"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

domenica 22 dicembre 2013

Una storia Natalizia legata ai pennelli con le setole di cinghiale


Dicembre del 1745. Parigi.

La giovane Andreina Bourbon, apprezzata pittrice di nature morte, decide di specializzarsi nel ritrarre angurie e cocomeri vari. C'è molta richiesta in tutta Europa per simili quadri, in Francia specialmente vanno forte i ritratti con cocomeri lunghi di provenienza americana. Andreina si iscrive ad un corso di pittura tenuto dal famoso Gustav Flaubert, a cui si deve il maestoso quadro le cocomeron jaune esposto al Louvre, oltre che la ritintura del garage di Napoleone. Andreina segue con profitto le lezioni, anche se molto faticose. Infatti in Francia è illegale usare i pennelli con i peli di cinghiale, si può adoperare solo il cinghiale. Si prende l'animale, lo si immerge nel colore e lo si strofina sulla tela.
Non è facile tenere in braccio una bestia dal peso minimo 80 kg, e molti degli iscritti schiantano a terra stremati dalla fatica. Il professor Gustav Flaubert li denigra, ridendo della loro debolezza. Per produrre bellezza bisogna saper soffrire afferma convinto, tirando loro calci negli stinchi e sputandogli addosso i semini dell'anguria. Alcuni degli iscritti chiedono indietro i soldi del corso, ma Flaubert li ha sperperati tutti comprandosi dei meravigliosi calzettoni alla zuava, una piccola mongolfieira e dei racchettoni da neve.
La giovane Andreina, praticando da anni la specialità atletica del lancio del peso, non soffre particolarmente a tenere un cinghiale in braccio. Spesso, per tenersi in allenamento, lancia uno degli animali a parecchi metri di distanza. Ciò nonostante essa è solidale con i suoi compagni, e decide di organizzare una riunione segreta per discutere il da farsi.
La fredda sera del 20 dicembre, mentre una tormenta di neve infuria su tutta Parigi, i superstiti del corso si ritrovano a casa di Andreina. Sono in dodici. Andreina, sgomenta, si rende conto di non avere pattine per tutti. Per fortuna, uno dei partecipanti della riunione è il fornitore ufficiale di pattine del Louvre, e si muove sempre col vasto campionario. Pattine per tutti. Risolto il problema, Andreina chiede la parola:
Amici! Compagni! Questa è una situazione insostenibile. Non possiamo continuare a dipingere a queste condizioni. Dobbiamo costringere il governo a rendere legale l’utilizzo del pennello con i peli del cinghiale, il futuro si muove in quella direzione!”
Applausi. Si leva una voce di dissenso:
Non acconsentiranno mai, le lobby dietro il mercato dei cinghiali sono potentissime, anzi ho saputo che vogliono spingere il governo a portare il peso minimo del cinghiale da 80 kg a 120!”
Fischi convinti. Prende la parola l'uomo delle pattine:
E’ una follia, in questo modo non potremmo curare le rifiniture, come potremmo mai rendere reali i semini dell'anguria? e le innumerevoli e meravigliose sfumature della scorza? come faremo? e poi, i cinghiali sono animali con poca pazienza, si rompono i coglioni, si spaventano ed emettono rumori molesti! Soccomberemo! Dobbiamo ribellarci!”
Applausi convinti. Chiede la parola un uomo dai baffi spioventi. Brusio in sala.
Forse potremmo trovare un compromesso. In alternativa si potrebbe infilare un bastone in culo ai cinghiali, sarebbe più facile usarli!”
Un cinghiale, infiltratosi alla riunione, emette un grugnito di terrore e si getta dalla finestra. La proposta è respinta unanimemente. Tutti sanno che questo provocherebbe una reazione degli animalisti, per non dire dei cinghiali che fuggirebbero oltre confine provocando un incidente internazionale con conseguente crollo in borsa e licenziamento in tronco di due milioni di lavoratori nel settore delle grucce per abiti, costringendo tutti ad andare in giro con le giacche spiegazzate.
E’ quasi mezzanotte, si decide di aggiornare la riunione e preparare una grigliata, ma proprio quando stanno per salare la carne irrompe la polizia, che arresta Andreina, unica a non nascondersi nel bagno delle donne, con l’accusa di istigazione alla rivolta e sequestra tutte le costate, lasciando però i salatini.
In questura Andreina si rifiuta di collaborare non confessando i nomi dei suoi complici, anche se ammette che tutti portano il 42 di scarpa. Dopo due giorni è rilasciata, con l’obbligo di presentarsi al comando di polizia ogni mercoledì e lavare tutti gli asciugamani della centrale.
La donna torna a casa infuriata, sa che qualcuno ha tradito. Sospetta di Gustave Flaubert e decide di affrontarlo. E' la notte di Natale, Andreina Irrompe nel suo studio senza bussare trovando il pittore in atteggiamento inequivocabile con un cinghiale maremmano dal peso approssimativo di 190 chili. Gustave cerca di negare, provando a nascondere l'animale sotto un tappetino, ma tutto è inutile e alla fine egli confessa in lacrime:
Si, Andreina, ho chiamato io la Polis. Non voglio che i cinghiali vengano tosati, io li amo così, selvaggi e liberi!” Quindi Gustav, indicando l'animale al suo fianco, afferma: “io amo questo cinghiale!”
L'animale si avvicina timidamente ad Andreina, e allungandogli una zampa, si presenta:
Piacere, Carlo”
Andreina, che è una donna a cui piacciono gli uomini villosi, e anche un po' strabici, capisce il loro folle sentimento e li perdona entrambi stringendoli forte, quindi esce dallo studio del pittore. E' una sera fredda, fiocchi di neve scendono densi sulla strada. Andreina guarda verso il cielo grigio e poi si domanda:
Ma questo racconto, che cazzo sta a significare?


mercoledì 11 dicembre 2013

katauta



tra cielo e terra
un silenzioso abbraccio -
neve neve e poi neve

****

Il katauta è una  forma poetica giapponese che si compone di 19 sillabe così suddivise: 5-7-7 

L'immagine dal web è un dipinto di Hiroshige Utagawa 歌川広重 Utagawa Hiroshige  (Edo, 1797 - Edo, 1858) 

