"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

lunedì 31 ottobre 2011

Cose che succedono a Bareggio

Stavo pescando illegalmente nel laghetto artificiale del parco Arcadia, quando sbuca dall'acqua, con tanto di muta da sub e boccaglio, il segretario della Lega Nord di Bareggio, Luca Beltramello. Ha una fiocina in mano, con infilata su una carpa di 10 chili. Non ci conosciamo, e va bene così.
Signor Beltramello, lo sa che non si può pescare qua dentro?” gli faccio notare, dopo avere buttato la canna da pesca lontano da me. Lui mi guarda come se fossi la Gibillini, e mi risponde:
Noi padani possiamo pescare nel laghetto artificiale padano, perchè abbiamo le stesse origini!”
Celtiche?” gli domando.
Certamente!” fa lui, e strappa con i denti un pezzo di pesce, a confermare la discendenza selvaggia. Io, che non mi faccio intimorire da nessuno, figurarsi se mi impressiono, gli faccio notare un cartello alle sue spalle:
Ma il cartello, li in fondo, dice che non si può fare!”
Tu non puoi farlo, perchè sei un terrone, io posso, in quanto oramai non sono più al governo del paese e posso dire e fare tutto il cazzo che voglio!”
Ma ci sei stati due anni e mezzo in Comune, e adesso parli come uno che è una vita all'opposizione!” ribatto io, che sono uno che si incazza facilmente.
noi della Lega facciamo sempre così, abbiamo il popolo dalla nostra!” dice il Luca mentre si toglie le pinne e la muta. “ E se non ti levi di mezzo, finisce che ti tiro una fiocinata!” mi urla dietro. Casualmente mi trovo per le mani un pezzo di legno e gli mollo una bastonata dritto in mezzo alla fronte. Il poveretto cade a terra come una pera, urlando dal dolore.
Ma cosa fa!” grida “ Mi percuote?”
Non ero io, sarà stato un comunista” dico io.
Non fare il furbo,non ci sono più i comunisti!”
Ne è rimasto uno, e va in giro a tirare mazzate ai leghisti. E' andato di là!” faccio io, indicando le gabbie dei cerbiatti. Il Luca Beltramello non sembra molto convinto della mia versione, comunque si alza, borbottando in dialetto meneghino e guardandomi storto.
Vado a casa, che mi gira un po' la testa...” mormora.
Non è che magari con la botta, le è venuto in mente cosa siete stati a fare per tutto questo tempo in giunta” gli chiedo “. Perchè sa,' anche grazie a voi che è stata votata la Gibillini. Mai che vi pigliate uno straccio di responsabilità. Avete comuni, provincie ,regioni, stato, , ministeri, vi accaparrate tutti i posti possibili,e fate sempre quelli che cascano giù dal pero!”
Ma sei proprio un terrone! Non capisci niente di politica!” mi fa il Beltramello.
Guarda là, il comunista!” gli urlo, puntando un dito alle sue spalle. Il tempo di voltarsi e gli do un altra botta in testa. Il leghista cade giù secco. Dopo un po' si sveglia, mi guarda e fa:
Cosa è stato?”
Un altro comunista. Erano in due” gli dico.
Mi avevi detto che era uno!” obbietta.
Ho sbagliato a contare. Ero a scuola col Renzo Bossi, la matematica non ci è mai piaciuta...”
Allora va bene così” dice il Luca, un uomo che è abituato a mandare giù tutte le cazzate che dicono quelli della Lega e i suo compari del Popolo della Libertà. Poi, senza dire una parola, va via dal parco Arcadia barcollando.
Riprendo la canna ed inizio a pescare. Dopo pochi minuti inizia a piovere. Faccio per aprire l'ombrello, ma non lo trovo, nel punto dove lo avevo appoggiato, trovo il boccaglio da sub.
Sparito l'ombrello.
Ora, caro Luca Beltramello, te lo dico con le buone: vedi di restituirmi quello che hai preso illegalmente e la cosa la facciamo finire qui, senza mettere di mezzo gli avvocati. E ti ridò anche il boccaglio, che tanto mi fa schifo solo a guardarlo.
Ho finito

sabato 22 ottobre 2011

Quando la notte di Cristina Comencini: il romanzo e il film





Il Festival del Cinema di Venezia si è concluso da poco. Tra i film italiani presenti, Quando la notte, di Cristina Comencini, ha diviso la critica e il pubblico. Da un lato c'è chi sostiene la regista quando afferma che "la maternità è un tema che le donne sono disposte ad affrontare, gli uomini un po’ meno" e il produttore del film, nonché marito della Comencini, Riccardo Tozzi secondo il quale  "l’idea di abolire la proiezione riservata esclusivamente alla stampa ha permesso a un gruppetto sparuto di rovinare la visione a tutti gli altri"; mentre dall'altro abbiamo chi boccia il film, chi fischia al momento dei titoli di coda e addirittura chi ride durante le scene più drammatiche.  

Senza addentrarsi nel merito della sceneggiatura, è importante dare spazio al romanzo, dal quale è stato tratto il film, scritto dalla stessa Comencini. Quando la notte, edito a settembre del 2009 dalla casa editrice Feltrinelli, è stato un libro apprezzato dal pubblico e rimasto in vetta alle classifiche dei libri più venduti anche durante lo scorso anno.

Il romanzo tratta una storia delicata e dai tratti torbidi. Marina, una donna che cerca di nascondere la sua fragilità dietro una maldestra e impacciata sicurezza, si reca per un mese in montagna, sulle Dolomiti, con il figlio piccolo. L'aria di montagna dovrebbe far bene al bambino, tranquillizzare il suo animo irrequieto, stimolargli l'appetito, renderlo felice. Anche per Marina potrebbe essere l'occasione per distrarsi, trascorrere piacevoli giornate con il figlio, fare passeggiate e dimostrare a tutti, a Mario (il marito), a sua madre e alle sue sorelle che ce la può fare, che lei ha l'istinto materno di cui le hanno parlato fin da quando portava in grembo il suo bambino.

Marina ha preso in affitto un appartamento sopra quello di Manfred, un uomo burbero e scontroso, tradito e lasciato dalla moglie che gli ha portato via anche i figli. Circondato dal gelo delle Dolomiti, il cuore di  Manfred è diventato una pietra. Un cuore già ferito, già schiacciato dal peso della madre che, molti anni prima, se n'era andata. Manfred si chiude nel suo mondo, scaricando sul prossimo l'odio che prova verso la vita. O forse verso se stesso.

Marina e Manfred si incontrano di rado e durante quei fugaci incontri si annusano, si guardano con sospettano, cercano di capire cosa passa nella mente l'una dell'altro. Per Marina, Manfred è uno zotico, maleducato e per giunta incapace di intrattenere rapporti. Venuta a sapere che la moglie lo ha lasciato, Marina non ci pensa su troppo a dare ragione a quella donna. Manfred invece giudica la ragazza, venuta dalla città, incapace di accudire il bambino, nota il suo nervosismo di fronte ai pianti eccessivi ed estenuanti del figlio, la sua goffaggine nel prendersi cura di lui e sospetta uno strano rapporto tra madre e figlio.

Una sera Marina perde il controllo e il bambino si fa male. Un incidente, un "banale incidente" che potrebbe trasformarsi in tragedia se Manfred non fosse stato in casa, se non avesse sentito le urla e i pianti provenire dall'appartamento di Marina. Soccorre entrambi, madre e figlio, li porta al Pronto Soccorso.

Sarà da quel momento che lui capirà il segreto di Marina, cosa si cela dietro quella maschera di sicurezza. Si cercheranno, i silenzi faranno spazio alle confidenze, ai pianti e si sveleranno. Anche Marina inizierà a capire qual è il motivo per cui Manfred è stato lasciato dalla moglie. Ma un mese è poco, l'estate volge al termine e Marina torna in città, da Mario e dai suoi problemi.
Marina non si dà per vinta, tornerà anni dopo, cercherà Manfred. Andrà fino in fondo alla loro storia, a quel desiderio misto alla paura che entrambi provarono tanti anni prima.

La scrittura della Comencini è fluida, simbolica, emozionante, ricca di flashback che ne esaltano l'intreccio narrativo, dando così un valore aggiunto al romanzo. Quando la notte affronta temi delicati, quali la maternità e il difficile rapporto tra madre e figlio specie se si ha un passato poco sereno e definito come quello di Marina, se i fantasmi ti girano attorno, se le pressioni psicologiche e morali della famiglia ti soffocano. E poi la paura e il desiderio, che contraddistinguono i rapporti tra uomo e donna, di amarsi, lasciarsi per poi ritrovarsi, i segreti che si celano nella vita di ognuno di noi, quei segreti con i quali prima o poi si devono fare i conti.

