il sapore di una sigaretta piuttosto che quello dei baci del marito. Aveva resistito per molto tempo, finché la sera prima era entrata in una tabaccheria e, con le dita che le tremavano per l’emozione, aveva indicato un pacchetto bianco e azzurro.
Al volante dell’ auto, mentre le lacrime facevano tremare davanti ai suoi occhi le luci dei semafori, ripensava a come era stato eccitante respirare di nuovo quell’odore e quel sapore così a lungo desiderati. Si era accesa una sigaretta nel cuore della notte, in cucina, e sarebbe stato un godimento perfetto se il marito non l’avesse colta di sorpresa, aprendo di scatto la porta e squadrandola con un’ espressione di disgusto stampata sul viso. Sentiva ancora risuonare nelle orecchie le parole con cui aveva continuato ad investirla anche al mattino: “Apri quella finestra! Non senti che puzza di fumo c’ è qua dentro?”
Non riusciva a pensare ad altro, e la tristezza e la rabbia diventarono ancora più forti quando si decise ad entrare in casa. Era ora di cena; per tutto il tempo in cui lei e il marito furono a tavola aleggiò una tensione ancora più pesante del solito. Lui la guardava senza guardarla, mentre lei sentiva crescere in sé un senso di totale estraneità da quell’uomo. Così, dopo il caffè, frugò nella borsa, prese il pacchetto bianco e azzurro e si accese una sigaretta davanti a lui. Lo fece fissandolo negli occhi, con aria di sfida, e continuò a respirargli in faccia una boccata di fumo dopo l’altra, una dopo l’altra, senza parlare.
Il loro matrimonio finì così: quella stessa sera lui se ne andò. Lei, dietro la finestra chiusa, lo osservò allontanarsi e aveva in bocca una sigaretta.

venerdì 13 maggio 2011

Coda

Sono in coda all'ufficio dell'anagrafe. Ho sette persone davanti a me. Cronometro la prima che si avvicina allo sportello. E' un uomo vestito da testimone di Geova. Sbriga la sua pratica in quattro minuti e 12 secondi.
Faccio un rapido calcolo:
Sette persone per una media di quattro minuti, fanno 28 minuti. Ci aggiungo cinque minuti, tanto per stare tranquillo, fanno 33 minuti. Guardo l'orologio, sono le dieci e venti, alle undici sono fuori di qui.
La seconda che si avvicina allo sportello è una ragazza di circa 18 anni. Ha due fotografie, le passa nella fessura, l' incaricata le fissa per un po', poi scuote la testa e gliele ripassa. Nasce una accesa discussione. Passano 4 minuti, poi 7, poi otto. Dopo otto minuti e 37 secondi la ragazza sbuffa, mi passa di fianco sibilando un vaffanculo, e se ne va.
Mi ha rovinato la media.
La terza donnina per fortuna ha sbagliato sportello, chiede scusa e se ne va.
Controllo l'orologio: Due minuti secchi.
Il quarto è un tipo completamente sordo. L' incaricata gli fa una domanda e lui si mette a urlare: CHE COSA?. CHE COSA? CHE COSA?
E l'incaricata, sventolandogli un fogliettino sotto gli occhi: HA CAPITO? HA CAPITO? HA CAPITO?
E lui: CHE COSA? CHE COSA? CHE COSA?
E Lei: HA CAPITO? HA CAPITO? HA CAPITO?
E lui: CHE COSA? CHE COSA? CHE COSA?
. Alla fine il vecchietto riesce a sbrigare la pratica, saluta e se ne va. Il tutto è durato 6 minuti e 37 secondi
Il quinto è un peruviano dall'italiano incerto. Chiede qualche cosa all' incaricata. Quella si mette a ridere così forte che cade dalla sedia con un tonfo. La sento ridere da sotto lo sportello per tre minuti.
Il peruviano saluta e se ne va.
Tutto il fatto dura 5 minuti e 12 secondi.
Il sesto è un ragazzino col casco da moto allacciato, si avvicina allo sportello e tira una testata al vetro, mandandolo in frantumi. L'incaricata si porta le mani alla bocca e sgrana gli occhi.
Oooooooooooh!” fa.
E il ragazzino, puntandogli un dito contro: “Aaaaaaaaaaaaaaaaaah!” quindi si gira e se ne va.
Guardo l'orologio. 45 secondi.
Il settimo è un milanese dall'italiano incerto. Chiede qualche cosa, poi mette una mano su un pezzo di vetro, si taglia e parte in aria con un fsssssssssssssssssssssssssssssss. Esce dalla finestra e vola via.
Non ho fatto in tempo a cronometrarlo.
Tocca a me. Dico buongiorno alla signorina dietro lo sportello, lei mi risponde per contratto, poi mi chiede cosa mi serve.
Niente, mi piace fare la coda e immaginare la vita delle persone di fronte a me” rispondo.
La signorina mi guarda come fossi un televisore spento.
E adesso che facciamo?” mi chiede.
Niente. Adesso la saluto e vado via” dico.
non lo può fare. Adesso che ha fatto la fila mi deve chiedere un documento qualsiasi. Per legge”
Ma ieri ero al comune di Buccinasco e dopo tre ore di fila non mi hanno chiesto niente!”obbietto.
E' cambiata la legge, questa notte.” Fa lei, con aria di sfida.
Essendo un uomo ligio alla legge decido di chiedere il mio stato di famiglia.
In carta libera, oppure in marca da bollo?”
Marca da bollo” decido.
Il bollo deve andare a prenderlo nella cartoleria di fronte al comune, perchè noi non ne teniamo”
Come mai?”
Ci divertiamo a complicare la vita alla gente” Mi dice. Il ragionamento non fa una piega. Esco dal Comune, vado a prendere la marca da bollo, e ritorno. La signorina è ancora lì. Le porgo la marca da bollo.
Faccia la fila, per favore” mi dice. Mi guardo intorno. Solo solo.
Ma non c'è nessuno”.
Adesso arriva. E' andata un attimo in bagno.” dice, fissandomi negli occhi. Rimaniamo lì per quindici minuti senza dire una parola. Alla fine mi chiede:
Ha bisogno?”
Si, ma c'è una persona prima di me, solo che è andata in bagno.” faccio presente.
Chi va via, perde il posto all'osteria” dice, scrollando le spalle.
Gli dico che mi serve il certificato di famiglia in carta bollata. Gli do il bollo, e poi aspetto. Dopo due minuti mi passa la carta. Leggo, e faccio un balzo.
Scusi” dico all'incaricata “ Dal mio stato di famiglia viene fuori che sono morto da due anni”
Se c'è scritto lì, si vede che è vero.” risponde lei, corrucciando la fronte.
Strano, nessuno mi ha avvisato. Non è che si tratta di uno sbaglio?”
Impossibile. Se quel foglio lì dice che è morto, lei è morto. Si fidi ”
E come mai non sono stato tumulato?” chiedo. L'incaricata sbuffa, spazientita.
Senta” dice “Non posso sapere tutto,vada ad informarsi al cimitero, che li le sanno dare tutte le risposte che vuole. Adesso chiudo perchè mi sono rotta i coglioni.”
Chiude lo sportello.
Adesso sono qui al cimitero comunale di Bareggio. Sto facendo la coda per parlare con l'incaricato, perchè se risulta che effettivamente sono morto, e inutile tirarla per le lunghe,magari riesce a buttarmi dentro a qualche fossa entro sera. Davanti a me ci sono tre persone. Quella prima di loro, ci ha messo otto minuti per sbrigare la sua pratica.
Se faccio una media...