"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

mercoledì 19 dicembre 2012

Babbo Natale, arrenditi!

Babbo Natale entrò nel bar con la pistola in pugno, trascinandosi la gamba sinistra ferita, lasciando un rivolo di sangue sul pavimento. Un filo di fumo nerastro gli saliva dalla punta della barba. Si sedette al bancone, posò la rivoltella di fronte a lui e ordinò un bicchiere di vino rosso, mentre la gente alle sue spalle usciva correndo.
“Deve fare lo scontrino alla cassa.” disse il barista, mentre con uno straccio puliva l'interno di un bicchiere. Babbo Natale si guardò intorno. Il locale era vuoto. La cassiera era stata la prima a filarsela.
“sono andati via tutti” disse.
“Magari tornano” rispose il barista.
“Magari no”
Il barista alzò il bicchiere osservandolo in controluce, fece una smorfia di disapprovazione, quindi riprese a passare lo straccio sul vetro. Babbo Natale tirò fuori dal taschino dei proiettili, e li appoggiò sul banco. Uno rotolò sino a cadere dalla parte del barista. L'uomo pose il bicchiere su un ripiano, quindi si abbassò a raccogliere il proiettile, gli diede una passata veloce con lo straccio e lo ripassò a Babbo Natale.
“Grazie.”
“Prego.” rispose il barista.
“Mi da un bicchiere di vino, adesso?”
“Rosso, ha detto?”
“Si”
“che ne dice di un Gutturnio?”
“Non importa.” disse Babbo Natale, infilando i proiettili nel caricatore che poi reinserili nella pistola. Se la rigirò un po' tra le mani, poi la ripose davanti a sè sul banco. Il barista gli servì il vino, fece per posare la bottiglia, ma Babbo Natale gli fece cenno di lasciarla nelle vicinanze. Il barista scrollò le spalle, quindi prese un bicchiere e iniziò a pulirlo meticolosamente.
La porta del bar si aprì. Entrò una renna. Si avvicinò a Babbo Natale con passo incerto.
“Che cosa vuoi?” chiese Babbo Natale, senza neanche voltarsi.
“Dobbiamo parlare.” rispose la renna.
“Quello che è fatto è fatto.” disse Babbo Natale.
“Cosa beve?” Chiese il barista alla renna.
“Devo fare prima lo scontrino?”
“Non importa”
“Allora un hieggermaister . Senza ghiaccio”
“Benissimo” rispose il barista, allontanadosi da loro per recuperare la bottiglia di amaro.
Babbo Natale bevve il vino in un sol colpo, e se ne versò un altro bicchiere. Il barista tornò con l'amaro, la renna cercò di berlo, ma il bicchiere gli scivolava dagli zoccoli.
“Vuole una cannuccia?” chiese il barista.
Grazie” rispose la renna
“ Prego” disse il barista, e infilò una cannuccia nel bicchiere della renna. L'animale succhiò un po' d'amaro, si leccò le labbra, quindi cercò di passare una zampa sulle spalle di Babbo Natale. Lui gliela spostò con rabbia. Rimasero per un po' in silenzio, poi Babbo Natale chiese:
“E' morto?”
La renna fece cenno di si.
“Non avrebbe dovuto farlo.”
“Lo so.” rispose la renna.
“Dopo tutti questi anni..”
“Lo so, hai ragione ma..”
“Licenziarmi in questo modo..”
“Hai ragione, ma anche tu hai esagerato”
“Quello che è fatto è fatto” mormorò Babbo Natale, prendendo la pistola. Si voltò verso l'entrata del bar. Dal vetro opaco intravvide fiocchi di neve scendere fitti.
“Sono la fuori vero?” chiese alla Renna. L'animale fece cenno di si.
“Sei ancora in tempo, lascia che ti aiuti!” disse.
“Vattene.” disse Babbo Natale, puntandogli la pistola in mezzo alle corna. La renna succhiò tutto l'amaro in un colpo, quindi caracollò fuori dal bar.
“Si è dimenticato di pagare” disse il barista.
“Mettilo sul mio conto” rispose Babbo Natale e si versò un altro bicchiere di vino.
Una dozzina di gnomi entrarono silenziosamente nel bar. Indossavano completi verdi mimetici e impugnavano grosse pistole. Si disposero a ventaglio puntando le armi verso la schiena di Babbo Natale. Uno degli gnomi tirò fuori dal cappello a punta un megafono e se lo portò alla bocca.
“Babbo Natale arrenditi, sei circondato!” urlò.
Babbo Natale strinse l'impugnatura della rivoltella
“Non fare pazzie, puoi ancora cavartela, se solo...”
“Fanculo!” sibilò Babbo Natale, quindi si voltò di scatto e iniziò a sparare. Tre gnomi furono colpiti, esplodendo in zampilli di luce. Il barista fece in tempo ad accucciarsi dietro il bancone prima che raffiche di proiettili lo investissero. Il grosso specchio alle sue spalle andò in frantumi, bottiglie di liquori scoppiarono tra schegge di legno e intonaco.
Babbo Natale fu centrato da una ventina di proiettili.
“Hooo hooooo hooooooo!” urlò
“Haaaa haaa haaa!” urlarono gli gnomi.
“heeeeeeee! Heeeeeee!” urlò il barista.
Babbo Natale cadde a terra senza un lamento. Le armi si fermarono. Una coltre di fumo grigio riempiva il bar. Lo gnomo col megafono si avvicinò circospetto a Babbo Natale, con un calcio allontanò la pistola, quindi gli appoggiò due dita alla base del collo.
“Morto” disse alla fine.
Il barista si tirò su. Osservò Babbo Natale, gli gnomi e il poco che rimaneva del bar. Scrollò le spalle. Il bar non era suo, lui ci lavorava e basta. Prese uno straccio e iniziò a pulire un bicchiere impolverato.
Gli gnomi presero con delicatezza il corpo di Babbo Natale, se lo caricarono sulle spalle e uscirono dal bar senza dire una parola. Rimase solo quello col megafono. Salì su una sedia vicino al bancone
“Mi dispiace per il disturbo” disse al barista.
“Cose che succedono” rispose lui.
Lo gnomo tirò fuori da un taschino un sacchetto di tela e glielo porse.
“sono monete d'oro. Basteranno a ripagare i danni”
Il barista annuì, quindi prese il sacchetto e lo ripose sotto il bancone. Lo gnomo lo fissò dritto negli occhi.
“Vuole da bere?” chiese il barista.
“No, grazie” rispose lo gnomo “mi domandavo solo...”
“Mi dica.”
“Ecco...non le è sembrato strano tutto questo?”
Il barista scrollò le spalle, e senza smettere di pulire il bicchiere disse: “andiamo, non vorrà mica che alla mia età creda ancora a Babbo Natale.”