Io e Dio (V.Mancuso)



Ma che cos'è vero, alla fine, di questa vita che se ne va, nessuno sa dove? Rispondere a questa domanda significa parlare di dio." Io e Dio di Vito Mancuso ruota intorno a questa domanda: una domanda intima, personale, che però coinvolge l'intera umanità, e dunque ciascuno di noi. In questo senso, per ogni uomo che viene sulla terra, cristiano o no, la partita della vita è sempre tra io e Dio. Tuttavia oggi tenere insieme un retto pensiero di Dio e un retto pensiero del mondo è molto difficile: così qualcuno sceglie Dio per disprezzo del mondo, qualcun altro sceglie il mondo per noia di Dio. mentre molti non scelgono né l'uno né l'altro, forse perché non avvertono più quell'esigenza radicale dell'anima che qualcuno chiamava "fame e sete di giustizia". In pagine ricche di dottrina e di passione per la verità. Vito Mancuso spiega e condivide le ragioni della sua fede in Dio. È un percorso in cui non mancano puntate polemiche, basato su un'ampia riflessione, che supera di slancio la strettoia tra due posizioni in apparenza contrapposte, che negano entrambe la nostra libertà individuale: da un lato l'autoritarismo delle gerarchie religiose, dall'altro uno scientismo ateo e semplicistico. Ma una civiltà senza religione, o con una religione senza cultura, argomenta Vito Mancuso, perde inevitabilmente la propria coesione interna, schiacciata su una sola dimensione, in balia di un egoismo molto prossimo al cinismo o alla disperazione.

l'occhio dell'anima

L’enorme occhio continuava a scrutarlo, sbattendo la palpebra a intervalli regolari.
La stanza, dai muri bianchi, era completamente vuota, priva di qualsiasi porta o finestra.
Solo quell’imbarazzante e indiscreto osservatore sporgeva da una delle pareti. Il soffitto era di un colore blu scuro, e sembrava ospitare la sorgente dalla quale proveniva la tiepida illuminazione della stanza. Gregor non riusciva a scrollarsi di dosso la terribile ansia provocata dalla sua curiosa e indescrivibile situazione. Iniziava a meditare, quasi perdendosi nei foschi fumi della follia che annebbiano l'uomo, propositi violenti contro quel maledetto impiccione: colpirlo con raffiche di pugni fino a costringerlo a chiudere la sua immobile palpebra sottile. Sino ad ora non aveva escogitato altre soluzioni efficaci per far cessare quell’angosciante osservazione. Si era trattenuto dal passare all’azione con una certa circospezione insita nella sua coscienza. Prima voleva valutare attentamente le possibili reazioni che poteva intraprendere quello che ormai considerava essere il suo nemico; ma le conclusioni alle quali era arrivato almeno una decina di volte, erano sempre le stesse. La stanza non aveva accessi visibili: nessuno avrebbe potuto intervenire in difesa di quel maledetto occhio che lo scrutava scavandone il fondo dell'anima. Quest’ultimo, poi, non poteva certo afferrarlo o cercare di sopraffarlo. Dopo aver confermato a se stesso ancora una volta le medesime conclusioni, Gregor si decise ad attaccare. Si appoggiò alla parete opposta rispetto a quella che ospitava l’occhio, sempre osservatore sospeso nel traboccante vuoto di quell'assurdo. Prese lo slancio, e con foga raggiunse il suo bersaglio, iniziando a colpirlo con calci e pugni, senza fermarsi. Non prestò particolare attenzione alla coordinazione con la quale lasciava partire i propri colpi sicuri e precisi, pensò semplicemente a sfogare la rabbia e l’angoscia che pervadevano la sua anima nella geometrica agonia di quella stanza vuota.
Quando iniziò a sentire fitte sempre più dolorose a braccia e gambe, si allontanò dalla parete; rimase ad osservare per qualche istante la sua vittima , poi si inginocchiò esausto sul pavimento. Erano trascorsi pochi secondi quando l’uomo sollevò lo sguardo verso l’occhio, e quello che vide lo lasciò esterrefatto: lente e ripugnanti lacrime iniziarono a infrangersi con rumore sordo sul pavimento. Quando Gregor ragionava sulle possibili reazioni del suo avversario, aveva tralasciato la più semplice e banale delle condizioni. Si diede dello sciocco per qualche istante, poi l'istinto represso prese il sopravvento: iniziò a inveire inutilmente contro l’occhio, mentre cristalline gocce di memoria iniziavano a perdadere la stanza fino a riempirne quasi un terzo. Faticava sempre più a tenersi a galla, si sentiva stanco; soprattutto esausto, sopraffatto, sconfitto, dalla sua voce di dentro.

Francesca Casagrande

A volte l'anima..







Qualche volta le anime
fanno un percorso diverso
Qualche volta le anime
scivolano dietro ai ricordi
appese al loro amore
e un sole blu indica loro il cammino.



Accarezzano l’amore da una gelida cima
che penetra col suo inverno
nelle loro ossa nude
Siamo tutti un po’ vittime
sul piedistallo del Mondo.
Tutti un po’ ladri d’amore
sulle grondaie delle Città.
Uno stormo felice di uccelli
canta il suo stupore selvaggio
mentre prega
ignaro
della pioggia che lo investirà al tramonto.
Qualche volta
un’anima si libera dal cerchio
e solo allora torna quiete alla sua origine
con la forza del dolore
dando al Mondo
il profumo di un siffatto respiro.