lunedì 2 dicembre 2013

La Casa



Era andato da poco in pensione e tornato al paese. Quella casa era stata una manna dal cielo, spaziosa e a poco prezzo. Certo, trascurata e dall'aspetto un po' sinistro, ma lui era appassionato di bricolage e con tutto quel tempo libero...
La prima notte, però, fu un disastro: porte che sbattevano, risate sataniche, rumore di catene, il letto che tremava... e alle quattro del mattino un quadro si staccò dal muro e gli crollò sulla testa.
La mattina dopo era incazzato nero.
Chiaro che la casa era stregata e per questo non costava una minchia. Chiaro che della cosa se ne fotteva. Figuriamoci se si faceva mettere sotto da qualcosa che non esisteva neppure.
Per quarant'anni aveva fatto l'addestratore di cani, per l'esercito e la polizia. Aveva imparato che esiste una regola universale per educare chiunque, cani, tigri o cristiani: premiali quando si comportano bene e puniscili quando sbagliano. Non vedeva perché non dovesse funzionare con quegli ectoplasmi del cacchio.
Prese una mazza da demolizione e scese nel seminterrato. Stando di fronte a una delle colonne portanti, si rivolse direttamente alla casa, ad alta voce: “Stanotte hai rotto i coglioni... ora vediamo chi rompe di più!” e giù una mazzata. Poi un altra, e un'altra. Sentiva il cemento vibrare sotto i colpi, mentre frammenti di intonaco schizzavano qua e là. Gli parve pure di sentire un lamento, un ululato basso, ma forse se l'era solo l'armatura di cemento che vibrava.
Bene -disse- per questa volta te la cavi con un calcio negli stinchi, ma vedi che non si ripeta più”
Quella notte dormì come un bambino, a quanto pare qualcuno aveva capito chi comandava.
Premiali quando si comportano bene, pensò, e si mise a dare l'impregnante alle perline di legno.
Ma sarebbe stato troppo bello pensare di aver vinto la guerra dopo una sola battaglia.
Qualche giorno dopo l'acqua raggelò mentre faceva la doccia, poi cominciò a colare sangue dal doccino. I pensili della cucina si spalancarono, spargendo il loro contenuto sul pavimento.
Gli saltò la mosca al naso, quella stronza di casa aveva esagerato: col cavolo che lui puliva quel disastro.
Guardò le previsioni del tempo, lo attendeva un fine settimana freddo ma soleggiato: perfetto.
Salì sul tetto e tolse tre metri quadri di tegole. Aprì le finestre e le bloccò con il filo di ferro. Poi scese in cantina e spense la caldaia. Infine disse forte e chiaro: “Io me ne vado a pescare due giorni. Quando torno dev'essere tutto pulito. Altrimenti il freddo che sentirai domani lo ricorderai con nostalgia” e per sottolineare il concetto mollò altre due mazzate alla solita colonna.
Mentre pescava pensava al vento di gennaio che gelava i muri, al legno degli assiti che si crepava, alla brina che ricopriva il piano di marmo della cucina. Soddisfatto, ridacchiava.
Quando tornò la cucina era pulita, nei pensili le scatole erano disposte per ordine di grandezza. Sistemò le tegole e fece andare al massimo il riscaldamento. Questa vola fu sicuro di sentire un sospiro di sollievo. Diede la cera ai pavimenti e promise ad alta voce di verniciare le persiane. Poi falciò il prato.
Sei mesi dopo, viveva nel paradiso degli amanti del fai da tè. Passava l'antiruggine sulle ringhiere, carteggiava i gradini in legno, sistemava i mobili traballanti. Intanto la casa, sotto le carezze del pennello, faceva le fusa con un rombo sommesso. La sera il letto lo cullava muovendosi dolcemente mentre una voce lontana gli cantava struggenti ballate. La mattina quando si svegliava i pavimenti erano sempre puliti e i piatti, che aveva lasciato sporchi nel lavandino, gocciolavano dallo scolapiatti, divisi per tipo.
Per niente al mondo avrebbe cambiato casa.

domenica 17 novembre 2013

L'AUTUNNO DEL NOSTRO SCONTENTO



L'autunno si era travestito da inverno: tutte le mattine si alzava una nebbiolina fredda e appiccicosa e pioveva un giorno sì e l'altro pure. Gli alberi si vergognavano di essere nudi già alla fine di ottobre. Chissenefrega: mia moglie, stavolta, aveva avuto l'idea giusta: 15 giorni di vacanza a Palawan, sud-ovest delle Filippine, un'isola verdissima e tropicale fuori dalle solite rotte o, per dirla come il depliant, “uno smeraldo in un mare di turchesi”. Per farvi capire di che umore ero quando partimmo, vi dico solo che già in aereo portavo il costume da bagno sotto la tuta, e a metà del volo mi infilai le infradito.
Per la verità, a Manila il benvenuto non fu granché: una pioggerellina sottile sporcava le vetrate dell'areoporto. Mia moglie sentenziò: “ che c'entra, qui siamo molto più a nord, e poi è il microclima della città...”. Per la seconda volta aveva ragione: il giorno dopo a Palawan era una giornata da cartolina, roba che il depliant gli faceva una sega: ventinove gradi, mare cristallino, vegetazione rigogliosa... e il resort, che spettacolo! Un pugno di palafitte in mezzo al nulla, una lingua di sabbia e sole e mare, mare e sole.
La mattina dopo, però, ci svegliammo sotto la pioggia. Mia moglie minimizzò: “è un acquazzone tropicale, tra mezz'ora passa”. Ma ne aveva dette due giuste e la statistica non mente, per altri cinque anni non ne avrebbe azzeccata una.
Comunque, dopo due ore stavamo ancora lì, e non c'era molto da fare in quella cacchio di palafitta senza neanche un televisore, così facemmo l'amore, per la prima volta dopo mesi. E nel pomeriggio, mentre la pioggia picchiettava romanticamente sul tetto, lo facemmo ancora. Dopo cena, mia moglie mi fece un sorriso strano, malizioso... fu a quel punto che tirai fuori le carte e proposi una partita a burraco, perchè mica sono fatto di ferro.
La mattina dopo pioveva ancora e così mi avviai verso il bungalow della reception per sentire le previsioni del tempo dagli indigeni. Sfoderando il mio migliore inglese chiesi: “the time.. domani... beautiful, yes?”. La filippina al banco sorrise. Mimai delle gocce di pioggia, o forse l'attacco di un orso, poi l'illuminazione: “the rain...”.
“Oh” -fece quella- do you want to know something about the weather?”
“Eh?”
“Just a moment” - disse, e sparì nel retro.
Dopo qualche secondo uscì un ometto basso, che doveva aver fatto il maggiordomo in Italia, perché esordì, sempre sorridendo: “Questa è stagione di pioggia”.
Sbiancai.
“Ma tu non preoccupare, due-tre settimane tutto finito”
“Cooosa? E che ci faccio qui...”
“Oh divertente qui: giovedì viene signore per massaggio, sì, e domenica ballo tradizionale”
Balbettai “Ma, ma, ma... e gli altri?”
“Non c'è altri, altri viene a dicembre, stagione secca. Noi tutti per voi!” e giù un sorrisone.
“Ma porco ****!” e giù un bestemione epico.
Il filippino raggelò: mi indicò imperioso il crocefisso alla parete: “Se tu vuoi bestemmiare, va da un'altra parte!”
“Magari!”
Tornai alla palafitta imprecando, tutta colpa di quella stronza che si era fatta infinocchiare! Palawan del cazzo! Mia moglie abbozzò una difesa, ma la stroncai sul nascere; seguì un litigio furioso, sicché mi scordai l'unico passatempo decente per tutti i giorni che seguirono: cinque giorni di pioggia, noia e burraco, prima di trovare un biglietto a prezzo spropositato per tornare a Milano.
A Malpensa un sole abbagliante mi attendeva per sfottermi. Il tassista, saputo che venivamo dalle Filippine, si lanciò: “ma io ho una nuora Filippina, ci sono stato l'anno scorso: che paese meraviglioso, che sole, che spiagge!”
“Si fermi.”
“Cosa?”
“Si fermi, porco ****, voglio scendere”
“Ue' cicetti, se devi bestemmiare, vai da un'altra parte!”
“Dai caro, non fare il matto” - fece mia moglie.
“Ma vattene affanculo tu e le Filippine” dissi al tassista, o forse a mia moglie o al mondo intero, e saltai giù che l'auto non era ancora ferma, correndo non so dove.
Vidi giusto il cofano della macchina che mi veniva addosso, e feci in tempo a notare l'adesivo che aveva sul parabrezza, quello contro il nucleare con il sole, il sole che ride, 'sto stronzo.