giovedì 29 novembre 2012

Il tempo dell'attesa


16.30, solito bar. Il caffè amaro è una riscoperta, i tavoli beige una costante. Punti fissi per gli occhi, da qualche anno persi nell’andirivieni di una città che non ha riposo, che è in continuo movimento. E’ molto che aspetti?Avevo dimenticato l’appuntamento. E’ che mi perdo dentro me stessa, e mi ritrovo, poco dopo, nell’incontrare uno sguardo che tacendo si racconta. In città, un caffè e le emozioni che cercano, confuse, il loro posto. In mezzo alla gente, in mezzo a tante parole che non dicono niente, un caffè. In un caffè sguardi rallentati e pensieri. Pensieri sospesi in equilibrio instabile, annebbiati e confusi, svelati e celati nella guerra, pur assopita, d'un gioco di ricordi.
Alle 16.30, a Novembre, il cielo ha ancora bei colori, tiepidi. C'’è un momento, quando la notte si veste e si fa bella prima di uscire, in cui i colori non sono distinguibili, la luna velocemente si impone e il vento cambia lentamente la sua direzione. L’accennarsi del freddo della sera, il vapore della tazzina ad offuscare corrispondenze di sguardi. Nulla di definito, niente che avesse un nome, o una definizione, così come spesso accade, eccetto il mio caffè amaro.
Un caffè alle 16.30 è una riscoperta; i tavoli beige una costante, quell'escamotage buono nell’imbarazzo di dire. Ci sediamo?Allora? E’ molto che mi aspetti?Si finge sempre, m’hai detto una volta. Non c’è confine tra la verità e la menzogna. No, sono appena arrivata. Ho visto solo l’imbrunire dentro uno sguardo ed un futuro da costruire, alle 16.30 di un qualunque venerdì pomeriggio.
E’ che è molto che mi aspetto. E’ che mi sto ancora, dannatamente, aspettando.

la foto

Sopra un foglio di carta lo vedi il sole e' giallo
ma scolorira'
e se piove due segni di biro ti danno un ombrello
che scolorira'
basta fare un bel cerchio ed ecco che hai tutto il mondo
che scolorira'. Che scolorira'.
Acquarello, Toquinho