venerdì 21 ottobre 2011

Autumn by Francesca

si staglia il giallo


sulle foglie d'autunno


rivolte al cielo


***




Francesca






LA SCATOLA DEI RICORDI

I ricordi, tanti belli, brutti, così così....
scatola... e se invece di una scatola fosse una casa? si per me è una casa, è la mia casa, non quella di adesso, no, quella di quando ero piccola.
Primo piano delle case popolari costruite dalla fabbrica dove lavorava papà, erano gli anni '60, il boom, l'economia girava...
primo piano, due rampe di marmo bianco, una porta di legno chiaro, non liscia ma tutta a scanalature verticali,dall'alto in basso e una maniglia rotonda, con gli incavi per mettere le dita. Da dentro apriva, da fuori no. Quante volte! Prendiamo le chiavi per scendere in cortile! siii! corrente d'aria colpo di vento sbam!! hai preso la chiave,vero?... si?.... no!...... chiuse fuori.
Quante volte! La mamma era diventata esperta, andava dalla vicina di pianerottolo che aveva il balcone attaccato al nostro, prendeva una sedia saliva sul parapetto e voilà passava dall'altra parte...scavalcava, con la vicina che la teneva per un braccio e diceva :"Oh Gesù Maria...Oh Gesù Maria ..." Io la guardavo da sotto poi correvo su, due rampe di marmo bianco, una porta di legno chiaro, si apre, la mamma, uff sana e salva.
Due rampe di marmo bianco, una porta di legno chiaro, la mia casa.
Entro, un corridoio diritto, in fondo il bagno e due camere, a destra la cucina, a sinistra il soggiorno, con il salotto, si perché avevamo anche il salotto, divano e due poltrone, dove però non ci si poteva sedere perché era nuovo, era sempre nuovo, è stato nuovo per anni e anni....
E c'era il televisore, grande, su un carrello di vetro con le ruote e un trasformatore pesantissimo sul ripiano più basso... Si capiva che era un televisore solo alla sera perché il papà sollevava la stoffa e lo accendeva; di giorno invece stava tutto coperto da un telo di raso damascato che nonna aveva cucito su misura con la stoffa avanzata dal copriletto del lettone dei miei.
Nonna stava con noi e cuciva sempre, cuciva tutto, i calzini , le tende, gli asciugamani, il copriletto di raso damascato dove non ti puoi sedere come il divano, i vestiti delle mie bambole tutto insomma, e se non cuciva faceva da mangiare. Per esempio alla domenica faceva gli gnocchi.
Quando aprivo gli occhi la Domenica mattina il suo letto era già vuoto si perché la nonna dormiva nella mia camera e dalla cucina sentivo arrivare un buon odore di ragù di carne e patate bollite.
Mi avvicinavo scalza con gli occhi appiccicati le sentivo parlare lei e la mamma, poi mi dicevano "buon giorno" con il sorriso e nonna faceva spazio sul tavolo per la mia tazza di latte e cacao. Spostava a uno a uno gli elementi di quell'esercito di gnocchi che aveva occupato ogni ripiano possibile.
Domenica gnocchi, tanti, avanzavano sempre.
Il pranzo della domenica, e la passeggiata della domenica, con il vestito della domenica.
Si perché a casa mia i vestiti erano di tre tipi fondamentali: della domenica, di tutti i giorni e per stare in casa, e scalavano di categoria per anzianità d'uso.
Così una gonnella della domenica col tempo diventava buona per tutti i giorni e ci potevi andare a scuola, e poi finiva la sua carriera da casa, un po' corta e un po' stretta magari con la cerniera che non andava ne su ne giù.
Allora dopo il pranzo della domenica ci si preparava per la passeggiata della domenica.
Papà era pronto per primo, camicia pulita, barba fatta e un buon odore di brillantina.
"vado ad accender la macchina, vi aspetto giù"
io avevo già addosso il vestito della domenica e con quello si che mi potevo sedere, solo sedere, sul lettone e guardare mamma che finiva di prepararsi.
Un po guardavo la mamma e un po la Bambola meravigliosa che stava seduta in mezzo al letto con le braccia così, se andava indietro chiudeva gli occhi. Era bellissima con i boccoli biondi, l'abito a balze di pizzo blu e bianco, ma non si poteva toccare , era un giocattolo non per giocare, guardare e non toccare è una cosa da imparare.; e io che l'avrei presa subito per pettinarla proprio come faceva la mamma. Lei si cotonava tutti i capelli e si faceva una testa così, poi con la punta del suo pettine speciale accomodava una ciocca dopo l'altra davanti allo specchio ; dietro però non ci arrivava e così diceva: " guarda se dietro sono messi bene" . Allora, con il suo pettine glieli sistemavo io e la facevo bellissima.
Poi il rossetto, un po di profumo, anche a me, dietro l'orecchio ed eravamo pronte per scendere...
Intanto il papà aveva acceso la macchina, pulito il vetro , controllato l'olio, l'acqua e che so io.... non so perché dovesse fare tutte queste cose prima della passeggiata della domenica... non so...comunque..
Tutti pronti, anche la nonna e si parte.
Prima tappa dal Baffo, il gelataio.
Con 100 lire ti dava un gelato enorme e potevi chiedere tutti i gusti che volevi e io li chiedevo tutti: crema, nocciola, cioccolata,panna, caffè, fragola e limone. Si di gusti alla frutta c'erano solo fragola e limone non come adesso: lime, papaja, kiwi, mango,passion fruit che più che un banco di gelati sembra una pagina dell'enciclopedia botanica... Poi arrivava la solita raccomandazione: "attenta a non sporcarti" embè era il vestito della domenica, mica... quindi il gelato veniva leccato in una strana posizione tutta in avanti come se dovessi cadere a terra da un momento all'altro. E ne valeva la pena perché era il gelato più buono del mondo.
Seconda tappa passeggiata al porto .
si poteva fare solo se: primo, i calli della nonna stavano tranquilli; secondo se le scarpe alte della mamma non le avevano fatto ancora venire il male di schiena. Al porto, oltre a guardare le barche dei ricchi con i divani bianchi sul ponte dove loro si siedono perché non sono più nuovi, c'erano sempre i venditori di lupini.
I lupini sono come dei grossi fagioli, ma più rotondi, sono umidi di acqua salata, mangi l'interno e butti via la buccia .
Mamma diceva sempre:" Come fate a mangiare quella schifezza?" ma a Papà e a me piacevano tantissimo. Ce li davano in un cono giallo di carta oleata che però teneva Papà altrimenti io mi sporcavo il vestito della domenica, e io potevo tuffare la mano dentro e prenderne uno tutte le volte che volevo. Poi sputacchiavamo in giro le bucce che tanto c'erano i piccioni.
Quella si che era una Domenica....
e che Domenica....
Poi si diventa grandi, le Domeniche cambiano, le persone spariscono.
La Domenica mattina non c'è più nessuno in cucina che impasta gnocchi e ti dice "Buon Giorno" con il sorriso, o che lascia una scia di brillantina e va ad accendere la macchina...
Si diventa grandi.
Comunqe sia andata, in qualunque luogo mi abbia portato la vita, io sono partita da là..
Due rampe di marmo bianco ,una porta di legno chiaro, la mia casa.
E ho scoperto che del vissuto di ognuno non va perso nulla anche se le persone non ci sono più.
Rimangono con noi..... magari con un sapore, un profumo, un gesto.
Gli gnocchi mi ricordano la nonna,
I lupini li compro ancora,
e mi metto il profumo con le mani di mia madre , nelle stesso identico modo.
In qualunque luogo mi abbia portato la vita, io sono partita da là.

Pubblicato da Nadia Del Frate










giovedì 20 ottobre 2011

Ho inciampato e non mi sono fatta male


Io sono una testimone di seconda generazione, non ho vissuto la guerra, non sono una sopravvissuta allo sterminio, ma sono figlia ed erede del nazismo e delle leggi razziali fasciste. Senza il nazismo, Heinz e Gughy con molta probabilità non avrebbero lasciato Berlino per rifugiarsi in Palestina. Heinz non si sarebbe arruolato nella Brigata ebraica al seguito degli Alleati, non sarebbe mai giunto a Napoli e non avrebbe conosciuto Luciana. Lei avrebbe continuato gli studi, avrebbe preso il diploma di pianoforte, sarebbe stata una donna indipendente. Non ci sarebbe stata una bambina proveniente da Haifa che dei nonni paterni berlinesi non ha mai visto neanche una fotografia. Allora mi chiedo: chi viene da una storia così ha o non ha titolo per sentirsi una testimone? E così io questa storia comincio a raccontarla".


 

Libro consigliato da Franca Fiore

ANCORA CINQUE MINUTI

Fa freddo oggi , siamo alla fine di Settembre ma quest'aria è proprio fredda.
Ecco,siamo arrivate; affondano sempre un po' le scarpe nella ghiaia sottile, un vialetto di ghiaia e di aghi di pino, odore di resina; trovano anche la voglia di tenere la siepe ben potata... tutta squadrata perfettamente, gli sarebbe piaciuta. Ecco le scale, la porta coi vetri che non si vede attraverso. Ci viene incontro il custode in divisa, ci dice che è un po' tardi, stanno chiudendo, li hanno già messi via... E' incredibile, devo pregare uno sconosciuto di lasciarmi vedere mio padre...
"Solo vedere pochi minuti vengo da Milano". E sia.
Mamma resta fuori nella sua bolla, non si rende ancora conto, con gli occhi bassi sembra contare gli aghi di pino.....
“ Mamma vado... poi torno..” quante cazzate si dicono quando non si sa cosa dire.
Attraverso un'altra porta, automatica questa volta, soffia e si chiude alle mie spalle. Siamo soli ora tu e io. Sei ancora piu magro dell'ultima volta. Ma dai! ti hanno arrotolato il rosario tra le dita.. saranno trenta anni che non entravi in chiesa, e questa volta ti tocca. Voglio accarezzarti la fronte, voglio darti un bacio proprio in cima alla fronte come facevi tu per non pungermi con la barba dura. Strano ti avevo immaginato più freddo, non sei freddo per niente, allora non ti avevano messo via. Oh cavolo è caduto il rosario, lo raccolgo non lo volevi eh! Oh mio Dio! hai gli occhi aperti! Sorvegliante!!! Aiuto!!! come cazzo si apre questa porta... hai girato la testa ho paura... mi sorridi...
"Sono proprio contento di vederti. Perchè stai là in fondo, vieni vicino dai, non avere paura, vieni vicino che non mi posso alzare.
"Chiamo qualcuno, non so, non è possibile."
"Hai paura di me? alzavo spesso la voce, è vero, ma non avrei fatto male a una mosca, lo sai: non ti ho mai dato neanche una sberla."
 "Pa' bastava uno sguardo"
"No, una te l'ho data,me la ricordo "
"Anche io me la ricordo, l'unica. Avevi risposto male a tua nonna ma non so più perchè "
"Non mi piaceva il latte e cacao come lo faceva lei, con i grumi, quello della mamma era piu buono"
"E tua madre dov'era ?"
 "Era in sanatorio a Sarzana da sei mesi"
"Sei mesi..... e ora dov'è? "
"E' qui fuori, non ce la fa ad entrare , la chiamo vado e poi torno"
"No resta. Ho avuto tanta paura di perderla allora, so cosa prova lei adesso, l'ho provato anche io. Tu c'eri , ma non ti vedevo neppure. Anche lei non ti vedrà per tanto tempo ancora. Il dolore rende ciechi. "
"Poi tu hai recuperato, non ho mai dubitato che mi volessi bene e poi guarda : ho le mani come le tue, grandi grandi, e so potare le piante, aggiustare una presa di corrente, cambiare la corda della tapparella, e in casa mia ho i cacciaviti in ordine dal più piccolo al più grande come facevi tu ".
"Si lo so, so tante cose di te, ti tenevo d'occhio."
"Come quando sei venuto a scuola con addosso la tuta blu della fabbrica, era mezzogiorno, la mamma aveva sicuramente messo in tavola gli spaghetti per te, e tu eri lì per vedere con che faccia uscivo dall'esame di maturità"
"Si era la prima volta che vedevo la tua scuola da dentro "
"Mi è preso un colpo quando ti ho visto, eri seduto sulla scalinata che va al primo piano, mi hai guardato di sbieco per paura di non vedermi felice e quando ho iniziato a sorridere hai sorriso anche tu, ti sei alzato, mi hai portato la borsa e siamo andati a casa".
"Ti tenevo d'occhio"
"Si mi piaceva"
"Si "
"Si"
Due sorrisi, un silenzio. Nella luce della porta soffiante riappare il custode sembra preoccupato
"Ho sentito gridare signora, si sente male?"
"No, no, è che non riuscivo ad aprire da dentro questa porta... volevo chiamare mia madre" e intanto vedo il tuo profilo fermo, freddo. mi avvicino, ti tolgo il rosario dalle mani e lo do al custode.
"Questo no, per favore, non lo avrebbe voluto" esco
"Mamma... fatto! é vero sai, dopo hanno i lineamenti distesi, non sembra neanche che abbia sofferto così tanto. Andiamo dai, prendimi sotto braccio che con la ghiaia si cammina male... ti tengo d'occhio sai." Iniziano tre viaggi ora: il tuo ha rumore di ruote d'acciaio e sportello che si chiude; il nostro di passi nella ghiaia e piccole cose di tutti i giorni che parlano di te ancora e ancora, la tavola apparecchiata con un posto vuoto dove nessuno riesce a sedersi, la mamma che dorme sempre nella sua parte di letto, i miei cacciavite in ordine e le siepi squadrate frammenti di te papà in ogni luogo della memoria.

