"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

martedì 28 febbraio 2012

The Fantastic Flying Books of Mr. Morris Lessmore

il cortometraggio premio Oscar 2011. che ne pensate?

mercoledì 15 febbraio 2012





L’abitante invisibile


La sveglia “ringhia” apro gli occhi e il primo pensiero va a lui.
Deglutisco, c’è! Anche questa mattina, accanto a me.
Forse sarebbe più corretto dire dentro di me. Si perché lui mi abita.
E’ invadente, strafottente, si è intrufolato non so come e nemmeno quando; ha attecchito come un seme per germogliare chissà cosa.
Mica in un angolo insulso. Ah no, si è piazzato là proprio dove ogni mio pensiero si trasforma e viene a galla, là dove ogni boccone d’aria e di nutrimento passano e mi tengono in vita. Come una sentinella là, all’ingresso.
All’inizio non lo sopportavo, lo sentivo ma non potevo scacciarlo. Pensavo : “chi ti ha fatto entrare? Vattene!”
Ogni mattina aprivo gli occhi e prima di deglutire mi chiedevo : “ci sarà? Mio Dio fa che nn ci sia più”. Poi la saliva scendeva e lo sconforto annegava.
Non mi bastava non riuscire a godere della luce primaverile che irradiava il mondo a me circostante, né bastava l’aver dimenticato la maniera in cui nasce un sorriso, non bastava nemmeno non sentire il bisogno di affetto, di carezze, di presenze che colorassero seppur solo di un grigio appena più chiaro il trascorrere delle ore domestiche.
No, dovevo sentirmi anche in una prigione. Imprigionata dal e nel mio stesso corpo.
Esami su esami. Nulla. Non si vede nulla.
“C’è dottore lo sento. Mi pare di toccarlo. Guardi bene è lì a destra.
Talvolta sento un sapore ferroso nel mandare giù la sua saliva”. Si perché è sua anche quella.
Nelle crisi di nervi più violente avrei voluto infilarmi in bocca le dita e strapparlo con forza io stessa dalla gola per poi mostrarlo come fosse un bottino di guerra, la mia guerra personale contro quell’abitante clandestino.
“Lo vede adesso questo stronzo eh lo vede? Lo vede dottore si o no!?”
Poi un giorno un internista gentile durante una delle svariate volte in cui il cuore pareva scoppiare ed io dalla paura di morire correvo all’ospedale, dopo avermi fatto tutti gli esami mi disse: “mi spiace per quello che hai tu non posso aiutarti io” ”. Il suo tono fu come una carezza, delicata e rivelatrice.
“Non ho nulla di grave allora, bene”
Dopo un immediato senso di rassicurazione seguì un’ondata di tristezza ad aumentare la portata del mio mal di vivere.
“La cosa mi rassicura? No affatto. Io non voglio condividere il mio malessere con te lo capisci? Te ne vai?! Lasciami da sola ti prego, ti prego!
Il tempo aiuta, è vero. In un giorno senza data ho cominciato a pensare a lui non più come un abitante indiscreto ed irritante ma come un guardiano attento e a suo modo affettuoso.
Era li per me dopotutto, lo capii poi.
Meraviglioso, il mio corpo mi stava parlando, dalla gola, proprio da dove le parole escono.
Trovai tutto questo assolutamente formidabile ed affascinante e non lo nascondo anche inquietante. Insomma la testa immagina la presenza di qualcosa che non c’è e che tu invece senti presente vivo e palpabile.
Le giornate tornarono a scorrere sempre con la lentezza di chi non ama la vita, con la mente offuscata da un velo che la ricopre e che non lascia passare ossigeno, luce.
Adesso ne avevo consapevolezza però; fino a quel momento avevo solo desiderato non esserci.
Quell’abitante mi aveva aiutato a prendere quel velo di piombo che aveva atrofizzato la mia mente, i miei desideri, le mie percezioni, e a lasciarlo scivolare via, sinuosamente cosi come si era adagiato avvelenandomi.
Un giorno forse bevendo del vino rosso o ingoiando una fetta di pane chissà ho avvertito una strana sensazione. Cominciai a deglutire due tre quattro volte.
L’abitante aveva fatto le valigie e se n’era andato.
Feci un sorriso di sicuro e con il pensiero lo salutai…a non risentirci amico mio.