LA FOTO


Era lunedì, me lo ricordo benissimo.
L’Inter aveva vinto 2 a 0 con la Juventus a Torino, nel posticipo della domenica; quelle giornate li non te le puoi dimenticare.
Il classico risultato che non concede appello, un goal per tempo: al 23° tiro dal limite di Cambiasso e al 67° raddoppio di Crespo, appena entrato: un’incursione sulla destra di Maicon, cross basso e tiro secco a pelo d’erba nell’angolino; i gobbi erano ormai piegati, il resto fu una passeggiata fatta di passaggi fitti e possesso di palla.
Era lunedì non mi posso sbagliare.
Era inverno (14° giornata del girone d’andata), io, infagottato nel mio giubbotto pesante, ero passato, come tutti i lunedì, in edicola a prendere la gazzetta.
Mi pregustavo il momento in cui sarei entrato in fabbrica, sventolandola in faccia a tutti i conigli bianconeri dell’officina.
La cosa insolita era che avevo tempo; al contrario di tutti gli altri giorni, nei quali dovevo spingere sui pedali come Cipollini in volata, per non timbrare in ritardo il cartellino, quella volta ero uscito di casa prima, avevo avuto persino il tempo di salutare mia moglie e quei perditempo dei miei figli.
Mi ricordo: - Ciao amore, vado. Voi due, mi raccomando, fate i bravi.- la mattina a casa mia, non è come quella del mulino bianco, dove tutti sono contenti, ridono e scherzano; a casa mia solo grugniti, monosillabi e baci stanchi, usati, solo parole vuote, perse nel nulla della nebbia mattutina.
Senza contare, poi, che in casa mia, quelle figone della pubblicità non ci sono mai state, Si, la Silvia da giovane poteva dire il fatto suo, ma adesso, dopo diciotto anni di matrimonio e due figli sfornati uno dietro l’altro, non era più quel gran bel vedere, soprattutto la mattina presto.
Oddio, neppure io sono un figurino, due o tre taglie in più e qualche milione di capelli in meno, ma si sa, gli uomini invecchiano meglio…
Comunque, avevo del tempo.
L’edicola era semivuota e si respirava quell’odore di giornale fresco di stampa.
Il vecchietto davanti a me trafficava con il suo portamonete, rovistando in cerca degli spiccioli, normalmente avrei sacramentato, scalpitando come Ribot sulla linea di partenza, ma quella volta avevo il tempo di guardarmi attorno.
Fu così che la vidi.
Mi colpì come un diretto di Tyson in pieno volto.
Era mollemente appoggiata tra le altre, ma spiccava, lucida, patinata, fu un vero e proprio shock.
Mi sentii attirato verso lei e così senza quasi rendermi conto, allungai la mano, la toccai, era liscia, leggera; non ci pensai due volte, la presi immediatamente dallo scafale su cui era riposta.
Quella rivista era li che aspettava solamente me; la posi sulla mensolina di ceramica insieme alla gazza, come era grossolana nei suoi confronti, con il suo rosa dozzinale e i suoi caratteri cubitali.
Pagai ed uscii dal negozio.
Come un bambino davanti all’albero di Natale colmo di regali, ero frastornato, sette euro e venti, cazzo, avevo speso sette euro e venti centesimi per quella rivista.
Però quella foto in copertina, mi aveva spiazzato, come una finta di Baggio, non pensavo che sarebbe potuto succedere, non dopo tutto questo tempo e dopo tutto questa caligine.
La foto era di quelle pesanti, di quelle che ti fanno drizzare i peli delle braccia, che ti fanno percorrere il corpo di brividi, di piacere s’intende.
Quei colori, quelle forme ti prendono l’anima e te la tirano su dal profondo dove tu l’avevi cacciata, fino quasi a farla sfuggire; per quello che tremi, perché, lo sai benissimo che non può succedere che l’anima voli via per una fotografia, però è quello che provi.
Come in quei film del terrore, che piacciono tanta alla Silvia, vedi avanzare il protagonista verso la cantina, buia e piena di mostri che vogliono mangiarselo, tu gridi: “ Non andare, pirla, la c’è il mostro, ti sta aspettando per divorarti” ma tanto è inutile, lui ci andrà, aprirà quella cazzo di porta e verrà sbranato.
Tu, sai già tutto quello che succederà, pero non puoi fare a meno, per un attimo, di avere paura, poi ti dispiacerà, ma alla fine, penserai “ beh, se sei un pirla allora, te lo meriti di essere massacrato dal mostro.”
La foto dicevo, tutte quelle curve morbide messe li dal caso, disposte in modo da accompagnare lo sguardo in tutte le direzioni, da perdersi, che meraviglia.
I colori, poi, ti fanno letteralmente impazzire, sono tanti e di tutte le tonalità: dall’oro della sabbia all’azzurro del mare, passando per il verde smeraldo della vegetazione.
Il caso? Io non è che sono molto di chiesa, però mi pare difficile che tanta bellezza sia solo frutto del caso, va bene l’erosione dell’acqua e del vento, ci sta pure qualche bel cataclisma naturale, ma più la guardo e più mi convinco che quella statua del Gesù Cristo, lì ci sta proprio bene.
Negli spogliatoi della fabbrica, dato che avevo tempo, mi soffermai su quella magia, socchiusi gli occhi per un secondo e varcai i bordi di quel fotogramma… diciotto anni fa.
Già dall’aereo Rio De Janeiro mi sembrava fantastica, anche la Silvia lo era, seduta acconto a me era ancora messa giù da corsa del giorno prima, tutte e due eravamo stanchissimi ma eccitatissimi, era il primo giorno di luna di miele, era un sogno che si realizzava, ci aspettava il Brasile.
Che spettacolo, Rio ci accoglieva al massimo del suo splendore, i colori, le luci. La gente… beh, si, di nascosto dalla Silvia buttavo gli occhi su qualche bel culo di quelle parti.
Nella mia vita il colore predominante era sempre stato il grigio, tranne il lunedì che diventava rosa Gazzetta dello sport, lì invece ogni giorno era di un colore diverso, mille colori diversi, come i fuochi d’artificio della festa della parrocchia.
L’allegria di quei giorni non l’avremmo più provata, neanche quando nacque il Giorgio, si eravamo contenti ma anche un po’ spaventati, lì invece non avevamo paura di nulla, tuda joia, tuda beleza.
Seppur lentamente i quindici giorni di licenza matrimoniale passarono e tornammo alla normalità, per quanto insopportabile possa essere, ci si abitua, i soliti gesti, le solite cose, insomma la nostra vita.
Quel giorno però, la rivista da sette euro e venti centesimi, quella foto in copertina, avevano compiuto il miracolo.
Dapprima ero in stato confusionale, completamente suonato, come Cassius Clay, poi il lampo.
Mi colse una sorta di lucidità, una consapevolezza, sapevo cosa fare e come farlo.
Chiamai quel pirla del mio caporeparto, gli dissi che stavo male(ed era vero) e che sarei andato a casa. Inforcai la bicicletta e corsi via.
Una doccia mi mise sulla strada giusta, non c’era nessuno, i due desperados erano a scuola e la Silvia era da sua madre, tanto faceva il secondo e aveva già preparato il minestrone per la sera.
Quell’odore di verdura cotta, misto alla puzza di stantio della mia vita, fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Mi sentivo come l’Italia dell’ottandue: dopo un girone di qualificazione scialbo e senza sostanza, la riscossa verso il titolo iridato, guarda caso passando proprio per il Brasile.
La seconda tappa fu la banca.
Il cassiere, un damerino in giacca e cravatta, rivestito di lucido per nascondere la sua polvere di quotidianità; fatta di invidia verso i colleghi e voglia, inconfessata, di farsi quella dei titoli, mi chiese il perché volessi ritirare tutti i soldi, se per caso non ero soddisfatto dei loro servizi, se desideravo parlare prima col direttore… risposi chiaramente ad ogni sua obbiezione.
Spiegai tutto con una lucidità che mi faceva paura, non mi riconoscevo, io davanti alle giacche e alle cravatte sono sempre stato intimorito, invece quel giorno filai via dritto che neanche Schumacher mi avrebbe ripreso.
Prosciugai il nostro conto corrente.
Li ritirai tutti, fino l’ultimo centesimo, dodicimila cinquecentoquarantotto euro virgola settantadue.
Diciotto anni di risparmi e privazioni.
Sarebbero bastati per cominciare, poi mi sarei fatto mandare la liquidazione e avrei messo su un bel gruzzoletto… povera Silvia come avrebbe fatto ad andare avanti, no, non senza di me, per quello sarebbe stato forse meglio, senza una lira però… per un momento vacillai nei miei propositi; poi alzai lo sguardo sul cassiere, sul suo colore grigio, sulla sua patina indelebile di fuliggine, fugai immediatamente quel rimorso misi i soldi nella valigetta e corsi a Linate, il primo aereo sarebbe stato mio.