pubblicato da
Nadia Del Frate

martedì 18 ottobre 2011

25 gennaio 2006

25 gennaio 2006
Casa mia.
Una mattina come tante, di freddi risvegli e parole biascicate nella fretta del vestirsi alla rinfusa.
Un telefono che squilla all'improvviso, bucando la coltre di silenzio del mattino, ad un orario per cui, per una tacita convenzione civile, nessun telefono può squillare, a meno che non sia un'occasione speciale.
D'un tratto tutto intorno a me si fa ovattato. Come se il mondo girasse al contrario, a rilento, nel vuoto. Tutto rallenta, tutto si ferma, immoto. Nulla, non sento più nulla. Se non quel telefono che squilla. La suoneria di un vecchio Nokia 3310 , la più classica. Un ritmo costante, un martello nella mente, che si insinua nel velo steso sulla casa dipinta d'ombra dai colori dell'alba.
Non sento più nulla, se non quel telefono; e il battito del mio cuore.
Sì, lo sento che prende a correre all'impazzata, a scalpitare nel petto come un cavallo selvaggio che vuole fuggire da quella consapevolezza intrinseca che non può confermare. Annaspo nella foga di strappare brandelli di parole alla conversazione di mia madre, che scoppia in pianto urlando e farneticando agitata, mentre le lacrime già le rigano il volto.
Devo andare, la mamma mi fa cenno di andare. Quasi mi spinge fuori dalla porta e il mio animo fa a pugni dentro di me, combattuto tra il desiderio perverso di sapere, e la necessità umana di fuggire da quell'incombente verità sospesa.
Esco di casa, quasi corro verso la fermata dell'autobus, arrivando così in anticipo rispetto al solito.
La mia mente inizia a viaggiare, persa nel turbinio dell'irrazionale. Mille varianti e possibili ipotesi dei più drammatici eventi turbinano nella mia testa, e scossa da un brivido provo quasi un effetto catartico nel constatare che in fondo, forse, si tratta di molto meno rispetto a tutto quello che immagino.
Eppure, ora dopo ora, quasi un angelo, o un demone, che si insinua lentamente dentro me e m'ispira innata certezza, sento crescere nel petto quella consapevolezza. Una frase ruota incessante nella mia mente, dove tento invano di cancellare il suo volto, di cancellare quel pianto di lacrime amare che consumano un corpo macchiato di giovinezza.
“E' morta Chiara.”
E poi arriva. Eccola.
Sono passate le ore. Una dopo dopo l'altra, con l'avanzare del giorno, avanzava la consapevolezza di ciò che avrei udito.
E ora, eccola.
Quella frase tanto udita nella testa e subito cancellata dal cuore, offuscata e mascherata da quella faccia irrazionale di noi che ci porta a credere, talvolta, in quell'impossibile che ci tiene vivi giorno dopo giorno.
Quella frase che, per quanto si senta alla televisione, si legga sui giornali e nei libri. Per quanto si senta dalle bocche degli altri, costringendoci spesso a fare facce contrite anche nelle più strambe occasioni, ecco per quanto sia nota, solo quando qualcuno la pronuncia guardandoti negli occhi, comprendi cosa significhi.
E da quel momento, da quell'esatto istante, ci sono altre mille cose, che non riuscirai mai a comprendere.
"Chiara è morta.
E' stata investita da un'auto, ieri sera in via Bezzi, con suo papà e sua sorella mentre andava dal dentista..”
Chiara è morta.
Ti rimbomba nella testa e ti chiedi cosa significhi e cosa dovresti provare. Perché per la prima volta nella vita non sai esattamente che cosa provi, che cosa senti, che cosa desideri. Non sai se ridere o piangere o fare finta di niente. Ti si chiude lo stomaco e fa strano mangiare, e hai come la sensazione che sia più buio, lì, fuori e dentro e te.
Pensi di capire la morte quando la sfiori, e invece forse è il momento in cui la capisci meno. Chiara dov'è? Sembra solo che sia partita per un viaggio, la sua assenza scolpita nell'aria ti sembra una momentanea coincidenza.
Esco per prendere una boccata d'aria, nel giardino.
Nevica, nevica da ieri sera, e non posso smettere di pensare che quella neve sia Chiara. Che sia la sua dolcezza mandata ad attenuare il pianto di chi senza tregua invoca il suo nome rivolto ad un corpo che non le renderà più giustizia.
Neve, neve che cade lenta.
Neve che volteggia e si ferma sospesa nell'aria attraversata da un pallido raggio.
Neve che sembra parlare, sussurrare al vento un messaggio perché lo scriva nel grigio di un cielo d'inverno, a due settimane soltanto dal mio compleanno.
Sono lì, immobile. Guardo quei candidi fiocchi cadere nella loro eterna danza lenta e innarrestabile, e all'improvviso la vedo: sua madre.
La mamma di Chiara avanza a fatica, le solite immancabili scarpe con il tacco 12 che affonda nella gelida neve. Una pelliccia scura l'avvolge, grandissima. Una pelliccia calda, che quasi pareva poterla nascondere dal freddo di un mondo svuotato di senso, e invece non riusciva. E anch'io sono vestita, avvolta per bene nel mio felpone invernale. Non ho freddo, eppure mi sento nuda.
Sono Vestita, e mi sento Nuda.
Spogliata della capacità di sorridere, spogliata della capacità di comprendere. Io, che avevo sempre pensato che il mondo fosse ai miei piedi e che ci fosse tempo per tutto. Io, che uscivo al mattino salutando a fatica perché mi alzavo nervosa. Io che pensavo che non fosse importante fare la pace o dire ti amo, perché si potrà fare domani. Io mi sento improvvisamente colpita, come un fiume in piena, da un'onda selvaggia di vita che mi attraversa quasi fosse una saetta caduta da questo immoto cielo. Io, per la prima volta, sento una forza intrinseca che si fa largo dentro di me e si aggrappa alla vita con tutta l'energia che erompe dall'anima.
Incontro il suo sguardo, e lo scontro di questo mio ardore che lotta inarrestabile contro la paura della morte, e di quella sua tristezza e solitudine che le corrompono il fondo dell'essere; la battaglia dei nostri sensi che cercano senza trovarla una risposta nel cielo, produce un vuoto nell'aria, che ferma il tempo, e toglie il respiro.
Chiara è morta, e mi attacco al suo ricordo, convinta che intorno a noi aleggi sempre, costantemente, la sua anima finalmente libera e selvaggia.