Mi svegliai in quest'ospedale di suore, dove sono in trazione da sei settimane, immobile sul letto a guardar fuori dalla finestra. Vedo solo un albero spoglio e una fetta di cielo grigio. Piove, piove da giorni. La madre superiora mi tiene il pappagallo mentre piscio.
Il cellulare suona, è mia moglie che sta facendo la settimana bianca, mi manda la sua foto con l'istruttore di sci, sorridenti nella neve che riflette il sole limpido tra le montagne. “Ma porco ****... ahhh!” La suora mi strizza le palle. “Se vuoi bestemmiare, va da un'altra parte!”
Piagnucolo:“Magari!”.

martedì 5 novembre 2013

Alfio

Alfio appoggia il Garelli tre marce rubato al palo del divieto di sosta, datosi che il cavalletto è rotto e non tiene manco per niente, dà un occhiata veloce intorno, prende il collant dalla tasca se l'infila nella capa prima di entrare nella posta. Sono le 12,30 di un mercoledì di un autunno caldo che si vede che questa storia del buco dell'ozono è proprio vera, dentro ci stanno giusto quattro vecchi rincoglioniti dal caldo, Alfio pensa: che cazzo, quasi quasi manco la tiro fuori la pistola ma dato che se l'è fatta prestare dal suo amico Vincè e chissà quando gli ricapita di averla in tasca decide di fare un po' di cinema.
Alfio è fatto che ve lo raccomando, e già non è un genio di suo, figurarsi quando è stonato a furia di cannoni con dentro dell'hashish da schifo.
Alfio acchiappa il ferro, ma non lo tira manco fuori dalla tasca che gli incespica il dito nel grilletto e parte un colpo, facendogli saltare all'istante l'alluce del piede destro. Alfio si spaventa per il botto e tira un urlo che levati, si osserva la scarpa esplosa e non si raccapezza di che minchia è successo. Solo dopo una manciata di secondi arriva il dolore che gli incrocchia le ginocchia, e Alfio quasi si schianterebbe a terra se non si agganciasse al volo a un vecchio bicentenario incontinente, che per lo sforzo di tenere su un giovane a peso morto si piscia immediatamente addosso.
Gli impiegati postali, che per la madonna è la terza rapina questo mese sono già spariti sotto i tavoli dietro le vetrate, mentre i restanti tre vecchi atterriti dallo scoppio non sanno che cosa pensare di quella scena, e sacramentano a prescindere.
Alfio piange e saltella, avvinghiato all'incontinente, che è pure sordo e il colpo di pistola non l'ha manco sentito. A lui ci pare che quel demonio con il collant infilato in capo gli voglia fottere la pensione, sto terùn che lui la pensione ancora manco l'ha ritirata. E comunque lui non è tipo da farsi aggredire senza reagire da un barbone drogato e molla a Alfio una mazzata tra capo e collo che tanto di cappello!
Alfio si sconocchia tutto ma non cade, perchè sa che se ne deve scappare entro subito da quella situazione di merda, se non si vuole ritrovare addentro a una cella, e quindi a capo chino, incrocchiato dalle botte di quel vecchietto maledetto e strisciandosi il piede sanguinante se ne scappa dalla posta.
Saltellando come un grillo Alfio si porta sino al palo del divieto di sosta dove ci stà il Garelli tre marce, che però si è tutto sconocchiato a terra per chissà quale motivo.
Alfio sanguinante come uno che si è sparato ad un piede, a fatica issa quello scalcagnato motorino manco fosse pesante come un trattore, ci sale sopra e inizia a pedalare, con fitte di dolore che gli scoperchiano il cranio.
Alfio buca spedito un rosso al semaforo, che quasi una Fiat Panda se lo arrota, lui schiva e pedala, che quel bastardo di motorino non ne vuole sapere di partire. La vista gli si annebbia, e quasi quasi gli viene voglia di farsi una bella svenuta e vaffanculo, quando da dietro sente la sirena della pula.
In galera Alfio non ci vuole tornare, perchè lì dentro busca sempre un sacco di mazzate, e poi si mangia da vomito, e lui si è intrippato con Gordon Ramsey alla tele e il suo sogno è aprire un ristorante con i controcazzi in qualche paese dove non ci sono poliziotti a rompere i coglioni. Perciò Alfio pedala che pare Bartali con le la pula che gli morde le chiappe. Botta di culo, finalmente il Garelli si appiccia. Manco il tempo di sospirare che Alfio chiappa una curva da spavaldo, tutta piena di foglie com'è la strada, per via dell'autunno e delle foglie che cadono e tutte quelle puttanate che sta di fatto che il Garelli se ne parte per i cazzi suoi e a Alfio le palle gli si strizzano come il mocio vileda e quindi si va a schiantare sulla vetrina della lavanderia a gettoni di fresca apertura.
Alfio con la testa incastrata dentro una lavatrice industriale, stranamente si sente molto bene, in pace con tutto sto mondo di merda, e non vede l'ora di essere arrestato e portato via.