Sono qui da un po’, tutto è come me lo aspettavo: i colori, i suoni , la gente, persino i culi delle ragazze sono gli stessi di diciotto anni fa.
Ho già girato quasi tutto Rio, ed è solo l’inizio, il Corcovado, le spiagge di Ipanema, il pao da asucar,
il Maracana…i vicoletti.
Tutto è come allora tuda joia, tuda beleza .
Questa zona però, non me la ricordo, li in quel angolo avrebbe dovuto esserci quella stupenda chiurrascheria , dove si mangiava una carne da favola, altro che quella piemontese della Coop.
Non c’è più? e quel campetto spelacchiato? Sono sicuro non c’era; Si cosa vuoi ragazzino” eu no falo brasilero” , ah una sigaretta, toh tieni tutto il pacchetto, menino, ma attento che alla tua età non ti fa mica tanto bene.
Cos’è questo rumore alle mie spalle? Un colpo secco, delle grida, sarà un anticipo del carnevale.
Brr, d’un tratto mi è venuto freddo, deve essere la brezza del mattino che sale dall’oceano.
Appena trovo una bancarella mi comprerò una bella felpa.
Non sento più le mani, cazzo neanche le braccia, sudo?
Mi gira la testa, mi cedono le gambe, devo fermarmi un momento.
Magari mi sdraio; tanto siamo a Rio, mica a Milano che la genti ti guarda male appena fai qualcosa che non devi.
Che strano, sento tutto il corpo formicolare come se mille mani mi toccassero, come se stessero cercando qualcosa su di me…
Che bello è proprio tutto come me lo aspettavo, come nella foto, come diciotto anni fa
Sono stanco, mi sento spossato, sudo?
Ora sento caldo, umido, appiccicoso, beh si sa siamo in Brasile, mica a Madonna di Campiglio.
Però, sono sdraiato a pancia in su ma non vedo il cielo azzurro, vedo tutto rosso… è normale siamo a Rio ogni giorno è un colore diverso, oggi sarà la volta del rosso.
A proposito che giorno è oggi? Ah si è lunedì.

mercoledì 28 novembre 2012

IL FRATELLO INGOMBRANTE

"Ci vai tu stamattina?" "perché?" "Dai vacci tu Luca...io ho sonno, voglio dormire"
"Si ma è l'ultima volta hai capito?!"Sono stufo ok? hai capito cretino?"
"Ma si va bene, dai non rompermi le scatole che ho voglia di dormire".
Luca e Pietro sono due fratelli gemelli, la madre non se ne aspettava due di figli, ma l’ecografia non c’era ancora.
Quando arrivarono in ospedale era pronta per la sala parto, non c'era d'aspettare neppure un minuto.
Una spinta poi un'altra, una gomitata sul pancione, un urlo e un pianto, Luca apparve sulla scena di questo mondo.
Ad un tratto il dottore richiamò l'ostetrica, gli altri infermieri e disse " ce n'e' un altro, signora!”.
Cresciuti, Luca e Pietro si divertivano molto, sapendo di essere  identici  facevano scherzi agli amici, anche alla portinaia, e poi una volta grandi, se capitava l'occasione si scambiavano le ragazze andando all'appuntamento dell'altro.
Giocando sull’aspetto fisico identico: uno le seduceva  e  poi le passava all’altro, che le faceva innamorare. Loro non si rendevano conto dello scambio di persona, oppure prendevano  la dolcezza dell'uno e la fermezza dell'altro.
L'ultima che avevano pensato e che credevano fosse un'idea geniale, era quella di  avere un posto di lavoro condiviso, anche se lo stipendio era scarso , perché era  fratto due.
Non era sempre andata benissimo, ma ci avevano preso gusto, questo senso di vivere con un clone di sé stessi gli donava un po’ il dono dell’ubiquità, di potersi eclissare dalle situazioni che volevano evitare, dalle persone che volevano dimenticare.
Luca quella mattina come al solito si mise le lenti a contatto ed uscì di casa arrabbiato.
Lui era miope e Pietro no.
Pietro si rimise a dormire profondamente.
I dipendenti di quel negozio avevano Pietro e Luca come capo, anzi l'unico capo che pensavano di avere era un uomo malato di qualche strana psicosI, una specie di schizofrenia.
 Luca era mite serio e affidabile, uno a cui potevi raccontare quelli che volevi senza sentirti giudicato.
Pietro era più impulsivo, arrogante, sicuro di sé e libertino , non dava alcuna confidenza ai suoi collaboratori.
I due erano complementari ,  uno sviluppava  con scrupolo le idee, l’altro riusciva a proporre e a imporre; uno curava  la parte formale dei rapporti, l’altro la parte mondana.
Nessuno però si era mai accorto di nulla perché  all'apparenza erano identici, alti uguali, robusti,  capelli castani e occhi castani, denti un po’  storti e pizzetto per smagrire il faccione.
Quella mattina Luca esce dal portone e sente l’aria tiepida che lo accarezza e l’arrabbiatura passa, l'umore sale, allora entra nel box, spolvera bene la sua Honda nera si siede e sente il motore che ancora è ruggente.
Fa una curva e poi un bel rettilineo, ma ad un tratto gli attraversa la strada  un cane che si ferma di colpo forse spaventato per  il  rumore.
Caaaa..zo pensa Luca! Non vuole investirlo ma non vuole neppure cadere o schiantarsi contro la macchina che sta arrivando dall'altra parte..così istintivamente suona il clacson ma non cambia nulla, il cane è come paralizzato.Sterza con forza, lo evita ma sbatte contro il marciapiede; per effetto dell’urto sbalza giù dalla moto e cade. Si rialza pensando che era andata benone,  ma si accorge subito che le lenti sono cadute per terra e lui non è in grado di recuperarle.
 “Senta” rivolgendosi alla prima persona che si era avvicinata a lui e della quale intravedeva appena la sagoma , " Io ora metto la moto qui al sicuro e lei gentilmente mi dà un passaggio al lavoro? Sa sono già in ritardo"
Entra in negozio camminando con un passo lentissimo, cercando di non urtare oggetti piccoli che non avrebbe mai visto; e questa insicurezza lo fa sentire fragile come non gli era mai successo.
I dipendenti del negozio cominciano a parlottare tra loro "ma cos'ha oggi il capo?
Ha qualcosa che non vuole dirci che sta cercando di nascondere…
Luca è agitato “Devo andare in bagno, so che mi devo alzare e andare da quella parte, ma porca zozza proprio oggi nooooo”
Si dirige verso il bagno cercando di camminare con scioltezza, ogni passo è misurato, finalmente entra, ma non distingue il water dal bidè .Situazione tragicomica.
Avverte in fretta di aver fatto un errore, Disperato si riveste esce dal bagno con la fronte ghiacciata, chiama un ragazzo e gli dice "guarda che un cliente in  bagno  ha fatto un disastro.”
Luca capisce che la situazione è insostenibile e con la scusa di avere uno strano e improvviso problema agli occhi si defila dal negozio. Chiama un taxi e raggiunge casa.
Nel negozio ha lasciato un clima di confusione..ma  ce n’è tanta è anche nella sua testa.
Sente che  non  più accettare di vivere la sua vita in simbiosi con il fratello.
Pensa  che  recentemente  si era  innamorato  di una donna,  ma ha avuto  paura a confessarlo, perché lei in realtà  era stata sedotta da Pietro ,  esuberante , che  la  sapeva  gestire meglio e in maniera più sicura, senza amore.
“Non  ho una vita mia, devo  cercarla  o mi ammalerò”.
Si alza e va a vedere Pietro  che forse dorme ancora.
Pietrooo chiama Luca ma non risponde nessuno, perché non c’e’ nessuno in casa.
In  camera di Pietro la finestra è spalancata…”chissà perché l’ha lasciata aperta, fa un freddo polare oggi”.
Sul  letto Luca si accorge di un foglio strappato dall’agenda della cucina e legge:
“Caro Luca penso che la nostra vita sia diventata  caos, ci stiamo allontanando sempre più, non danziamo più con perfetto sincronismo  come è stato per tanto tempo”
A volte ci sembra tutto così eccitante a volte invece ogni cosa rallenta.
Perdiamo le nostre personali occasioni, non trovo il mio umore, è come se fosse sempre misto al tuo e forse ho perso la mia identità, ti lascio solo ma ti regalo l’occasione per ritrovarti o per trovarti, finalmente.
Tuo fratello Pietro”.