Francesca
http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=JXT_aykqtlM

domenica 16 ottobre 2011

Nudità

Un’isola. Un angolo remoto, sprofondato nel blu del Mediterraneo. Uno sputo di terra bruciata, dimenticata da dio e dagli uomini.
Stipati tutti in piedi su quella bagnarola, che faceva la spola tra la nave attraccata al largo e il piccolo porto davanti ai nostri occhi, eravamo come clandestini imbarcati in un viaggio alla rovescia, dal continente al mare, dal presente al passato.
La miriade di cicale che frinivano all’unisono, in un crescendo quasi assordante man mano ci avvicinavamo alla spiaggia, era l’unica voce dell’isola. L’unico segno di vita. Neppure un’anima in giro, sotto il sole cocente delle due del pomeriggio.
Appena approdati in quella solitudine irreale, ci parve di essere non ospiti ma padroni di quel luogo. E non più costretti alla vicinanza coatta del viaggio, ci sparpagliammo per la spiaggia di sassi scuri, pronti a prenderne possesso. Con le nostre cose, la nostra presenza, la nostra invadenza.
Verso il fondo della baia c’erano due donne, due turiste che prendevano il sole completamente nude. “Bello – pensai – qua si può fare nudismo indisturbati”. Mi piaceva spogliarmi anche di quei minuscoli triangoli di stoffa che costituivano il mio esile costume da bagno perché era come togliersi l’abito per indossare una bandiera: quella dell’emancipazione, della libertà, della provocazione.
Per giorni colonizzammo l’isola piantando le nostre tende dove ci pareva, facendo casino alla sera in riva al mare e spogliandoci di ogni inutile necessità, abiti compresi. Gli isolani ci ignoravano. Giravano alla larga da noi. I pochi che incontravamo erano uomini, pescatori che partivano alla mattina presto per andare al largo e non tornavano mai prima del tramonto. Le donne dov’erano? Forse arroccate nel piccolo villaggio a cui si arrivava soltanto percorrendo a dorso d’asino il tortuoso sentiero che dal porto portava in cima al promontorio.
Noi non salimmo mai lassù. Per la spesa, ci accontentavamo di quel poco che trovavamo in un modesto baracchino alla spiaggia: uno sgangherato bar-ristorante-supermercato affacciato sul mare, l’unica concessione del luogo per i pochi turisti come noi che arrivavano di quando in quando all’isola.
Un giorno, proprio mentre ce ne stavamo là, con qualche arancino di riso nel piatto e qualche bicchiere di vino sul tavolo, udimmo uno strano lamento corale che si faceva via via più vicino, più intenso, più angosciante. Erano voci di donne. Dalla terrazza non vedevamo arrivare nessuno, e quella nenia ossessiva mi sembrava quasi un’allucinazione.
Ma a un certo punto, volgendo gli occhi verso il mare, notai una piccola imbarcazione che si avvicinava lentamente a riva. Avanzava a forza di remi, piano, piano, piano. Un unico uomo a bordo, e un unico particolare visibile: un immenso cuscino di fiori.
Mentre mi domandavo cosa mai stesse accadendo, dalla strada che conduceva al porto apparvero loro: le donne dell’isola. Tutte vestite di nero, dalla testa ai piedi. Le mani giunte sotto il petto, un rosario in mano. Venivano ad accogliere il loro defunto che arrivava dal mare, piangendolo con lugubri nenie interrotte soltanto da strazianti grida di dolore.
Camminavano a testa bassa. Penso che neppure ci avessero notati.
I loro lunghi abiti neri facevano a pugni con i nostri succinti costumi da bagno di tutti i colori. Il pallore dei loro visi, incorniciati dal velo che copriva i capelli, contrastava con l’abbronzatura della nostra pelle cotta dal sole.
Io, sopra il costume, indossavo un pareo. Me l’ero legato addosso semplicemente perché mi dava fastidio la pelle nuda che si incollava a quelle orribili sedie di plastica del bar.
Fra tutti gli amici, ero quella più vestita. Eppure mi sentivo nuda. Nuda e intrusa. Nuda e arrogante. Nuda e cieca. Nuda e sorda alla voce di quel luogo, di quelle donne, di quel mondo ancora antico ma non per questo meno degno di rispetto.

Black suede shoes


Le labbra contratte stringevano il filtro mentre la bocca si impegnava in lunghi e rapidi tiri. Piero teneva stretta la sigaretta tra le dita. Indossava un completo primaverile, dal tessuto morbido, una camicia bianca, che aveva slacciati gli ultimi due bottoni, e una cravatta, molle intorno al collo.

Con il suo paio di mocassini in pelle nera e dalla suola di cuoio duro, che risuonavano sul catrame, misurava il marciapiedi di fronte al portone con ampie e veloci falcate. Avanti e indietro.

Nella sua testa ripassava il discorso che si era preparato per Cristina, misurando con perizia rimostranze e ricordi, sensi di colpa e accuse, perdono e desiderio. Si lasciava trascinare dalle sue scarpe; dall'impatto secco della suola sul terreno e dal rintocco ipnotico provocato dal cuoio, dimentico del mondo che aveva intorno. Così non vide il bambino e la bambina che gli passarono accanto mano nella mano, non percepì il profumo di pane caldo che proveniva dalla panetteria all'angolo né udì quella canzone, che tanto gli piaceva, suonata dall'autoradio di una coupé che passava sulla strada, né tanto meno si accorse dello sguardo furtivo e curioso che gli lanciò la deliziosa biondina che accompagnava i due bambini. Era tutt'uno col suo obiettivo.

Avrebbe riconquistato Cristina. Era destino. Era scritto nelle stelle. L'avrebbe riconquistata perché lui lo voleva e perché così aveva deciso. L'avrebbe attaccata perché lei lo aveva tradito con quell'attore da quattro soldi ma alla fine l'avrebbe perdonata. Dopotutto anche lei gli aveva perdonato le sue scappatelle. Sarebbe stato magnanimo e comprensivo. Le avrebbe concesso il suo perdono.

Certo però che gli rodeva. Se ci pensava troppo aveva la sensazione che il sangue gli affluisse sotto lo sterno. Come si era permessa di fare quello? Di farlo proprio a lui? Cominciava a sentire come una bolla d'aria nello stomaco. Il respiro cominciava a venir meno. Lei avrebbe dovuto avere più rispetto della loro relazione, del loro legame. Perché non ci aveva pensato prima di farsi scopare come una troia? Mentre scopavano forse quei due avevano riso di lui. Chissà che parole c'erano state fra di loro. Il sangue sotto lo sterno cominciava a bollire. L'avrebbe ammazzata! Si voltò e cominciò a correre verso il portone ma il piede inciampò su qualcosa di morbido che lo fece scivolare. Piero roteò su se stesso, si inclinò paurosamente e picchiò il culo sul marciapiedi. Osservò i suoi piedi e si accorse, allora, di aver pestato una grossa merda di cane. Fu un attimo. Sentì le lacrime bagnarli gli occhi e il respiro come tagliuzzato da lame. Come se arrivasse dal pozzo della sua anima, un urlo disumano proruppe dalla sua gola. Si guardò intorno. Sembrava che nessuno lo avesse sentito. Contemplò ancora il mocassino; la merda lo impiastricciava un po' dappertutto. Rimase come sospeso per un istante e poi si sciolse in una risata larga e insensata. Allora si levò le scarpe, si rimise in piedi e s'incamminò verso l'angolo. Ci svoltò e scomparve.