domenica 12 febbraio 2012

noi due






"Ci vai tu stamattina?" "perchè?" "Dai vacci tu Luca...io ho sonno, voglio dormire"
"Si ma è l'ultima volta hai capito?!"Sono stufo ok? hai capito cretino?"
"Ma si va bene, dai non rompermi le scatole che ho voglia di dormire".
Luca e Pietro sono due fratelli gemelli, la madre non se ne aspettava due di figli.
Era diventata enorme, la pancia negli ultimi mesi le impediva i gesti più semplici, dormiva con tre cuscini, perchè si sentiva soffocare da quella montagna sotto il seno.
Una sera finalmente perse le acque, il marito di corsa la portò alla Mangiagalli.
Ma si fa per dire di corsa, perchè la signora Elena faceva due passi e si fermava, aveva la sensazione di partorire da un momento all'altro ma voleva trattenere quella creatura fino al momento in cui avesse trovato le condizioni giuste per metterlo al mondo.
Quando arrivarono in ospedale i dottori dissero che era pronta per la sala parto, non c'era d'aspettare neppure un minuto.Una spinta poi un'altra, una gomitata sul pancione, un urlo e un pianto e Luca apparse sulla scena di questo mondo.
Era pelato e urlava, tutto rugoso sembrava un vecchietto incazzato nero.
Ad un tratto il dottore richiamò l'ostetrica, gli altri infermieri e disse " ce n'e' un altro, signora ricominci a spingere, oggi lei diventa una supermamma".
Da quel giorno Luca e Pietro furono due fratelli gemelli unitissimi, giocavano  sempre insieme, non potevano stare uno senza l'altro.
Dall'asilo alla scuola sempre in classe insieme.
Persino Elena faceva fatica a distinguerli rischiando a volte, di dar da mangiare o di cambiare il patello sempre allo stesso.
Luca e Pietro giocavano molto e si divertivano tanto, sapendo di essere  identici  facevano scherzi agli amici, ma anche alla portinaia, e poi una volta grandi, se capitava l'occasione si scambiavano le ragazze andando all'appuntamento dell'altro.
L'ultima che avevano pensato e che credevano fosse un'idea geniale, era quella di  avere un posto di lavoro condiviso.Potevano godersi una libertà impensabile, anche se lo stipendio era scarso ovviamente, era  fratto due. Ma nei giorni liberi andavano in giro a cercarsi delle nuove opportunità, scrivevano, insomma investivano il loro magnifico inganno come meglio pensavano.
Non era sempre andata benissimo, ma ci avevano preso gusto, questo senso di vivere con un clone di se stessi gli regalava la facoltà di potersi eclissare dalle situazioni che volevano evitare, dalle persone che volevano dimenticare, da tutto ciò che per tutti è difficile dire o fare.
Luca quella mattina come al solito si mette le lenti a contatto ed esce di casa arrabbiato.
Mentre Pietro si era rimesso a dormire profondamente.
I dipendenti di quel negozio avevano Pietro e Luca come capo, anzi l'unico capo che pensavano di avere era Pietro, ma pensavano che fosse un uomo malato, o meglio con seri problemi psicologici.
Luca, quello vero era una persona simpatica, alla mano, uno a cui potevi raccontare che la sera prima ti eri ubriacato perchè avevi litigato con la ragazza.Per brevità, uno con cui parlavi di tutto.
Invece Pietro pensava che il capo non poteva essere troppo accogliente, con il sorriso in tasca.
Il capo era il capo e un pò di distacco doveva  tenerlo, stava sulle sue e scambiava parole solo per necessità di lavoro, non dava alcuna confidenza, teneva le distanze da tutti.
Nessuno però si era mai accorto dello scambio dei due fratelli, perchè all'apparenza erano identici, alti uguali, robusti ma con il sedere piatto, capelli castani e occhi castani, denti un pò storti e pizzetto per smagrire il faccione.
Ogni volta che tornavano a casa dalla giornata di lavoro raccontavano in breve al fratello quello che era successo, per essere sempre pronti ad eventuali  riferimenti di fatti o persone.
Luca era miope e Pietro no.
Questa era l'unica differenza fisica tra loro...oddio magari qualche neo poteva essere posizionato in altro modo o qualche pelo delle spalle o del torace o del naso.Ma questi particolari non li aveva notati nessuno, per ora e neppure loro si erano mai ispezionati, gli sembrava che potesse andare benissimo così.
Luca sente l'aria tiepida uscendo, e con il sole l'umore gli  sale e così entra nel box, spolvera la sua Honda nera 1000 di cilindrata e parte.Wroooooooooommmmmmmmmmmmmmmmmm.
Fa una curva e poi un bel rettilineo, ma ad un tratto gli attraversa la strada  un cane che spaventato dal rumore del motore della moto si ferma, di colpo.
