"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

domenica 16 ottobre 2011

Nudità

Un’isola. Un angolo remoto, sprofondato nel blu del Mediterraneo. Uno sputo di terra bruciata, dimenticata da dio e dagli uomini.
Stipati tutti in piedi su quella bagnarola, che faceva la spola tra la nave attraccata al largo e il piccolo porto davanti ai nostri occhi, eravamo come clandestini imbarcati in un viaggio alla rovescia, dal continente al mare, dal presente al passato.
La miriade di cicale che frinivano all’unisono, in un crescendo quasi assordante man mano ci avvicinavamo alla spiaggia, era l’unica voce dell’isola. L’unico segno di vita. Neppure un’anima in giro, sotto il sole cocente delle due del pomeriggio.
Appena approdati in quella solitudine irreale, ci parve di essere non ospiti ma padroni di quel luogo. E non più costretti alla vicinanza coatta del viaggio, ci sparpagliammo per la spiaggia di sassi scuri, pronti a prenderne possesso. Con le nostre cose, la nostra presenza, la nostra invadenza.
Verso il fondo della baia c’erano due donne, due turiste che prendevano il sole completamente nude. “Bello – pensai – qua si può fare nudismo indisturbati”. Mi piaceva spogliarmi anche di quei minuscoli triangoli di stoffa che costituivano il mio esile costume da bagno perché era come togliersi l’abito per indossare una bandiera: quella dell’emancipazione, della libertà, della provocazione.
Per giorni colonizzammo l’isola piantando le nostre tende dove ci pareva, facendo casino alla sera in riva al mare e spogliandoci di ogni inutile necessità, abiti compresi. Gli isolani ci ignoravano. Giravano alla larga da noi. I pochi che incontravamo erano uomini, pescatori che partivano alla mattina presto per andare al largo e non tornavano mai prima del tramonto. Le donne dov’erano? Forse arroccate nel piccolo villaggio a cui si arrivava soltanto percorrendo a dorso d’asino il tortuoso sentiero che dal porto portava in cima al promontorio.
Noi non salimmo mai lassù. Per la spesa, ci accontentavamo di quel poco che trovavamo in un modesto baracchino alla spiaggia: uno sgangherato bar-ristorante-supermercato affacciato sul mare, l’unica concessione del luogo per i pochi turisti come noi che arrivavano di quando in quando all’isola.
Un giorno, proprio mentre ce ne stavamo là, con qualche arancino di riso nel piatto e qualche bicchiere di vino sul tavolo, udimmo uno strano lamento corale che si faceva via via più vicino, più intenso, più angosciante. Erano voci di donne. Dalla terrazza non vedevamo arrivare nessuno, e quella nenia ossessiva mi sembrava quasi un’allucinazione.
Ma a un certo punto, volgendo gli occhi verso il mare, notai una piccola imbarcazione che si avvicinava lentamente a riva. Avanzava a forza di remi, piano, piano, piano. Un unico uomo a bordo, e un unico particolare visibile: un immenso cuscino di fiori.
Mentre mi domandavo cosa mai stesse accadendo, dalla strada che conduceva al porto apparvero loro: le donne dell’isola. Tutte vestite di nero, dalla testa ai piedi. Le mani giunte sotto il petto, un rosario in mano. Venivano ad accogliere il loro defunto che arrivava dal mare, piangendolo con lugubri nenie interrotte soltanto da strazianti grida di dolore.
Camminavano a testa bassa. Penso che neppure ci avessero notati.
I loro lunghi abiti neri facevano a pugni con i nostri succinti costumi da bagno di tutti i colori. Il pallore dei loro visi, incorniciati dal velo che copriva i capelli, contrastava con l’abbronzatura della nostra pelle cotta dal sole.
Io, sopra il costume, indossavo un pareo. Me l’ero legato addosso semplicemente perché mi dava fastidio la pelle nuda che si incollava a quelle orribili sedie di plastica del bar.
Fra tutti gli amici, ero quella più vestita. Eppure mi sentivo nuda. Nuda e intrusa. Nuda e arrogante. Nuda e cieca. Nuda e sorda alla voce di quel luogo, di quelle donne, di quel mondo ancora antico ma non per questo meno degno di rispetto.

4 commenti:

  1. Flavia che bello questo racconto.La pelle nuda ci fa sentire vicini ma a volte anche molto lontani.
    Manu

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  2. bello questo racconto. Complimenti alla scrittrice.

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  3. Spesso vorremmo spogliarci di tutto per sentirci più noi stessi ma a volte non funziona.Ci rivestiamo per sentirci " A POSTO" ,per stare meglio e forse,forse, va bene così,non lo so.Brava Flavia...

    Ivan

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  4. Elegante. Bello Flavia.

    Franca

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