martedì 8 ottobre 2013

ADDIO



ADDIO
Non sapevo molto di te.. ma questo non mi impedisce di ricordarmi di te cm se fosse ieri l’ultima volta che c siamo incontrati..
Quelle volte che andavamo a pranzo dai nonni, e su quel tavolo in sala alla sinistra del televisore in via Civitali ci saziavamo con tre piatti di lasagne al forno, e brindavamo con qualche calice di vino alla felicità della famiglia che si riuniva per le occasioni speciali. Eri sempre solare e piena di vita a quell’ estremità del tavolo che dava sulla finestra. Meritavi sempre il posto a capotavola in fianco al capofamiglia, e come una regina dominavi la situazione scrutando tutti i commensali con il tuo sguardo dolce e sincero.
Quelle volte che a natale ci si riuniva sotto l’albero per trascorrere in allegria il grande evento, e tu trovavi sempre il modo per non mancare, riuscendoci in ogni occasione. Anche se a volte non eri in vena di festeggiare non lo facevi mai notare, e sul tuo volto si leggeva sempre quella grande serenità che aveva il potere di nascondere in ogni circostanza i tuoi rari malesseri.  L’incontro con i parenti ti faceva stare da dio.
Sapevi sempre come renderti interessante, avevi sempre una gran voglia di confrontarti con gli altri e riuscivi sempre a fare il primo passo nelle conversazioni. Questo era uno dei tuoi pregi più grandi. Era il tuo modo di essere unica, e in 22 anni non sono mai riuscito a imparare da te quest’arte. Non hai idea di quanto ti invidi e di quanto avrei voluto essere come te.
Riuscivi a mettere di buon umore chiunque ti ascoltasse, riuscivi a cogliere i punti deboli anche nei più forti e riuscivi a trovare il modo per farli ridere. Tutti quelli che avevi di fronte in qualche modo cadevano nella tua trappola, e in poco tempo di loro riuscivi a scoprire ogni cosa, a cogliere ogni dettaglio, a interpretare ogni loro segno.
Riuscivi a rinfacciare tutto senza paura di essere giudicata e senza timore di subire conseguenze. Non ti importava delle reazioni altrui, del loro imbarazzo, non ti importava dei loro sguardi a volte sarcastici. Ti importava soltanto di fare il possibile per migliorare la qualità della vita di chiunque ti stesse accanto. Ti importava soltanto di avere il prossimo al centro delle tue attenzioni e di metterlo a proprio agio in ogni circostanza.
Si, questo da te l’ho imparato. Ce n’è voluto tanto di tempo, ma alla fine ci sono riuscito e per questo ti sarò debitore per sempre.
Quelle volte che venivamo a trovarti in Piazza Selinunte in quella casetta così accogliente io facevo sempre il giro di tutti i locali, come se un giorno quella splendida dimora sarebbe diventata mia. Mi permettevo persino di entrare in camera da letto e rimanevo affascinato da quei bellissimi quadri appesi sul muro chissà quanto tempo prima. Uno era sulla parete a cui era accostato il letto, di fronte a uno specchio antico, mentre un’ altro occupava la parete a destra rispetto alla porta d’ingresso della stanza. Mi ricordo anche di un ometto su cui mettevi sempre in bilico i vestiti che utilizzavi più di una volta. Il salotto era la mia stanza preferita. Mi ero innamorato di una macchinina che avevi sulla credenza e la fissavo di continuo immaginando di poterla guidare e di andare ovunque avessi voluto.
Quando ci sedevamo sul quel divano piccolino di fronte al tavolo da pranzo a me toccava sempre il posto più scomodo. Stavo sempre sul bracciolo perché i miei fratelli si accaparravano i posti migliori per starti vicino e guardarti in quegli occhi splendidi  il più a lungo possibile.
Sembravano due stelle luminose. I tuoi occhi erano sempre accesi, sempre vivi ed espressivi. Dai tuoi occhi si intuiva il tuo stato d’animo quando non riuscivi a esprimerlo a parole. Si capiva quando eri felice, quando stavi male, quando ti sentivi a disagio, quando eri annoiata, quando eri tranquilla, quando avevi paura.. si capiva tutto quello che pensavi, quello che sognavi, quello che desideravi e quello che avresti voluto fare. Guardarti negli occhi era come guardare nel tuo cuore.
Quelle volte quando ero piccolo che entravamo in casa tua e con te c’era la nonna Emidia. Ci dicevate sempre “Belè Facruscè” o “Scigulin d’or” e noi sorridevamo contenti. Sorridevamo invidiosi delle attenzioni che ci regalavate e ci sentivamo importanti e speciali.
Quelle volte che io e papà ci precipitavamo da te quando succedeva qualcosa e ti venivamo in soccorso, o venivamo per assicurarci che stessi bene dopo qualche piccolo incidente.
Ci prendevamo cura di te e solo dopo essere convinti al 100% che stessi al meglio toglievamo il disturbo a malincuore, sperando sempre che quella sarebbe stata l’ultima cosa brutta che ti sarebbe capitata.
Quella volta che alla festa di una ragazza che mi piaceva sono entrato in un locale a due passi da casa tua, guardavo il cancello del tuo palazzo con una gran voglia di venirti a salutare e di sapere come stavi.
Mi ricordavo dell’ultima volta che io e papà eravamo venuti a trovarti, non molto tempo prima, e mi sarebbe piaciuto tanto passare la serata in tua compagnia.
Guardavo le macchine girare alla rotonda e passare davanti al tuo cancello sperando che qualcuno mi caricasse su e mi portasse all’ingresso per citofonare e sentire la tua bellissima voce, probabilmente sommessa a causa della felice sorpresa che avresti ricevuto nel trovarmi lì a quell’ ora.
Lo stesso giorno di Giugno avevo fatto il saggio di pianoforte e mi era andato stramale. Mi veniva da piangere perché non ero riuscito a dimostrare di essermi sbattuto per un anno a imparare un pezzo ed ero sicurissimo che tu mi avresti ascoltato, che mi avresti capito, e che mi avresti confortato come solo tu sapevi fare, facendomi uscire di casa felice, anche se tanto a malincuore.
Uff.. e poi mi ricordo bene quel dannato giorno in cui hai lasciato casa tua.
È successo tutto così all’improvviso.. L’ho saputo da papà una sera dopo il lavoro e in quel momento sentivo che tutto sarebbe cambiato. Sentivo che non ci saremmo più visti con la stessa frequenza di prima, sentivo  che mi saresti mancata di più, sentivo che i nostri incontri sarebbero stati molto più brevi, sentivo che non ci sarebbe più stato l’affetto di un tempo.
Ma per fortuna tutto ciò non è accaduto. Nulla è cambiato, e questo è stato soprattutto per merito tuo. Sei sempre stata forte, sei sempre stata una spanna sopra gli altri, sei sempre stata più sveglia degli altri, e quando tramite papà sentivo le tue impressioni riguardo a quel luogo sorridevo e ti pensavo a lungo. 
Tuttavia, la tua casetta mi è rimasta impressa nella mente, mi è rimasta nel cuore. A volte mi capita di rivederla nei sogni, mascherata in qualche strano modo. Mi manca tutto di quel posto stupendo. Anche l’odore così particolare mi manca. Era davvero unico e in nessun altro luogo si poteva avvertire.    
Ora Farei di tutto per poter tornare indietro di qualche tempo, quando ero ospite in quella dimora così ricca di vivacità e sorrisi, grazie alle tue parole dolci che lasciavano intendere tutto l’affetto che provavi nei nostri confronti.

domenica 29 settembre 2013


CAMICIE



Tutto cominciò qualche anno fa, per via di una camicia che andai a comprare alla Rinascente. Lì conobbi Laura, sorriso caldo, scollatura profonda, parlantina sciolta. Cominciai ad acquistare una camicia dopo l’altra: collo alla francese, alla coreana, button down, slim fit, normal fit, polsino doppio, polsino semplice, tessuto Oxford, cotone doppio ritorto… ne avevo l’armadio pieno. E naturalmente avevo una nuova fidanzata, Laura, che sin dall’inizio, addocchiato il mio portafoglio, aveva deciso di non vendermi solo un autotreno di camicie, ma anche se’ stessa.
Non ci impiegai molto per capire che, da brava venditrice, il buon affare lo aveva fatto lei. Tempo due anni da che ci fummo sposati e si rivelò per quello che era: una terribile rompicoglioni.
Nel frattempo, però, ipnotizzato da quella scollatura e da un culo cui mancava solo la parola per essere più convincente, le avevo intestato tutto: conto in banca, immobili, quote azionarie.
Scoprii così che ci si abitua più facilmente ad una moglie rompicoglioni che all’idea di diventare poveri.
Per qualche anno instaurammo al classica routine un po‘ ipocrita delle coppie che convivono sopportandosi, per abitudine. Poi tutto finì, sempre per via di una camicia.
Ricordo che stavo cenando (vorrei dire che mangiavo un uovo in camicia, ma l’universo non è così attento ai dettagli) quando lei arrivò sbraitando e sventolando una mia camicia, con la classica macchia di rossetto sul collo.
Protestai, negai tutto, negai l’evidenza, con un’intensità che derivava soprattutto dall’idea del mio portafoglio titoli che mi salutava per sempre. Dovetti risultare convincente mentre urlavo che era assurdo, perché alla fine mi credette. Ed era davvero assurdo: le labbra della mia segretaria si erano sempre fermate ben più in basso del mio collo!
Però, se una moglie rompicoglioni si può ancora sopportare, una rompicoglioni, paranoica, gelosa e che per giunta ti tiene per le palle, proprio no.
Questo ci porta qui, cara Laura, a questa fantastica vacanza lontano da tutto e da tutti che avevo programmato da tempo. Che notte meravigliosa! Il motoscafo che si ferma tra le onde, cullati dal mare, le stelle che brillano in questo cielo senza luna, nessuno in vista per chilometri. Ti piace? Perché non rispondi? Forse perché sei chiusa in quel sacco di plastica, con la testa fracassata e l’ancora legata intorno? Va bene, allora è inutile discutere.
La prendo, la sollevo (il culo è ancora bello sodo) e le dico addio facendola scivolare nell’acqua scura.
Che peccato, che spreco!
Sì, perché in quel sacco nero, sporca di sangue, ci ho dovuto mettere anche la mia camicia preferita.  