Caaaa..zo pensa Luca! Non vuole assolutamente investirlo ma non vuole neppure cadere o schiantarsi contro la macchina che stava arrivando dall'altra parte..così istintivamente suona il clacson ma non cambia nulla, il cane è come paralizzato.In un attimo Luca è per terra, cadendo prende un bel colpo alla testa e sviene.
A casa nello stesso momento Pietro si sveglia di colpo!"ma cosa mi sta succedendo? mi sembra di aver sognato...ma no non mi ricordo...eppure....mi sembrava che...ma come starà Luca?" Pietro rimane qualche istante a guardare il soffitto e poi si dice che è stato solo un brutto sogno con un brutto risveglio, e si gira dall'altra parte.
Luca per terra aveva già un pò di persone addosso che volevano chiamare l'ambulanza, che volevano spostarlo, che lo chiamavano nel tentativo di svegliarlo, insomma quel povero ragazzo era inconsapevolmente in balia di persone sconosciute che volevano aiutarlo, ma stavano facendo come spesso in questi casi succede, solo un gran casino.
Ad un tratto arrivo' una signora e in un solo istante buttò dell'acqua in faccia a Luca, "proviamo a fare così, io l'ho sempre fatto con mio figlio quando non si voleva alzare alla mattina!"
Tutti rimasero senza parole e terrorizzati per un attimo, poi guardarono la signora e stavano per inondarla di insulti quando ecco che Luca riapre gli occhi dicendo "cazzo adesso chi ci vede più"!
Luca deve togliersi oltre al casko anche le lenti a contatto perchè con l'acqua negli occhi, le lenti a contatto
dovevano essere immediatamente rimosse.
"Senta signore" rivolgendosi alla prima persona che aveva davanti e del quale intravedeva la sagoma " Io ora metto la moto qui al sicuro e lei gentilmente mi dà un passaggio al lavoro? Sa sono già in ritardo"
"Ma lei ha battuto la testa deve fare un controllo" gli dicevano tutti quelli che l'avevano assistito fino a 5 minuti prima, "Ma no ma no non vi preoccupate..sto benissimo, sono lucido..e il casko senno' a che serve secondo voi?"
Finalmente la gente comincia ad andarsene, borbottando, e Luca riesce a strappare il passaggio.
Entra in negozio camminando con un passo lentissimo, cercando di non urtare oggetti piccoli che non avrebbe mai visto; e questa insicurezza lo fa sentire improvvisamente fragile come non gli era mai successo e anche il suo sguardo era diverso.Salutava le persone evitando di cercare i loro volti per identificarli.
Doveva assolutamente fingere, trasformarsi in un perfetto vedente...suo fratello Pietro. Non era per niente semplice anzi già sentiva che tutto si stava complicando.
"Non ce la farò mai, mi faranno delle domande, o mamma mia cosa dico, che scusa mi invento? cosa posso fargli credere? non posso mica dire "ragazzi oggi non ci vedo, ho un calo della vista, ma vedrete che domani sarò quello di sempre."
I dipendenti del negozio cominciarono a parlottare tra loro "ma cos'ha oggi il capo?non ti sembra strano ma strano forte! è impedito nei movimenti , guarda come sta lì sulla scrivania, fermo".
"Cavolo nooo!" Luca è agitatissimo.."devo andare in bagno, so che mi devo alzare e andare da quella parte, ma porca vacca zozza proprio oggi mi scappa la cacca".
Va in bagno cercando di camminare con scioltezza, entra non distingue il water dal bidè e si libera evaquando come mai nella sua vita.Sbaglia e riempie il bidè di quella roba, avverte di aver fatto un errore, si agita tantissimo e apre l'acqua cercando di rimediare il disastro, ma  tutto peggiora e tracima merda in tutto il bagno.
Disperato si riveste esce dal bagno con la fronte ghiacciata, chiama un ragazzo e gli dice "guarda che un cliente è entrato nel nostro bagno e ha fatto un disastro, non si può entrare dalla puzza".
Luca capisce che la situazione è insostenibile e con la scusa di avere uno strano e improvviso problema agli occhi si defila dal negozio.
Tutti i suoi collaboratori sono senza parole ma poi ne dicono tante, nel negozio Luca ha lasciato un clima di assoluta confusione, tutti che fanno ipotesi, illazioni; a tutti vengono in mente le cose più incredibili eppure nessuno pensa che Luca sia quello che è.
Entra in casa e si siede sulla sua poltrona e sbuffando dice a se stesso che "basta non si può più andare avanti così, io sono Luca e Pietro è Pietro".
 Si ricorda del cartone "La carica dei 101" e pensa che quei cagnolini sembravano tutti uguali ma erano tutti diversi tra loro, e felici di esserlo davanti al mondo.