martedì 27 novembre 2012

IL CORPO E LE PAROLE



Gli esseri umani sono divisi in due: mente e corpo.                                    
La mente abbraccia tutte le più nobili aspirazioni: come poesia, filosofia... Ma chi si diverte è il corpo.  
Woody Allen, in Amore e guerra, 1975

 
IL CORPO E LE PAROLE                                                                                                   
C’è un dato di fatto.
Una certezza nel nostro essere, che non dipende da nessuna categoria alle quali ricorriamo solitamente per semplificarci la vita: giovani e vecchi, uomini e donne, belli e brutti, bravi e cattivi.
Tutti, ma proprio tutti hanno un corpo.
Per quanto possano essere diversi gli uni dagli altri, questi corpi hanno una caratteristica comune: sono corpi ignoranti.
Diciamocelo con sincerità, i nostri corpi non elaborano, reagiscono d’istinto.
Ora, per non offendere nessuno, prenderò ad esempio il mio.
Quante parole conosce il mio corpo? Tre, quattro al massimo: pipi, pupu, pappa… tutte con la P…tutte tranne la quarta.
Come si fa a ragionare con uno così? Credetemi ho provato a fargli domande, anche semplici.
Ho chiesto al mio cuore: perché palpiti forte davanti all’amore o alla paura? Ho domandato alla mia fronte, e alle mie ascelle, perché sudate quando faccio fatica o quando sono teso? Non vi accorgete che peggiorate la situazione, che mi mettete ancora più in imbarazzo? Non parliamo poi dei piedi, gli ho chiesto se fosse necessario, dopo una intera giornata, magari dura, emanare quel loro sgradevole olezzo.
Ho interrogato tutto il mio corpo, e l’unico che mi ha risposto è stato lo stomaco, ma non ho capito nulla, borbottava.
Insomma, il corpo è, nei migliore dei casi, muto o analfabeta.
A conferma di ciò, devo dire che ho tentato di insegnargli qualcosa, ci ho provato.
Ho iniziato con i piaceri della lettura, con la filosofia, con la sottile ironia, con la ricerca della conoscenza.
Risultato: mascelle che si spalancano e palpebre che  lentamente si chiudono.         
Gli ho parlato di amor cortese, della bellezza della donna che si riflette nei nostri occhi, della divina armonia cosmica del grembo femminile, gli ho spiegato le tesi femministe sull’uguaglianza fra i sessi.
E lui come mi ha risposto? Con un erezione, questo scostumato.
Gli ho illustrato i piaceri raffinati della nouvelle cousine, quelli salutari della cucina macrobiotica, di quella vegana, la  ricca semplicità della cucina tipica italiana, la saggezza di quella mediterranea.
Mi ha ascoltato, quasi interessato e poi ha ruttato.
Fine ma non troppo.
Non mi sono arreso, sono ricorso a concetti più elementari: l’attività fisica e suoi benevoli effetti, aerobica, anaerobica, arti marziali ed equilibrio interno, giochi di squadra, tecniche, tattiche.
Lui per un po’ mi ha seguito, si è mosso, prima lentamente poi pian piano più rapidamente, ma poi ha cominciato a sudare.
Irritante.
L’ultima carta me la sono giocata parlando proprio di lui.
Gli spiegato le sue funzioni, come è composto: l’apparato respiratorio, quello digestivo, il sistema cardiovascolare e quello nervoso, gli fatto qualche accenno, ma appena appena, alle reazioni bioelettriche che sono alla base della sua vita e del nostro pensiero.
Gliel’ho messa giù per benino, con semplicità, alla Piero Angela per intenderci.
La sua risposta? Si ammala il vigliacco, febbri di ogni tipo, infezioni, dolori e sindromi vari.
Senza speranza.
Non c’è verso, è ignorante e si compiace di esserlo.
In effetti, il corpo, è materia non spirito, per lui non esiste il pensiero, ma solo l’azione.
Concepisce l’istante non l’infinito, non capisce e non vuole capire, reagisce e non pensa.
Ma io che posso? Io che penso?
Ci ho riflettuto un po’ su e a dircela tutta, la realtà è fatta di cose concrete, materiali.
La realtà è fatta di carne.
Il pensiero, invece, non si mangia, un concetto non si beve, un’idea, un sogno non si tocca.
Allora queste cose non esistono, non sono reali.
Mi appaiono come i trucchi di un vecchio prestigiatore, come illusioni che servono a mascherare ciò che è vero, e magari non ci piace.
Ah! lui di certo non si fa ingannare, lui crede solo in ciò che vede, che sente e che tocca, crede solo in ciò che gusta ed annusa.
Il corpo crede solo nella realtà.
A questo punto, forse, ha ragione lui.
A cosa servono le parole? A cosa servono pensieri ed idee, sogni e speranze?
Ciò che conta è  solamente l’azione.
La teoria che dice che il presente non esiste, perché nell’istante stesso in cui lo stiamo vivendo è già passato e il prossimo è ancora futuro, per lui non è valida, il nostro corpo vive in un eterno presente, incapace di elaborare il passato e  di programmare il futuro.   
Ma ogni mago che si rispetti ha il suo asso nella manica, il suo coniglio nel cilindro, il trucco che rende veri i sogni e le illusioni.
 A pensarci bene l’ho trovato anch’io: e si tratta di un’azione, è così che lo frego, il corpo, gli faccio fare qualcosa, lo faccio agire.
Lo faccio scrivere.
Perché è scrivendo che si materializzano i concetti, che si realizzano le idee, che si concretizzano i sogni.
Un testo si vede, si tocca, si ascolta e volendo lo si può anche annusare.
Per insegnagli le parole ho costretto il mio corpo a scriverle.
Forse, il corpo non ha parole, ma le parole hanno un corpo.
 