mercoledì 18 settembre 2013

La piccola liberta'


Andavo in vacanza anche da piccola, quando ero una bimba e i miei genitori pensavano a tutto, sceglievano tutto dai miei vestitini ai miei divertimenti, alla mia felicità e alla mia tristezza.
Ero in balia di tutto il mondo ma mi fidavo e dormivo sonni sereni.
Non avevo paura delle fregature, di non trovare il mare bello, di mangiare male e pagare tanto.
Mi bastava solo sapere che in quel preciso giorno sarei salita sulla macchina del papa e avrei raggiunto un nuovo posto, con nuove facce, e tanti giorni diversi dai miei soliti giorni.
Viaggiavo davanti seduta tra mamma e papa perché i miei fratelli dovevano dormire.
Mi dicevano che ero grande e che potevo stare sveglia durante la notte, e io ero orgogliosa di essere considerata cosi’ e quindi per l’eccitazione stavo sveglia, e poi potevo parlare con i miei genitori senza che quelle pesti dei miei fratelli si intromettessero sempre dicendo stupidate a non finire, e a farmi arrabbiare.
Distraevano sempre la mamma che poi non capivo mai il perché, ma la prima sberla la rifilava a me.
Quando arrivavamo dai nonni ero sempre contenta.
Si preoccupavano tutti che avessimo sempre cose buone da mangiare, ma nessuno aveva tempo per stare con me, per giocare con me.
Io allora quando andavamo al mare stavo tantissimo tempo in acqua, tanto che il mio amico Lorenzo che ritrovavo ogni anno, non riusciva a starmi dietro, ad un certo punto mi diceva che aveva le dita cotte e le labbra blu e usciva.
Io quando il papa mi chiamava, facevo sempre finta di non sentirlo perché in acqua trovavo tante cose da guardare, mi sembrava tutto un mondo da scoprire in silenzio e in assoluta liberta’ senza che nessuno ti dicesse cosa fare e non fare, cosa non toccare…a volte infatti mi pungevo con i ricci cercando di prenderli  perché volevo copiare mio zio, oppure mi facevo pizzicare dai granchi..anche se poi ero diventata brava a prendere quelli piccini.
Un giorno di quelle vacanze, mi ero allontanata molto dalla riva e anche se vedevo che mio padre si sbracciava in piedi per segnalarmi che se aspettavo ad uscire  non mi avrebbe solo sgridato, scendevo e salivo da quello scoglio tutto ricoperto dal muschio, sempre con la paura di scivolare.
Facevo i tuffi e poi risalivo.Mettevo la maschera e di nuovo mi avventuravo alla ricerca di qualche animaletto da prendere o anche solo da ammirare…
Pero’ ad un certo punto la coscienza mi diceva che dovevo tornare a riva e anche il mio corpo che infreddolito, tremava.
Il mare era troppo agitato, le onde erano difficili da superare e cosi’ cominciai a bere.
Le forze erano decisamente scarse, ma mi mancava poco a raggiungere la riva.
A riva pero’ c’erano dei cavalloni alti quasi due metri e io che ero una bambina, e stremata per la difficile nuotata continuavo a uscire e rientrare sotto le onde..non riuscivo nonostante avessi raggiunto un punto per poter stare in piedi, a starci per farmi forza ed uscire.
Mio padre mi guardava e io gridavo chiedendogli di darmi una mano, che mi facevano male le gambe e che continuavo cadendo a sbattere contro i sassi.
Non mi aiuto’ ed io mi offesi moltissimo.
Quando riuscii finalmente ad uscire, lo guardai con tutto il risentimento che sentivo, e con gli occhi colmi di lacrime che pero' non avrei mai lasciato scorrere.
Forse dopo tanto tempo ho interpretato il comportamento di mio padre. Voleva dirmi che l’indipendenza ti fa sentire libero, ma devi essere consapevole che quando vuoi andare da solo in cerca di te e di quello che vuoi, qualcosa ti puo’ accadere,  e quel qualcosa lo devi saper affrontare sempre nello stesso modo, e cioe’ da solo.

Fatti incresciosi accaduti nel paese natio di Gianni Morandi

Uno splendido esemplare di mucca frisona dal peso approssimativo di 700 chili, in un pomeriggio assolato d'agosto stava brucando l'erba delle valli bolognesi, a 1400 metri d'altezza. Senza nessun preavviso l'animale senti' una fitta al cuore. in un lampo vide tutta la sua vita passargli davanti agli occhi, compresi i momenti felici trascorsi nella fattoria  in compagnia del toro Alfredo, quindi spiro', accasciandosi al suolo.
 essendo il luogo del decesso in pendenza, la mucca prese a scivolare verso il fondovalle.
il proprietario della mucca, il pastore Beppe, non si avvide immediatamente del dramma in corso inquanto intento a mandare messaggini erotici col telefonino a Teresa, una amica di sua moglie Pina, con cui intratteneva una relazione clandestina da sette anni. Teresa era una donna che durante gli amplessi  in preda all'eccitazione cantava  grandi successi degli anni sessanta, con una predilizione per il repertorio di Gianni Morandi, cosa che il pastore Beppe apprezzava tantissimo, essendo un appassionato di musica.
sua moglie Pinuccia invece non aveva nessuna predisposizione al canto, e durante gli sporadici episodi di sesso col marito spesso russava, oppure lavorava a maglia babbucce invernali per i nipotini.
L'erbivoro, nel frattempo, dopo un centinaio di metri di slittamento laterale aveva  preso a ruzzolare con grande energia, col suo campanaccio che batteva furiosamente, accompagnando il movimento sincronizzato delle zampe  che mulinavano in aria , sparivano, mulinavano, sparivano, mulinavano e sparivano sempre piu rapidamente, raggiungendo una velocita' ragguardevole non solo per una mucca, ma persino per un giaguaro.
Dopo aver divelto un muro di contenimento senza nessuno sforzo, la mucca si immise sulla stradina che portava al paese di Monghidoro, acquisendo ancora piu slancio.
Poco piu in basso il signor Gino guidava tranquillamente la sua Ape Piaggio, attrezzata per la vendita itinerante di abbigliamento da uomo. Era particolarmente soddisfatto perche aveva appena venduto una dozzina  di camicie di flanella a quadrettoni alla Pinuccia, roba che giaceva dentro una scatola di banane oramai da mesi, e in più ci era scappata una bella mezz'ora di sesso come piaceva a lui, con la Pinuccia che si faceva prendere a scudisciate nel sedere sdraiata su un covone di fieno.
 Era una vera bomba erotica quella donna, e in piu non cantava, cosa che invece sua moglie Teresa faceva continuamente.
Il signor Gino odiava la musica leggera, e in particolare odiava Gianni Morandi.
Da bambino, infatti, Gino aveva avuto come compagno di banco proprio il celebre cantante che con le sue enormi mani gli molava continuamente dei violenti coppini, facendogli sbattere la fronte contro il banco.
Il signor Gino era preso da questi pensieri quando senti'  alle sue spalle un frastuono assordante. Dallo specchietto retrovisore vide piombargli addosso un enorme massa informe tentacolare munita di campanaccio. Preso dal terrore il signor Gino schiaccio il piede sull' acceleratore. L'Ape Piaggio  schizzò in avanti impennandosi, col pover uomo che aggrappato al manubrio urlava a squarciagola mentre la mucca rotolante si avvicinava pericolosamente al mezzo. Sentendosi prossimo alla prematura scomparsa, il signor Gino chiese la grazia al patrono di Monghidoro, Santa Maria Assunta.
La mucca rotolante stava per travolgere il mezzo, quando un dosso non opportunamente  segnalato la fece decollare, superando l' Ape Piaggio in volo. Nel momento del sorpasso il signor Gino, alzando gli occhi al cielo, vide chiaramente la testa della mucca ruotare di 180 gradi, puntare gli occhi vitrei sui suoi, aprire la bocca e pronunciare questa frase:
Gino, pentiti.