sabato 15 ottobre 2011

Il signor Giacomo

Alle 6,45 la sveglia del signor Giacomo suona. Lui si alza, va in cucina e mette la caffettiera sul fuoco.. Gli sovviene che oggi è sabato e quindi non lavora. Dandosi dello stupido, ritorna a letto e si riaddormenta. Si sveglia di soprassalto dopo pochi minuti, con la consapevolezza che, in effetti, oggi non è sabato.
E' venerdì.
Con un balzo esce dal letto, corre in bagno, quindi si veste ed esce dal proprio appartamento. Si infila nell'ascensore, scende sino al pianterreno, quando gli sorge il dubbio di aver lasciato aperto il gas in cucina. Schiaccia il pulsante del quinto piano,risale, quindi apre la porta di casa e sente il telefono squillare. Risponde: E' il Direttore dell'ufficio, che gli chiede spiegazioni del ritardo
. Il signor Giacomo si scusa, quindi esce di casa, sale in ascensore e schiaccia il pulsante del pianterreno.
All'altezza del secondo piano il signor Giacomo si rende conto di aver lasciato la chiave di casa infilata nella porta. Risale al quinto piano e trova la chiave ciondolante dal buco della serratura. La sfila , risale in ascensore e scende sino al pianterreno. Nell'androne incontra il portinaio, lo saluta , esce e si avvia verso la macchina.
Il signor Giacomo non trova le chiavi della macchina.
Sono rimasti nei pantaloni indossati il giorno prima. Veloce ritorna nel palazzo, saluta il portiere, entra in ascensore, arriva al quinto piano, entra a casa, corre in stanza da letto, ma i pantaloni non ci sono.
Il signor Giacomo si ricorda di averli messi a lavare in lavatrice.
Apre la lavatrice, tira fuori i panni bagnati, trova i pantaloni, recupera la chiave della macchina, esce di casa e...
l'ascensore non c'è.
E' fermo al primo piano. Lo chiama. L'ascensore parte, ma non sale. Scende al pianterreno.
Il signor giacomo schiaccia il pulsante dell'ascensore, e quello risale.
Ma al quarto piano si ferma.
E torna al pianterreno.
Il signor Giacomo decide di prendere le scale, scende tutte le cinque rampe di corsa , saluta il portiere, esce in strada, entra in macchina e decide di chiamare in ufficio per dire che è in ritardardo.
Ma il cellulare non c'è.
E' in casa.
Nel telefonino ci sono dei numeri importanti che il signor Giacomo deve chiamare in giornata, quindi è costretto a scendere dalla macchina, correre nel condominio, salutare il portiere, prendere l'ascensore, salire al quinto piano, aprire la porta e prendere il telefonino.
Ma non lo trova. Decide di chiamarsi, usando il telefono fisso. Lo sente squillare.
Ma non in casa. Il cicalio proviene da fuori.
Dall'ascensore.
Il signor Giacomo vede il telefonino in un angolo del pavimento dell'ascensore, l'istante prima che le porte si chiudano e l'ascensore scenda, al pianterreno.
Il signor Giacomo chiude la porta di casa e corre a rotta di collo per le scale. Nell'ultima rampa appoggia malamente il piede destro e si sloga una caviglia. Zoppicando e bestemmiando il signor Giacomo raggiunge l'ascensore al pianterreno.
E dentro l'ascensore, il telefonino, c'è.
Recuperato il telefonino il signor Giacomo zoppicando raggiunge la macchina, e dopo essersi seduto, chiama in ufficio.
Un centralino lo avverte che dovrà aspettare pochi minuti. Lui aspetta e dopo tre minuti una voce gentile lo informa che il suo credito è finito.
Il signor Giacomo sbuffando mette in moto la macchina, poi casualmente dà uno sguardoin alto, verso il suo appartamento, e vede del fumo nero uscire dalla finestra socchiusa . Il signor Giacomo si rende conto di non aver chiuso il gas, e che qualcosa ha preso fuoco, quindi pianta la macchina in mezzo alla strada, zoppicando entra nel condominio, non saluta il portiere e chiama l'ascensore.
Ma quello non arriva.
Si è rotto” sente dire dal portiere.
Il signor Giacomo manda affanculo il portiere, quindi sale cinque rampe di scale, apre la porta di casa, corre in cucina dove viene investito da un fumo nero, e dal forte odore di alluminio e plastica bruciata. Spegne il gas e sposta la caffettiera.
La caffettiera è arroventata.
Il signor Giacomo urla e lascia cadere la caffettiera, che finisce sul piede sano.
Il signor Giacomo urla un'altra volta.
Con molta fatica il signor Giacomo si porta vicino alla finestra e la spalanca. Guarda in strada.
Vede due tipi poco raccomandabili salire sulla sua macchina, ferma in mezzo alla strada, e partire sgommando.
Il signor Giacomo si siede in cucina
E rimane li per un bel po'.

Home sweet Home

Casa dolce casa. Sì: è questo che si pensa tante volte, quando finalmente si rientra esausti, carichi di borse, giacche, maglioni perché con questo tempo non si capisce più niente.. alla mattina.. il gelo polare; al pomeriggio.. un caldo infernale.. E noi rincasiamo, stanchi e stressati, con le braccia cariche neanche fossimo venditori ambulanti, e per un attimo, per un breve sublime istante, quel piccolo o grande nido accogliente ci sembra un paradiso. Un paradiso, sì, che a poco a poco si trasforma in inferno mentre i suoi demoni, rinchiusi a chiave in un cassetto o dietro una porta, si risvegliano.
Casa. Amata e odiata casa. Quante volte vorremmo scappare lontano; prendere e uscire e metterci alla guida, senza meta. Soli, soli con la nostra voglia di andare. Con l'orizzonte negli occhi e l'illusione di catturare quei sogni. Eppure è lì – Casa – è sempre lì che vorremmo tornare quando siamo lontani. E non importa che siamo in un'aula di scuola o in un cubo d'ufficio o dall'altra parte del Globo, quello che conta è che ci manca Casa. Casa Nostra. Quel nido accogliente dove si attacca furiosa una parte dell'anima ogni mattina quando varchiamo la porta per andare incontro al mondo.
Casa.
Casa non è un edificio; non è quel quadrato bianco con un triangolo rosso sul capo che disegnavamo all'asilo; non è tutto quello spazio che piccolo o grande hai curato, arredato, pulito, cambiato, ammirato. No: Casa è un qualcosa di tutto questo. E' un dettaglio, è QUEL dettaglio, che rende quel posto il TUO nido, il TUO rifugio, il TUO posto. Casa è una coperta, un cuscino; è quel peluche immenso che hai su una sedia accanto al letto, e anche se sei diventato grande ti fa sentire ancora quel fremito di quando eri bambino. Casa è un oggetto, una parete, un dipinto; una scelta che fa tuo quello spazio. Ed è quel dettaglio, ciò a cui pensi ogni volta che sei lontano e vorresti trovarti lì: nel tuo rifugio, pieno dei tuoi demoni e delle tue tristezze.
Ho un ricordo del mio periodo di adolescente convinta, di quando volevo dimostrare al mondo di essere a qualcuno andando a ballare in discoteca. File interminabili di coda, perennemente – non si capisce poi perché- sotto una pioggia infernale; il carnaio all'ingresso, il prezzo che non è mai quello previsto; le lotte e i gomiti nelle costole al bancone per le borse e i giubbotti.. L'ho capito subito che non faceva per me quell'ambiente, e perennemente arrivava un momento in cui, per vincere lo sconforto, immaginavo. Immaginavo casa mia, immaginavo che la serata fosse finita. Di più: mi immaginavo sotto il mio piumone caldo e variopinto, nella penombra della mia stanza. Ecco: immaginavo la mia casa, la mia camera; quel raggio di sole o di luna o di polvere di stelle, che ogni giorno, indipendentemente dall'ora, buca la persiana e colora di polvere sospesa il torpore del mattino.
Questo è casa mia: un dettaglio. Un filo che tiene insieme tutto il resto, tutti i singoli particolari fortuiti o accuratamente scelti. Come quando da piccoli si univano i numerini sulle riviste per scoprire l'immagine. Così mi piace immaginare il mio nido: come un puzzle che si compone di innumerevoli piccoli pezzi; come un incastro che racconta una vita. E in questo incastro, non può mancare un elemento fondamentale: il motore amore.. La mia mamma, il mio filo intrecciato. Lei è casa, e l'odore del suo golf beige larghissimo che tiene caldo d'inverno; l'odore che mi lascia addosso la mattina quando mi abbraccia prima che esca. Pensare a “casa” è pensare a mia madre, perché senza di lei le silenziose parole sussurrate dalle mura alla notte..avrebbero un suono completamente diverso.

Francesca Casagrande.

venerdì 14 ottobre 2011

Perchè tanto amore per lo struzzo?


Mi sveglio e penso a loro, preparo la colazione e non mi capacito, esco di casa e dimentico di chiudere a chiave, sempre loro. In auto per poco prendo la tangenziale ovest invece di proseguire dritto. Non approfitto del primo parcheggio che l'occhio ha registrato senza il consenso dei miei neuroni che sono fermi a ieri sera. Ma perchè gli struzzi sono oggetto di tanta curiosità? Le penso tutte. Giochini erotici per cocainomani annoiati dal solito sesso ? Mercato arti per maglifici "arti-gianali" cinesi? Insomma fino a quando nn sono arrivata in ufficio non mi sono data pace. Ho chiesto aiuto ad internet e mi si è aperto un mondo:

Bastano solo 27 struzzi per poter rifare gli interni della vostra automobile.

Lo struzzo, adeguatamente spennato, può diventare un efficacissimo spolverino.

La bistecca e il frappè di struzzo sono varietà culinarie molto ricercate per le rinomate capacità lassative.

Gli struzzi possono raggiungere velocità fino ai 70 km/h: compratene uno e divertitevi a gareggiare con i vostri amici come fanno i nativi dell'Africa.

Negli anni Venti, andavano di moda i cappelli di penne di struzzo. Ormai è un tormentone caduto abbastanza in disuso, ma sono comunque un ottimo metodo per sembrare trasgressivi.

Il loro cuoio è ottimo per la fabbricazione di struzzi.

Lo struzzo può essere usato al posto dei cani guida per ciechi.

Gli struzzi sono morbidosi e per nulla aggressivi: regalane uno ai tuoi figli!

Gli omogeneizati Mellin di struzzo fanno crescere i bambini sani, forti e paraplegici.

Con l'avanzamento tecnologico, è molto probabile che degli struzzi condurranno le unità militari pesanti nelle future guerre; ci sono già casi documentati di operazioni balistiche USA, con a capo questi sanguinosi pennuti che, non avendo nulla da perdere, si gettavano sui nemici con una notevole furia omicida.

Ohhhh! Adesso sono in pace con il mondo.

Occhio della dea: Premiazione concorso

Occhio della dea: Premiazione concorso: ♥●•٠·˙˙·٠•●♥ Ƹ̵̡Ӝ̵̨̄Ʒ ♥●•٠·˙˙˙˙·٠•●♥ ARKAVAREZ♥●•٠·˙˙·٠•●♥ Ƹ̵̡Ӝ̵̨̄Ʒ ♥●•٠·˙˙˙˙ . BENVENUTI! ...