   

                                                           Il corpo, se lo si tratta bene, può durare tutta la vita.
                                                                                      Noel Clarasó
        

martedì 6 novembre 2012

Stirpe Chimerica

Comunicato Stampa Stirpe Chimerica Vol. I a cura di ALEXIA BIANCHINI 



L’antologia “Stirpe Chimerica” sarà finalmente disponibile dal 15 Novembre 2012. L’opera, curata da Angela Visalli e Stefano G. Muscolino, è stata realizzata attraverso
 il concorso indetto il 29 Marzo 2012 dal blog Club Urban Fantasy. L’intera raccolta è ispirata alle Chimere, figure mitologica di origine greco/romana, il cui nome significa “sogno”. A riguardo sono stati selezionati ventidue racconti di vari autori, ispirati proprio dall'incontro tra un essere umano ed una chimera. Le creature variano dalle Sirene alle Banshee, dai Draghi alle Furie, dalle Ombre ai Fantasmi. Passando per personaggi ispirati alla cronaca della Londra vittoriana come Jack il saltatore o a demoni seduttori di povere fanciulle come Satanachia, o ancora esponenti della mitologia nordica come il lupo Fenrir. Altre ancora riprese dai giochi di ruolo, come il Tiefling, o dalla trazione tolkieniana come l’Ent, creatura a metà strada tra l’albero e l’uomo.

Un' opera tutta da scoprire! Per ulteriori info, cliccate qua sotto.

http://www.fantasyplanet.it/2012/11/06/comunicato-stirpe-chimerica-vol-i/

mercoledì 31 ottobre 2012

Tagli profondi di Luigi Zamproni

Erano giorni che la osservava, attendeva paziente un segno, l’aveva chiusa in quella stanza dove il freddo e il buio toglievano il respiro, era quasi certo che il tempo di prendersi il suo godimento, dopo tanto attendere, era ormai arrivato. L’aveva spiata, giorno dopo giorno cercando di penetrare il suo mistero. Finalmente la toccò, quello che sentì sotto la pressione delle sue dita lo convinse che il momento era giunto. 
La prima coltellata produsse un taglio netto, la carne si divise in due lembi di un rosso vivo che destarono ancor più il suo desiderio, irresistibilmente portò il secondo fendente così profondo che la lama arrivò fino all’osso.
La sensazione del metallo sulla dura superficie gli provocò un fremito lungo la schiena, fece forza cercando di staccare la carne dalla costola ma quella maledetta opponeva resistenza, non ne voleva sapere, allora estrasse il coltello e lo infilò da dietro fendendo i muscoli della schiena, più duri, tanto che dovette spingere il ferro verso il basso cercando di ottenere un risultato decente.
Nulla da fare.
Le ossa scoperte e tenute insieme da pochi muscoli filamentosi non volevano separarsi e gli rendevano difficoltoso portare a termine quello che si era prefissato. Lo spettacolo sotto i suoi occhi cominciava a provocargli un ribrezzo che saliva dal profondo, si trovava così inetto che la rabbia gli stringeva la bocca dello stomaco in una morsa feroce e questo non era assolutamente quello che desiderava. Desiderava finire al più presto ripulirsi dal rosso del sangue e finalmente trovare riposo.
Si decise, prese dal cassetto la mannaia dalla lama scintillante e con un colpo secco e preciso terminò quell’opera d’arte.
Si! Un’opera d’arte!
Ottocento grammi di carne succulenta che ora avrebbe potuto finalmente mettere sulla griglia, cinque minuti per parte, non di più, altrimenti tutto quel lavoro sarebbe stato inutile.

Luigi Zamproni

giovedì 25 ottobre 2012

Fessure a chiudere

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’inverno è alle porte.

Passo le giornate tra queste mura. Esco, accompagnata dalla mamma, solo per andare e tornare da scuola o per fare piccole commissioni. Sempre e solo con lei.

Sono figlia unica. Mamma non potrà avere più figli. E’ giovane e bella. Io disgraziatamente le somiglio, con un vantaggio però: ho 16 anni e nessun figlio.

Sono in questo paese da 11 anni. La mia integrazione è ancora in corso si sa non è facile per gli immigrati a meno che non arrivino dal Nord Europa e siano biondi con gli occhi azzurri. Loro non vengono guardati con aria sospetta o pregna di compassione soprattutto se donne. Il fatto di uscire poi cosi poco di casa non aiuta certo a farci conoscere. Le regole però non si discutono.

Vorrei che le persone che incontro per strada o a scuola avessero voglia si sapere chi sono, da dove arrivo e quali sono i miei gusti, miei sogni, le mie idee. Vorrei che mi scoprissero.

Papà quando siamo arrivati in questo paese ha cercato solo ed esclusivamente case che avessero gelosie. Si perché da dove arriviamo non esistono tapparelle.
Dice che la luce passa attraverso di esse illuminando quel che basta e quanto basta per osservare aldilà senza essere vista. Rimanendo nascosta e, dice, protetta.