Caso vuole che su quel tratto di strada fosse installato un autovelox. La foto che immortala il magico istante e' visionabile presso la sede della Polizia Municipale di Monghidoro, in via Matteotti 1.

Dopo aver sorvolato l'Ape Piaggio la mucca piombò sull'asfalto, rimbalzando  come una palla da tennis per una decina di volte, sfondò un guardarail e riprese a rotolare a grande velocità verso il fondovalle.
 Nella sua terrificante corsa la mucca incrociò il Dottor Ignazio, un uomo rispettabile con l'unico vizio della piromania. Teneva tra le mani una bottiglia colma di liquido infiammabile, ed era quasi pronto a lanciarla tra gli arbusti rinsecchiti quando fu investito in pieno dall'erbivoro, riportando varie contusioni, guaribili in una trentina di giorni, salvo complicazioni.
Il liquido si versò sull'animale, che prese fuoco immediatamente.
A monghidoro era in corso la festa padronale dedicata a Santa Maria Assunta, con tutte le vie della città addobbate a festa, e colme di bancarelle e visitatori in trepida attesa dell'ospite che sarebbe salito sul palco della piazza.
Il pastore Alfredo non si era accorto della scomparsa della mucca, e continuava beato a scambiarsi messaggini con la signora Teresa.
Il signor Gino era fermo al lato della strada, con le mani strette al volante in uno stato di trascentendenza mistica, dove  stava tenendo un intenso colloquio con Santa Maria Assunta, che gli stava consigliando  vivamente di finirla col sesso estremo, di  dedicarsi alla moglie, di sforzarsi di aprezzare la musica leggera e di smetterla di odiare Gianni Morandi.
La signora Teresa mentre rispondeva svogliatamente ai messaggini, vagava tra le bancarelle alla ricerca di memorabilia degli anni 60
La signora Pinuccia invece si stava spalmando una crema idratante Nivea sulle natiche, arrossate a causa delle violente scudisciate.

Gianni Morandi, solo nella sala comunale, si stava schiarendo la gola. Tra pochi minuti sarebbe arrivato il Sindaco, il Dottor Ignazio, che lo avrebbe accompagnato sul palco della Piazza di Monghidoro, suo paese natio, e dopo avergli consegnato le chiavi della città, lo avrebbe inivitato a cantare alcuni dei suoi successi. Osservò il paese dalla finestra e pensò agli anni dell'infanzia trascorsi tra quelle vie. Ricordò il suo compagno di banco, Gino, a cui mollava sempre dei violenti coppini. Arrossì di vergogna al pensiero. Se lo avesse visto sotto il panco gli avrebbe chiesto scusa. La verità era che Gianni Morandi odiava quel paese. C'era qualche cosa di maligno che si nascondeva sotto quell'atmosfera bucolica e pacifica, qualche cosa che gli faceva paura.
Il suo orecchio allenato alla musica fu allertato da uno strano suono.Era distante, ma si stava avvicinando rapidamente. Alzò lo sguardo verso la strada che portava al paese e la vide: un enorme palla  avvolta dalle fiamme che  a grande velocità puntava verso il centro della città. Una visione terribile, demoniaca. Gianni Morandi fece il gesto di aprire la finestra e avvertire la popolazione del pericolo, ma si rese conto che non avrebbe fatto in tempo, tutto era oramai inevitabile, quindi scrollò le spalle, si mise comodo
, e si preparò ad assistere allo spettacolo.