Un cesto di noci


Il salone era illuminato da eleganti lampade che gettavano la luce in ogni angolo.

Al tavolo lui stava divorando un delizioso filetto di manzo accompagnato da un'abbondante porzione di saporite patate al forno. Ai bocconi di carne alternava lunghe sorsate da un calice ricolmo di un superbo vino rosso. Di fronte a lui, separata di una barricata di bottiglie, bicchieri, piatti, vassoi e cestini, lei mangiava assente dei finocchi al vapore infilzandoli con la forchetta che teneva nella mano destra, mentre con la sinistra si arricciava una ciocca dei suoi lunghi capelli biondi. Faceva fatica a sentire quello che lui le diceva in quel momento. Sembrava che fosse intento a parlare di qualcosa che suonava come extension, o forse traction. Parole che lei doveva conoscere ma di cui in quel momento non riusciva a cogliere il senso.

Lui la voleva sempre in forma e sempre tonica, le diceva: “ se mi ami davvero non dovrebbe essere difficile”, e lei faceva di tutto per accontentarlo. Non voleva che si mettesse a guardare le altre e non voleva che le altre risultassero meglio di lei in un confronto.

Così si sparava tutti i giorni ogni genere di esercizio: leg extension, leg curl, affondi, hack squat, peck back, croci piane, croci a 45 gradi e altri ancora. Tutto per avere un fisico tonico, una paio di tette sode e due chiappe di marmo.

Doveva restare concentrata. Restare concentrata sul non fissare il piatto del compagno. Altrimenti quella sera avrebbe ceduto, se lo sentiva. Si mise allora a guardare gli altri clienti del ristorante, la postura con cui sedevano, i gesti delle mani quando conversavano e quando.....prendevano dal piatto il loro cibo. Non era possibile. Non era possibile sfuggire al subdolo richiamo tentatore del cibo, così tornò a volgere lo sguardo al compagno che in quel momento, ultimato il suo filetto, stava ordinando una porzione di torta ripiena di crema al cioccolato. Dovette prendere un lungo respiro per non perdere lucidità, ma non poté nulla per quello che successe dopo. L'occhio del compagno, mentre guardava allontanarsi il cameriere con la sua ordinazione, incrociò la silhouette di un’altissima valchiria che, fasciata in un lungo abito aderente, attraversava in quel momento il ristorante. Forse l'uomo non ci pensò neanche quando pronunciò quella considerazione - “Quello si che è sodo” - ma mal gliene incorse.

La pazzia non si manifesta sempre come l'eruzione improvvisa di un vulcano; a volte ha l'aspetto quadrato e matematico di una punta di diamante su un vetro.

La compagna dell'uomo richiamò il cameriere e ordinò un cestino di noci. Sebbene la richiesta fosse insolita, di fronte alla determinazione calma della donna, il personale si attivò per esaudirla.

Una volta che il cestino fu sul tavolo, la donna si alzo in piedi afferrando una noce dal cestino e avvicinandosi al fidanzato, con tono amorevole gli disse: " Mi sembra che tu abbia le idee un po' confuse, amore. Ma ho voglia di darti una mano. Ti aiuterò a chiarirti. Devi avere fiducia, caro! Osserva bene quello che ti mostrerò e non dimenticarlo. E' raro vedere un culo sodo come il mio.....un culo che rompe le noci!”. E quasi che si aspettasse davvero di vedere una noce aperta con il culo, come si racconta nelle barzellette, l'uomo non vide nulla ma poté soltanto sentire il freddo della lama del coltello mentre gli apriva lo stomaco.

giovedì 13 ottobre 2011

Storia di somari


15 ottobre, tu che fai???

La storia degli asini che sta circolando in rete è limpida come le favole di fedro...

Non l’hai ancora letta? Eccola qui....



Un uomo in giacca e cravatta è apparso un giorno in un villaggio. In piedi su una cassetta della frutta, gridò a chi passava che avrebbe comprato a € 100 in contanti ogni asino.

I contadini erano un po’ sorpresi, ma il prezzo era alto e quelli che accettarono tornarono a casa con il portafoglio gonfio, felici come una pasqua.

L’uomo venne anche il giorno dopo e questa volta offrì 150 € per asino, e di nuovo tante persone gli vendettero i propri animali.

Il giorno seguente, offrì 300 € a quelli che non avevano ancora venduto gli ultimi asini del villaggio.

Vedendo che non ne rimaneva nessuno, annunciò che avrebbe comprato asini a 500 € la settimana successiva e se ne andò dal villaggio.

Il giorno dopo, affidò al suo socio il gregge che aveva appena acquistato e lo inviò nello stesso villaggio con l’ordine di vendere le bestie a 400 € l’una.

Vedendo la possibilità di realizzare un utile di 100 €, tutti gli abitanti del villaggio acquistarono asini e, per far ciò, si indebitarono con la banca.

Come era prevedibile, i due “uomini d’affari” andarono in vacanza in un paradiso fiscale con i soldi guadagnati e tutti gli abitanti del villaggio rimasero con asini senza valore e debiti fin sopra i capelli.

Gli sfortunati provarono invano a vendere gli asini per rimborsare i prestiti. Il “corso” dell’asino era crollato. Gli animali furono sequestrati e affittati ai loro precedenti proprietari dal banchiere.

Nonostante ciò il banchiere andò a piangere dal sindaco, spiegando che se non recuperava i propri fondi, sarebbe stato rovinato e avrebbe dovuto esigere il rimborso immediato di tutti i prestiti fatti al Comune. Per evitare questo disastro, il sindaco, invece di dare i soldi agli abitanti del villaggio perché pagassero i propri debiti, diede i soldi al banchiere (che era, guarda caso, suo caro amico e primo assessore).

Eppure quest’ultimo, dopo aver rimpinguato la tesoreria, non cancellò i debiti degli abitanti del villaggio né quelli del Comune e così tutti continuarono a rimanere immersi nei debiti.

Vedendo il proprio disavanzo sul punto di essere declassato e preso alla gola dai tassi di interesse, il Comune chiese l’aiuto dei villaggi vicini, ma questi risposero che non avrebbero potuto aiutarlo in nessun modo poiché avevano vissuto la medesima disgrazia.

Su consiglio “disinteressato” del banchiere, tutti decisero di tagliare le spese: meno soldi per le scuole, per i servizi sociali, per le strade, per la sanità … Venne innalzata l’età di pensionamento e licenziati tanti dipendenti pubblici, abbassarono i salari e al contempo le tasse furono aumentate. Dicevano che era inevitabile e promisero di moralizzare questo scandaloso commercio di asini.

Questa triste storia diventa più gustosa quando si scopre che il banchiere e i due truffatori sono fratelli e vivono insieme su un’isola delle Bermuda, acquistata con il “sudore della fronte”. Noi li chiamiamo fratelli Mercato.

Molto generosamente, hanno promesso di finanziare la campagna elettorale del sindaco uscente.

Questa storia non è finita perché non sappiamo cosa fecero gli abitanti del villaggio. E voi, cosa fareste al posto loro? Che cosa farete?

Se questa storia vi ricorda qualcosa, ritroviamoci tutti nelle strade delle nostre città e dei nostri villaggi sabato 15 ottobre 2011 (Giornata internazionale degli indignati). E fate circolare questa storiella.





...la casa in fondo alla strada...