Io a volte vorrei essere vista, sono qui, esisto.

Sono brava a scuola. Studio con passione senza distrazioni. La mamma mi premia a volte portandomi a casa dei nuovi Hijab. Ne ho di varie fogge. A scuola invece questo capo non riscuote molto successo. Solo Chiara, la mia compagna di classe, mi ha chiesto di poterlo provare per vedere come ci si sente. Gliene ho regalato uno; dice che non lo indosserà perché simbolo di schiavitù.
Nasconde, come le gelosie di casa; nessuno, a parte la mia famiglia e Chiara sa dei miei lunghi e ricci capelli.

Chiara vorrebbe che parlassi con papà, addirittura dice che potrebbe farlo lei se solo glielo permettessi. Dice che è uno spreco non permettermi di uscire al pomeriggio. Potrei partecipare a molte delle iniziative culturali della scuola o semplicemente studiare al parco nelle belle giornate di sole, fare delle passeggiate in bicicletta, prendere un po’ di colore sul viso che vede spento. Potrei scoprire quanto bello e arricchente sia condividere la vita con gli altri. Dice che là fuori c’è un mondo da scoprire e che papà lo deve capire. C’è un mondo che vuole scoprire me.

Coprire, scoprire, coprire, scoprire, buio, luce, buio, luce.

Amo cosi immensamente immergermi, Chiara dice nascondermi, nello studio che non penso davvero mai a quanto mi pesi e se mi pesi davvero il fatto che papà non mi permetta se non con moltissime limitazioni contatti esterni. La sua cultura, la nostra, protegge la donna dagli sguardi estranei, da quelli maschili poi più degli altri. Una protezione è un gesto d’amore.

Più sei protetta più sei amata.

Mi amerà mai Antonio? E’ il ragazzo che tutte le mattine arriva sotto casa per caricare i bambini del quartiere sul bus che li accompagnerà all’asilo.
Lui non sa nemmeno che esisto.

Attraverso la fessura della gelosia della mia camera lo osservo.

Adoro i suoi capelli, lisci, con quel ciuffo che ogni volta che si china uscendo dall’abitacolo gli scivola delicatamente fino ad accarezzargli e nascondergli l’occhio. Ciuffo che riporta poi al suo posto con un colpo di capo come se dovesse allontanare un moscerino.
Se fossi quel moscerino sarei già ad un buon punto della felicità.

E’ dolce Antonio. Vorrei aprire questa gelosia e fargli ciao con la mano. Ma la gelosia rimane chiusa ai suoi occhi. Quella di papà invece mi porterebbe ad una sicura punizione e per non creare dissapori che ferirebbero per prima la mamma mi accontento della luce che entra e dell’immagine che ho di Antonio dandogli il benvenuto nella mia camera anche se a sua insaputa.
E’ il primo uomo a parte papà che entra nella mia camera. Cosi immagino.

Il mio nome pronunciato a gran voce da papà mi distoglie da Antonio.
Arrivo papà, un attimo, metto lo Hijab e sono pronta.

Un ultimo sguardo aldilà della gelosia e poi di corsa verso papà che mi aspetta per portarmi a scuola come ogni mattina. Appena scesi il bus di Antonio è già ripartito come sempre.

Alzo lo sguardo verso la gelosia della mia camera ed immagino come sarebbe se fosse spalancata.

E’ una bella sensazione.

Aldilà un soffitto immacolato ed io, aldiquà Chiara e Antonio che mi salutano con la mano e mi urlano : sbrigati che il cinema non ci aspetta!
 

mercoledì 24 ottobre 2012

UNA STORIA VERA

Rientrato a casa anticipatamente da una battuta di caccia all'elefante, il generale Ugo Von hupert trovò sua moglie Elisa de Courtier in Von Hupert, in camera da letto in atteggiamento inequivocabile con uno splendido esemplare d'asino.
L'asino si chiamava Erbert Fustemberg.
Ad aggravare ulteriormente la situazione, bisogna aggiungere che l'asino era anche il miglior amico del Generale.
Elisa de Courtuer chiese, come se nulla fosse, come mai il marito fosse rientrato prima dalla battuta di caccia.
“Non ho trovato elefanti.” rispose l'uomo sotto shock.

Va detto che molto spesso le battute di caccia all'elefante del generale non erano fruttuose, dato che la coppia viveva a Milano, quartiere Grattosoglio, dove elefanti ne girano ben pochi, da quando sono stati abbattuti gli alberi di banane per fare posto ad un centro commerciale.

L'asino Erbert Fustemberg cercò di alzarsi dal letto ma il generale imbracciando il fucile gli intimò di non muoversi. L'animale emise un flebile raglio e alzò le zampette posteriori al cielo. La donna invece pareva divertita dalla situazione.
“E adesso cosa vuoi fare,Ugo, ucciderci?” chiese guardando l'uomo dritto negli occhi, alzando il mento in segno di sfida. Ella odiava il marito, da quando tre mesi prima lo aveva scoperto mentre completamente nudo si faceva infilare per via anale un gelato della Motta dal suo maggiordomo Erik.
Il gelato era un maxibon classico ricoperto al cacao.
“Come hai potuto farlo? Con Erbert poi, il mio miglior amico!” urlò il Generale.
L'asino, famoso negli ambienti equini oltre che per essere un tomber de femme, anche per la sua vigliaccheria, balbettò delle scuse, cercando di addossare la colpa alla donna. Elisa de Courtier rise forte, quindi si alzò in piedi sul letto. Era completamente nuda, ad eccezione di un paio di stivali di pitone con degli speroni aguzzi. Era una donna molto bella, con dei seni grossi come meloni mantovani, cosa particolrmente strana, dato che nessuno dei suoi parenti viveva in quella provincia.
“Avanti, sparami Ugo, dritta al cuore, così potrai divertirti con il tuo maggiordomo e tuoi gelati motta!” esclamò lei.
“ Allora sai!” balbettò Ugo, sconvolto. La donna annuì. L'asino fece finta di niente, ma anche lui sapeva del tragico vizio del Generale. Aveva avuto quella informazione dal maggiordomo Erik, l'unica persona al mondo che l'asino amasse veramente.
Bisogna dire però che il maggiordomo Erik non nutriva nessun sentimento per l'asino Herbert, per lui era solo una questione di sesso. Egli riservava il suo amore per la brunetta dei ricchi e poveri, d a quando da bambino aveva ascoltato alla radio Sarà perchè ti amo.