martedì 17 settembre 2013

I funghi a volte uccidono

Erano una bella coppia, lui manager di successo, lei promettente avvocato in uno studio legale della città, giovani, belli, ricchi, insomma facevano invidia a tutto il vicinato. Ed erano innamorati l’uno dell’altra, mai un pettegolezzo sulla vita privata di entrambi.
Como, sono le 23.30 di sabato, Maria e Giorgio stanno rientrando a casa con il loro Suv, la velocità non è elevata, anche perché siamo in autunno e si sa che in montagna sulle stradine tortuose l’imprevisto è sempre in agguato. Lui al volante guida cauto, lei gli appoggia una mano sulla sua gamba e parlano del più e del meno, la serata trascorsa a Milano dove c’è la movida è stata carina, ma hanno deciso di rientrare ad un orario ragionevole, domattina Giorgio vuole andare in cerca di funghi, la sua passione o per lo meno un hobby che il suo analista gli ha consigliato, fare delle passeggiate immerso nel verde, niente cellulare, solo lui e il contatto con la natura. Aveva già ottenuto dei buoni risultati, non era più stressato, gli giovava quel nuovo hobby. - Giorgio, non andare domattina dai – disse Maria con la sua dolce voce, mentre gli accarezzava i capelli, - Stiamo a casa, domattina ci sarà un nebbione, è pericoloso non voglio stare in pensiero. – I suoi occhi rotondi e castani imploravano Giorgio, -Ma dai Mary che vuoi che succeda, sono ormai mesi che vado nei boschi qua intorno, ed ora che posso lasciare a casa la macchina fotografica e cercare qualche fungo che la mia dolce mogliettina poi mi cucinerà come solo lei sa fare - disse sorridendo. Si perché quando la stagione era adatta, Giorgio si dedicava alla fotografia, aveva acquistato una macchina fotografica con tutti gli optional, si era creato un sito dove pubblicava le sue fotografie, e incredibilmente anche lì guadagnava denaro, sia con le pubblicità che con qualche contatto privato per vendere i suoi scatti. -Amore, non so, ho un brutto presentimento, sarà per quello che ho sentito alla tv, ma non voglio che vai da solo nei boschi qua intorno -. In effetti, lei non aveva tutti i torti, dalle cronache locali la notizia era passata a quelle nazionali, nella zona intorno Varese, erano stati compiuti alcuni omicidi, di cacciatori però, e non si trovavano vicino a loro come zona di riferimento, ma Maria era preoccupata. - Mary ne abbiamo già parlato, e poi lo sai il dottor Finzi me lo ha detto, da quando faccio, questo sono rilassato, ancora un paio di sedute e poi potrò non andarci più, e poi scusa non siamo abbastanza lontani da Varese! – disse cercando di tranquillizzarla. Non parlarono più per i dieci minuti che li separavano dalla graziosa villetta. Andarono a letto ma Maria fece fatica ad addormentarsi, aveva brutti pensieri in testa, mentre Giorgio si addormentò come un sasso. La sveglia suonò alle cinque del mattino, lui si alzò piano e andò in bagno a farsi una doccia calda, fuori il tempo era brutto, ma almeno non pioveva, però come immaginato c’era parecchia nebbia. Dopo essersi vestito e indossato gli scarponi da trekking, si preparò un caffè, e fece una rapida colazione, se voleva andare a funghi, doveva essere sul posto presto. Maria si affacciò sulla soglia della porta della cucina americana, Giorgio la vide riflessa sui vetri della finestra dietro al lavandino, era dolce, anche se aveva un sonno pauroso, immersa nel suo pigiamone di lana, - Buongiorno raggio di sole – disse lui avvicinandosi, i suoi occhi s’illuminarono, erano una bella coppia. – Amore mio allora hai deciso, esci con questo tempaccio – disse lei abbracciandolo, -Si Mary vado e sarò di ritorno per l’ora di pranzo, non tarderò come l’ultima volta - disse. Lei si avvicinò alla cucina e gli preparò un’altra moka con il caffè caldo da mettere nel thermos, e uno spuntino, un toast con prosciutto e formaggio. Prese il suo zainetto e dopo averla baciata, si diresse verso il Suv, aprì il cancello automatico e uscì in strada, Maria guardava Giorgio dalla finestra, e piano piano le luci posteriori scomparvero nella nebbia, poi tornò a letto ma non riuscì ad addormentarsi. Giorgio guidava con attenzione, mentre ascoltava la radio, una stazione dove trasmettevano i grandi classici dello swing. - Quanto è dolce Mary- pensava immaginandola a letto sotto le coperte al caldo. Arrivato nel bosco che ormai conosceva a memoria, sentiva il profumo dell’umidità dovuto dalla nebbia, era ancora buio, ma stava per albeggiare, il cielo tra le punte degli alberi si stava facendo chiaro. Parcheggiata l’auto, prese lo zaino, si mise il cappello di lana e si avviò nel sentiero. Si sentiva in pace con il mondo, era rilassato, il profumo del sottobosco inebriava Giorgio, decise quindi di mettersi alla ricerca di funghi. I suoi preferiti erano i cosiddetti Galletti, un fungo di color giallo ambrato, molto profumato, che Maria lo sapeva far esaltare con un buon sugo al pomodoro e salsiccia, ne voleva trovare parecchi, così avrebbe potuto anche conservarli sott’olio. Ecco finalmente un paio di piante dove alla base c’era un folto gruppetto di funghi, prese la roncola dalla tasca dei pantaloni tecnici e pesanti e incominciò a incidere i funghi alle radici, per poi pulirli sul posto, in modo che Maria non avrebbe dovuto perdere troppo tempo a casa in quell’operazione. Via via si stava facendo sempre più chiaro, anche se la nebbia non decideva ad alzarsi dal bosco. Passarono ancora quindici minuti circa prima che avvistasse altri funghi, ma questa volta erano delle trombette della morte, così chiamate perche avevano la struttura fatta come il fusto di una tromba e un colore nero. A dispetto del nome datogli, questi funghi erano molto saporiti, e si potevano anche essiccare. Si chinò e incominciò a incidere di nuovo le radici dei funghi, quando ebbe l’impressione che qualcuno lo stesse osservando, si girò un paio di volte, ma forse era solo la sua immaginazione. – Respira e rilassati, non è nulla-, pensò tra se e se, dopo pochi istanti sentì ancora un rumore distinto di rami spezzati da qualcosa di pesante, si girò nuovamente ma non vide nessuno, il bosco era fitto e i rumori potevano ingannare. Aveva improvvisamente caldo, le parole di Maria gli riecheggiavano nella testa, aveva un senso di paura misto a eccitazione, ma si calmò nuovamente e dopo aver raccolto i funghi, si mise di nuovo in marcia. Arrivato vicino al greto del torrente che scorreva nel bosco, decise di sedersi su un piccolo terrapieno fatto di sassi e alberi, per bersi una tazza di caffè che Maria le aveva preparato. Posò lo zaino per terra e si slacciò il cinturone con agganciato il paniere pieno a metà di funghi, prese il thermos dallo zaino e si versò una tazza di caffè fumante. Proprio in quel momento alle sue spalle sentì un rumore di legna spezzata, nel girarsi si rovesciò un po’ di caffè addosso – Merda - esclamò, Alle sue spalle stava arrivando un ragazzo sui trentacinque anni, indossava una tuta mimetica vegetata in dotazione all’esercito italiano, cappello di lana anch’esso vegetato e imbracciava un fucile m4-A4 con il caricatore inserito. Si guardarono per un attimo negli occhi, Giorgio rimase pietrificato, - Non voglio stare in pensiero- erano le parole che in quell’istante gli erano impresse nella mente. –Buongiorno-, disse il ragazzo alzando la mano sinistra, -Non la volevo spaventare, mi spiace- disse con tono deciso, - Spaventare? Mi ha completamente terrorizzato, e lo sta facendo tuttora!- esclamò Giorgio, mentre cercava con la mano sinistra la roncola nella tasca, - No, ha frainteso, non è vera come arma – disse il ragazzo, - Sono venuto qua ad allenarmi, faccio parte di un team di soft-air, ha presente la guerra simulata?- ribatté il ragazzo. In effetti, ne aveva sentito parlare Giorgio, stavano allestendo un campo per questo tipo di attività nelle vicinanze. – Già ne ho sentito parlare, ma non mi era mai capitato di vedervi dal vivo, sembra, un’arma vera- disse al ragazzo. L’atmosfera era meno tesa, Giorgio invitò il ragazzo a bere una tazza di caffè caldo con lui, e quest’ultimo accetto volentieri. –Piacere Giorgio – disse tendendo la mano al ragazzo, -Piacere mio Alessandro – rispose cortesemente, mentre assaporava il caffè, - Posso vedere il fucile? – chiese Giorgio indicandolo con un cenno del capo. Alessandro gli passò il fucile, era un’ottima riproduzione dell’originale, tutto in metallo, normale scambiarlo per uno vero, - Caspita sembra vero, non mi stupisco di essermi spaventato – disse Giorgio. Posò il fucile vicino a sé, e continuò a bere il caffè, - Sai, questi fucili costano anche trecento euro, poi con tutto l’equipaggiamento arrivi a sfiorare anche gli ottocento euro – disse Alessandro indicando il resto del vestiario che indossava. Dopo aver sorseggiato il caffè, si salutarono cordialmente, ma Giorgio era nervoso, quel personaggio non lo metteva a suo agio. Riprese la camminata lungo il sentiero che costeggiava il fiume, trovò altri funghi e riempì il paniere, poi decise si sedersi e consumare il toast che Maria le aveva preparato. Posò di nuovo lo zaino per terra e si chinò per prendere dalla tasca principale il sacchetto, ebbe di nuovo la sensazione di non essere solo, - Stai calmo, non c’e’ nessuno, respira – disse nella sua mente, poi la sensazione si fece reale, dal bosco di fronte a lui spuntò un signore sulla cinquantina, anche lui in cerca di funghi, Si guardarono un attimo, poi lo sconosciuto si diresse verso Giorgio, -Vedo che lei è stato più fortunato di me con i funghi oggi – esordì, Giorgio guardò il suo cestino e annuì, - Posso sedermi un attimo con lei – chiese sempre lo sconosciuto, Giorgio annuì di nuovo senza rispondere, - Ne approfitto anch’io e mangio qualcosa – disse l’uomo. Prese dallo zaino un panino, lo scartò ma improvvisamente sentì una tremenda fitta allo stomaco, un coltello modello Fox a lama fissa lo aveva trafitto. Alzò gli occhi e la sua ultima immagine prima di morire probabilmente furono gli occhi spiritati di Giorgio. La modalità della coltellata era dal basso all’alto, Giorgio prese il povero uomo e lo giro su se stesso indirizzandolo verso il greto del fiume, una spinta e lo gettò nel fiume, la corrente era forte, e in pochi secondi sparì dalla vista di Giorgio.
Si sentiva bene Giorgio, aveva fatto progressi, lo aveva notato anche il suo analista, impugnò il coltello chiuso nel sacchetto di plastica, lo immerse nell’acqua del torrente, lo pulì bene e tutte le tracce di sangue sparirono immediatamente, prese lo zainetto del povero sconosciuto e lo gettò in acqua, poi finì il suo toast e il panino del malcapitato.
- Amore sono a casa, guarda quanti funghi che ho raccolto, e tu che non volevi farmi andare! -