Sono passati tanti anni da quando sono stata in questo posto e man mano che le vie scorrono dietro al finestrino della mia auto, tornano alla mente ricordi che non pensavo esistessero. Profumi, rumori, visi e voci, un insieme di emozioni che mi riportano indietro alla mia infanzia e a quel periodo, passata qui tanto tempo fa.
I miei genitori, per quell'estate, avevano scelto di passare le vacanze in un piccolo paesino, al mare. Avevamo preso in affitto una villetta. Era una casa bianca, molto carina, con un giardino. Per noi, bambini di città, abitare in una casa dove si entra senza prendere l'ascensore, dove si esce e c'è un prato tutto per te, dove giocare, sembrava un fatto miracoloso.
La mia camera aveva un lettino e un letto a castello; non era molto grande e la dividevo con i miei fratelli, ma non mi importava, mi sembrava di essere in paradiso.
Non tutti i giorni andavamo al mare; i miei dicevano che troppo mare rende i bambini nervosi, e quindi rimanevamo a giocare intorno alla casa. Sul retro c'era un pergolato e anche nelle ore più calde, lì si stava al fresco. Mi organizzavo con le mie bambole, e fingevo di avere una casetta tutta mia.
La casa si affacciava su una strada abbastanza stretta; ci passavano poche macchine e avevo il permesso di uscire dal cancello per passeggiare e sbirciare in giro. Tutte le case vicine erano villette con il giardino; niente a che vedere con la mia casa di città, sommersa in mezzo a palazzoni che sembravano giganti.
In cima alla strada, distante da tutte le altre abitazioni, c'era una casa diversa da tutte. Era proprio la sua diversità ad attirare la mia attenzione, a suscitare la mia curiosità.
Era una vecchia casa, alta. Il tempo aveva portato via l'intonaco e in molti punti si vedevano i mattoni, le pietre con cui era stata costruita. Era grigia e cupa. Non c'erano fiori e al posto di un bel prato, intorno, aveva un selciato. Finestre e porte erano sempre chiuse, ma nel mio girovagare avevo scoperto che vi abitava una vecchietta. Quella era la casa della Ida.
Oltre la casa della Ida non c'era niente, e quindi quello era il limite invalicabile:"Vai, ma non oltre la casa della Ida". Ma chi fosse questa Ida, non lo sapevo, non l'avevo mai vista.
I giorni della mia vacanza scorrevano sereni, ma pian piano lo spazio intorno a me non aveva più segreti. Non che mi annoiassi, ma un senso di libertà e di sicurezza, che non avevo mai provato prima, mi aveva preso.
Sentivo quel limite di "non oltre la casa della Ida" come una sfida.
Un pomeriggio, mentre camminavo lungo la strada, arrivata vicino alla vecchia casa, qualcosa dentro di me mi aveva spinto ad andare oltre. Non so bene dove trovai il coraggio di disobbedire, ma lo feci.
Era una giornata nuvolosa, di quelle che mette la noia addosso e che ti spinge a trovare qualcosa di nuovo, da fare.
Lo avevo fatto ed ero rimasta sorpresa nel vedere che non c'era niente di pericoloso oltre quella casa, solo campi e grandi cespugli di rovi di more. Tantissime more. Presa dall'entusiasmo e dall'eccitazione della mia trasgressione mi ero messa a raccogliere e a mangiare more con avidità. Il tempo era passato senza che me ne rendessi conto e soprattutto non mi ero accorta di come il colore del cielo fosse cambiato. All'improvviso mi ero ritrovata in mezzo ad un temporale violentissimo. In un attimo, tutto quello che fino a quel momento mi era apparso come una bellissima avventura, si era trasformato in un incubo. Ero spaventata e non sapevo dove andare.
Piangendo, mi ero messa a correre, quando all'improvviso una mano mi aveva afferrato per un braccio. Mi sentivo trascinare ma non sapevo dove mi stesse portando, finchè non riconobbi la casa della Ida. Una di quelle strette porte che avevo sempre visto chiuse, era aperta ed era proprio dentro a quella casa che stavo per entrare.
In tutta la mia paura, una voce dolce iniziò a parlare. Era proprio lei, la Ida. Nella stanza semibuia mi spinse vicino al camino e mi diede una coperta: tremavo come una foglia, per la paura e per il freddo.
Guardandomi intorno, mi resi conto che in quella stanza c'era tutto quello che poteva servire per vivere. Ma la mia attenzione andò ad una foto, che era posata su un cassettone; aveva davanti fiori e una piccola candela accesa e spiccavano i volti di due ragazzine sorridenti, uguali, due gemelle.
"Sono le mie figlie, sono morte tanti anni fa. Erano tanto belle." La sua voce era tremante. In quel momento mi resi conto che non mi faceva più paura, ma solo una grande tristezza.
Seduta accanto alla Ida, ero rimasta ad ascoltare la sua storia, finchè il temporale non era finito. Poi, tenendomi per mano, mi aveva riaccompagnato a casa.
Nei giorni che mi rimasero di vacanza andai tutti i pomeriggi a trovare la Ida, a raccogliere more, ad ascoltare le sue storie. Il ricordo più caro è rimasto in quella casa, in quella stanza che era tutto il suo mondo o quello che le era rimasto.
Con un po' di fiato sospeso ripercorro quella strada, ma la casa della Ida non c'è più. Mi fermi e ripenso alla sue poche cose, cose che ad occhi estranei saranno sembrate senza valore ma che per lei erano tesori. Come quello che ha lasciato dentro di me.

mercoledì 12 ottobre 2011

ma ce l'hai un pò di stoffa?







A me piace sognare di avere una  casa di stoffa.Si si vorrei una casa con i muri  ricoperti di lino, con le porte rivestite di velluto, i divani tutti di broccato.
Vorrei potermi appoggiare ovunque senza mai farmi male, vorrei che fosse tutto morbido e accogliente.
Tutti gli amici sdraiati ovunque anche sui tavoli e sui pavimenti.
Anche l’asse del water la vorrei rivestita di seta rossa tutta imbottita come un bellissimo sofà.
In casa poi vorrei tante copertine tutte morbide e di tutti colori e di tutte le stoffe del mondo.
Pensa che bello toccarle con le dita, stringerle accarezzarle, ammirare e infilare le mani e i piedi nei fili intrecciati.
Quando fa freddo  la stoffa è importante, ci fa stare bene, se ci copriamo di belle stoffe usciamo anche con il freddo più duro.
I tessuti sono tanti tutti diversi e tutti intriganti, anche la lana, grezza o morbida come il pelo di un gattino, può regalarti tante emozioni.
Ricordo che da piccola mi regalarono un completino di sciarpa cappello e guanti, ed io rimasi a bocca aperta perché la trama della lavorazione era bellissima e i colori erano  mattone, panna e carta da zucchero. Insieme erano luminosi e golosi per il mio gusto e  per i miei occhi.
Io in questa casa inviterei sempre tanta gente e vorrei che ci fossero pezzi di stoffa ovunque ma anche tutto il necessario per cucire, così tutti seduti dappertutto con il pezzettino di stoffa in mano ognuno potrebbe fare quello che gli pare, magari cucire un vestitino, oppure fare una sciarpa o magari una copertina.
Vorrei che ci fossero cataste di lana morbida di tutti i colori della natura dappertutto.
Ma poi si potrebbe fare molto ma molto di più, con la canapa potremmo cucire pilastri di tende, facili da fare e da montare.
Accidenti però pensandoci bene potrebbe succedere che la signora Irma del piano  di sotto (nota per la sua pazienza) venga a suonare per dirmi che “signora ma basta con tutto questo casino! Gente che va gente che viene ogni giorno! Io me lo sentivo che lei era un tipo strano, esce la sera tardi da sola, non parla (lei vorebbe dire sparla) con nessuno e ora secondo lei dobbiamo sopportare tutto questo andirivieni?
Lì per lì dovrei inventarmi qualcosa per convincerla delle nostre buone intenzioni, ma poi ecco che mi illumino e “signora ma lei non sa che io e i miei amici facciamo vestiti, coperte e golfini?"
"Per esempio non le interesserebbe un bel golfino di lana di alpaca giallo? Sono così morbidi i nostri golfini!"

La signora Irma pettegolando qua e là poi incuriosirebbe tutti i condomini che  arriverebbero a casa mia in pellegrinaggio per comprare o solo per guardare e facendo finta di niente cadere sopra un tavolino e provare a non farsi male.
E allora un giorno prenderei una decisione “ ragazzi  dobbiamo comprare gli animali così la materia prima in parte la potremmo produrre noi".
"Gli animali?"  Direbbero tutti.
Si! li teniamo tutti sul mio balcone!
Pensandoci però gli animali andrebbero nutriti ed ecco che potremmo coltivare l’erba, basterebbe comprare un terreno no??
Quante cose mamma mia! La casa di stoffa diventerebbe una piccola azienda manifatturiera e tutto quello che verrebbe fatto in più,  e meno bene del resto potrebbe essere venduto o meglio verrebbe spedito ai bisognosi di tutto il mondo, si per esempio le coperte , le case di stoffa, le tende.
Gli animali poi ci darebbero anche il loro latte da bere o per fare formaggi. Qualche volta poi la loro  carne ce la potremmo mangiare.
Sarebbe una bella casa la mia casa di stoffa, potrei rivoluzionare la mia vita, cadere tutte le volte che voglio senza farmi male, stare al caldo con gli amici sotto le copertine di lana melange.
Fare  il caffè con la caffettiera imbottita senza paura di scottarmi.
Beh certo che un animale su un balcone non è facile da tenere, più che altro per l’odore delle feci e della pipì, ma anche per i versi che fa.
Mi fa un po’ pena pensare ad un animale chiuso in 3 mq per tutta la vita,  e anche coltivare tutta l’erba per nutrirli potrebbe essere pesante. Seminarla raccoglierla tagliarla.
Mangiare gli animali,  ma chi potrebbe mai ammazzarli? Io no di sicuro.
Ma tutto questo si potrebbe imparare; dovremmo scegliere.
Intanto potrei pensarci sdraiata sul mio tavolo di velluto in cucina,ciucciando un fazzoletto di seta  per consolare un po’ la mia delusione..quella che nasce  tra le mie illusioni  e quello che poi davvero potrebbe succedere oppure no.