Va specificato che la brunetta dei ricchi e poveri, nulla sapeva di tutta questa faccenda.

Neanche gli altri componenti del gruppo.

Nel frattempo l'asino si era stufato
di tutta quella situazione e con un balzo si lanciò dalla finestra, precipitando per tre piani verso la morte certa. Fortuna volle che un gruppo di penne nere stava festeggiando in strada il 140esimo anniversario della costituzione del corpo degli alpini, e l'asino finì dritto dentro un pentolone di polenta taragna. Fu prontamente salvato.
Ne nacque una bella e profonda amicizia tra l'asino e gli alpini, che dura tutt'ora.

Tre piani sopra, il generale Ugo Von Hupert abbassò l'arma, che aveva puntato verso la moglie e scoppiò a piangere. Era un uomo ferito nell'orgoglio e nell'onore. Voleva morire, o in alternativa diventare calvo precocemente.
Non sospettava di essere già calvo da anni.
La moglie Elisa de Courtier in Von Hupert, tutte le notti mentre egli dormiva, con un carboncino nero gli disegnava sulla testa una folta capigliatura nera. Perchè, nonostante il marito si fosse infilato per via anale centinaia di gelati Motta, lei continuava ad amarlo disperatamente.

Elisa de Courtier in Von Hupert scese dal letto e andò ad abbracciare il marito, che la strinse forte.
“Cara, perdonami” mormorò Ugo “ti prometto che cambierò, porrò fine ai miei vizi. Ti prego, ricominciamo!”
Lei lo accarezzò teneramente, quindi lo baciò sulla punta del naso.
“Si, Ugo.lasciamoci dietro il passato, ricominciamo. Non pensiamo più ai gelati, agli asini, al maggiordomo, ai tre fratelli Sakarov, detti gli sfrenati del sesso...”.
“Quali fratelli Sakarov?” chiese il Generale.
Elisa de Courtier in Von Hupert baciò il geneale, tappandogli la bocca.

AMICHE PER SEMPRE

Domani Arianna e io festeggeremo il nostro primo anniversario di amiche del cuore.
Devo assolutamente comprarle un regalo bellissimo, originale e unico come unica è la nostra amicizia.
Ci siamo conosciute il primo giorno di scuola, io mi sentivo un po' spaesata, non conoscevo nessuno poi il mio sguardo si è posato su di lei, i suoi occhi brillavano come quelli di Sailor Moon, ci siamo avvicinate e da quel momento siamo diventate inseparabili.
Amiche del cuore, da subito, noi, solo noi, sempre insieme.
Le altre ragazze della classe ci prendono in giro ma solo perchè sono invidiose; ce n'è una poi che proprio non sopporto, una tale Giusy, una nana schifosa e maligna, ogni volta che ci vede passare ci lancia delle frecciatine , ci chiama le gemelline... gne gne gne ma quanto la odio!
Io e Ari facciamo tutto insieme, unite contro il resto del mondo. Nessuna di noi si sognerebbe mai di uscire con qualcun altro.
Questi ultimi mesi sono stati i più felici della mia vita e voglio che continui così PER SEMPRE.
Ho detto alla mamma della ricorrenza, mi aspettavo che fosse felice per me e si offrisse di darmi i soldi e invece...lei sostiene che il regalo all'amica del cuore lo devo fare con I MIEI SOLDI, ma siamo impazziti? Quelli mi servono per altre cose. Uffà ma perchè è così? Perchè deve sempre rompere...perchè mi sta sempre addosso? Non potrebbe dirmi di si ogni tanto?
Macchè, sono proprio sfortunata! Meno male che c'è Ari nella mia vita sennò come farei?
Sono dovuta scendere a un compromesso: un po' di soldi dei miei e un po' di quelli di mamma: appena lei è andata in bagno le ho "prelevato a mo' di bancomat" un pezzo da 5 e delle monetine così sono sicura che non se ne accorgerà.
Sono uscita di corsa e mi sono precipitata per negozi per paura di non fare in tempo. Ho girato e rigirato ma niente mi convinceva, tutto banale, tutto scontato.
A un certo punto però una cosa mi ha attirata verso la vetrina di un tabaccaio: una fatina di ceramica tale e quale a lei: stessi occhi, stessi capelli di Arianna.
Sono entrata e l'ho comprata. Costava un po' ma era perfetta, c'era scritto TI VOGLIO BENE e c'era pure una cornicetta per mettere una foto.
Sono uscita felice, col cuore che batteva a mille. Mancava solo una mia foto da mettere nella cornice poi avrei potuto fare il pacchetto e scrivere il biglietto più bello del mondo.
Sono corsa alla macchinetta delle foto per documenti. Era occupata, sentivo parlottare, ogni tanto partiva il flash e poi giù risatine.
C'era qualcosa di familiare nelle due paia di gambe che spuntavano da sotto la tenda. Sento pronunciare il mio nome, è la voce di Arianna e lì dentro con qualcuno!
Non ci posso credere. "Fanculo le vostre foto" grido aprendo la tenda di botto. L'ho trovata lì, abbracciata a Giusy, maledette tutte e due.
L'ho guardata con le lacrime agli occhi. Ari non ha detto una parola, avrebbe almeno potuto provarci, inventare una scusa, dire non è come sembra, sorridermi. Invece nulla.
Il mio mondo è crollato. Ho scaraventato per terra il regalo che avevo cercato con tanto affanno e ci sono saltata sopra a piedi uniti biascicando parole come: traditrice, schifosa, ti odio, non voglio vederti mai più. Ho sentito un rumore e un soffio di vento: era la macchinetta che sputava fuori la foto di Ari e Giusy. Era una foto sola, grande, di quelle scherzose; ritraeva loro due, abbracciate e sotto, in rosso, una scritta diceva AMICHE PER SEMPRE.