venerdì 2 agosto 2013

L'orecchio di Dio

Il signor Arthur era un uomo facilmente dimenticabile, simile a migliaia di altri uomini ugualmente dimenticabili. Nascondeva però due bizzarri particolari che lo differenziavano notevolmente dagli altri esseri umani. Il primo particolare era celato sotto un elaborato riporto, che partendo dalla sommità del capo attraversava tutto il cranio, passava sulla fronte sino ad adagiarsi untuosamente sull'orecchio sinistro.
Il suo orecchio sinistro era grande tre volte l'orecchio destro.
In gioventù il signor Arthur aveva sofferto molto a causa di quell'orecchio, oggetto di scherno da parte di molte persone. Poi, fortunatamente l'America era entrata in guerra, molti giovani si erano fatti crescere i capelli come segno di protesta contro il Vietnam, e lui ne aveva approfittato per nascondere l'orecchio dietro una folta capigliatura.
Arthur non aveva la minima idea politica su quella guerra.
In effetti Arthur non aveva un opinione su moltissime questioni.
Questo perchè Artur era un idiota, con un quoziente di intelligenza di poco superiore a quello di un procione. Nonostante ciò era molto più intelligente dei suoi genitori, due ferventi cattolici dall'aria costantemente contrita, tipica di chi soffre di gonorrea.
I genitori di Artur però non soffrivano di gonorrea. Avevano quell'espressione dalla nascita del loro unico figlio e dei suoi due bizzarri particolari. Non riuscivano a capacitarsi del perchè il Signore avesse fatto questo a loro.
Dopo molte preghiere, alla fine avevano trovato la risposta, almeno per quello che riguardava l'orecchio: quello, in realtà, era un radar capace di intercettare la voce di Dio.
Sull'altra questione, preferivano non discuterne.
Il giovane Arthur, mentre i suoi coetanei manifestavano in strada, oppure partivano per la guerra, passò gran parte del suo tempo seduto nel soggiorno di casa, con la testa leggermente reclinata verso destra, in modo da agevolare la ricezione della parola del Signore, con i genitori seduti di fronte a lui, in trepida e ostinata attesa.
Passarono gli anni, terminò la guerra, il giovane Arturo aspettò un segnale.
Ma Dio rimase in silenzio.
Al compimento del suo venticinquesimo compleanno i suoi genitori uscirono di casa e salirono sulla macchina, decisi a regalare al loro unico figlio uno stupendo crocefisso in noce massello finemente cesellato. Lasciarono Arthur seduto in soggiorno. Suo padre non fece in tempo a girare la chiave dell'accensione che le radici di un enorme pino cedettero, l'albero si staccò dal suolo schiantandosi sulla vettura. I due perirono sul colpo.
Arthur osservò tutta la scena dalla finestra del soggiorno.
Non ricevette da Dio neppure le condoglianze.
Subito dopo il funerale Arthur decise che non era il caso di insistere con la storia del radar e che forse poteva cercare di trarre vantaggio dall'altro suo bizzarro particolare, quello che i suoi genitori avevano sempre finto di non notare. Era un uomo calvo col riporto, basso, stupido, e molto brutto.
Ciò nonostante decise che voleva fare l'attore.
La prima e unica audizione si tenne in un'anonima stanzina di uno studio cinematografico, colma di gente. Arthur aspettò diligentemente il suo turno, compostamente seduto con le mani sulle ginocchia. Di fronte a lui sedevano una formosa ragazza pesantemente truccata, e un giovane abbronzato che pareva pronto per andare in discoteca. I due lo guardarono, e si bisbigliarono all'orecchio qualche cosa sotto voce. Risero. Sembravano molto intimi. In realtà non si erano mai visti prima di quel pomeriggio. Arthur, imbarazzato, reclinò leggermente la testa verso destra, in un gesto inconscio. Una improvvisa folata di vento issò in aria il riporto, come una bandiera sventolante, scoprendo l'enorme orecchio. La donna scoppiò in una risata sguaiata, seguita dal suo vicino, e a ruota, da tutte le persone in sala.
Arthur ebbe la tentazione di alzarsi e andarsene, ma resistette, si sistemò i pochi capelli e finse di addormentarsi.
Alla fine giunse il suo turno. Fu fatto accomodare in una stanza dove una signorina visibilmente annoiata stava leggendo dei fogli. La donna alzò lo sguardo, diede una rapida occhiata ad Arthur e sbuffò. Non era quello che stavano cercando. Giusto per scrupolo professionale chiese a quell'uomo ridicolo di spogliarsi.
Arthur si calò i pantaloni goffamente, mostrando alla donna la sua maggior virtù, e il suo secondo e incofessato particolare: un pene dalle dimensioni enormi.
La donna si portò le mani alla bocca, soffocando un urlo di meraviglia.
“Ma è vero?” chiese alla fine.
Arthur fece cenno di si con la testa. La donna si tamponò la fronte sudata con un fazzolettino, chiese all'uomo di non muoversi, quindi uscì dalla stanza, percorse trafelata un breve corridoio ed entrò senza bussare nell'ufficio del direttore. L'uomo la fissò, stupito.
“Venga a vedere!” disse la donna. I due uscirono dall'ufficio, percorsero il corridoio ed entrarono nella stanza, dove Arthur con i pantaloni calati sino alle ginocchia, aspettava, col poderoso organo sessuale che gli penzolava tra le gambe.
Il direttore scritturò immediatamente Arthur come protagonista del film Super maschio per donne viziose. Sebbene la sua capacità recitativa fosse mediocre , Arthur compensò questa carenza con una abnegazione totale per quel lavoro, non risparmiandosi e dando tutto se stesso, per ore e ore.
Il film ebbe grande successo. Arthuri n pochi anni divenne l'attore porno più pagato al mondo, girando nella sua carriera più di centocinquanta film, quasi tutti da protagonista.
Dopo essersi sposato con la segretaria di produzione, decise di abbandonare il mondo del cinema e dedicarsi alla commercializzazione di un vibratore modellato sul calco del suo pene.
Il vibratore, ovviamente si chiamava, e ancora si chiama, Arthur.
E' il vibratore più venduto al mondo.
Il signor Arthur, visse una lunga vita, felice e serena. Ebbe tre figli splendidi, che gli dettero nipoti altrettanto splendidi, e mediamente intelligenti. Giunto ad una ragguardevole età, sul letto di morte, attorniato dai suoi cari, sapendo che stava per andarsene, Arthur piegò leggermente la testa, porgendo il suo enorme orecchio sinistro verso il cielo.
Dio, anche questa volta, non mandò nessun messaggio.
Pazienza” mormorò Arthur, e con un sorriso sulle labbra, morì.