mercoledì 8 febbraio 2012

E così vorresti fare lo scrittore?



Se non ti esplode dentro

a dispetto di tutto,

non farlo.

a meno che non ti venga dritto dal cuore e dalla mente e dalla bocca

e dalle viscere,

non farlo.

se devi startene seduto per ore

a fissare lo schermo del computer

o curvo sulla

macchina da scrivere

alla ricerca delle parole,

non farlo.

se lo fai solo per soldi o per

fama,

non farlo.

se lo fai perché vuoi

delle donne nel letto,

non farlo.

se devi startene lì a

scrivere e riscrivere,

non farlo.

se è già una fatica il solo pensiero di farlo,

non farlo.

se stai cercando di scrivere come qualcun altro,

lascia perdere.

se devi aspettare che ti esca come un

ruggito,

allora aspetta pazientemente.

se non ti esce mai come un ruggito,

fai qualcos'altro.

se prima devi leggerlo a tua moglie

o alla tua ragazza o al tuo ragazzo

o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,

non sei pronto.

non essere come tanti scrittori,

non essere come tutte quelle migliaia di

persone che si definiscono scrittori,

non essere monotono o noioso e pretenzioso, non farti consumare dall'autocompiacimento.

le biblioteche del mondo hanno

sbadigliato

fino ad addormentarsi

per tipi come te.

non aggiungerti a loro.

non farlo.

a meno che non ti esca

dall'anima come un razzo,

a meno che lo star fermo

non ti porti alla follia o

al suicidio o all'omicidio,

non farlo.

a meno che il sole dentro di te stia

bruciandoti le viscere,

non farlo.

quando sarà veramente il momento,

e se sei predestinato,

si farà da sé e continuerà

finché tu morirai o morirà in te.

non c'è altro modo.

e non c'è mai stato.



Charles Bukowski, E così vorresti fare lo scrittore? (Guanda 2007)



sabato 4 febbraio 2012

Alla finestra. Riflessioni inopportune di un fottutissimo genio.

Era dagli anni cinquanta che non ne veniva giù così tanta. L'alito addensandosi sul vetro incrostato dal gelo spalma un velo di panna sul paesaggio lattato. Là fuori il mondo si è disfatto sotto una gigantesca colata di yogurt. I soliti tetti rossi, le dolci colline, di uno spoglio giallo verde in questa stagione ma fiorite come l'eden in primavera, languono ammutoliti nell'uniformità candida del nulla, sovrastati dal cielo nel medesimo grigio del fumo che fuoriesce dai camini.
La tosse mi scuote, questo mi ricorda che è il momento di accendermene una, mi cola una narice, tiro su col naso. Sono un grosso pupazzo di stracci, un orso ingobbito ricoperto dalla spessa pelliccia multicolore di lana e poliestere. E' successo che ieri notte il freddo ha fatto gelare i tubi e il riscaldamento è andato. Stamane svegliandomi ho trovato ghiaccio il succo di pera che tengo vicino al letto, questo significa che la temperatura è sotto lo zero e che la casa ora è un igloo, unica difesa dalla glaciazione eterna il vecchio termoventilatore recuperato nello stanzino degli orrori, e degli errori, che ronzando scatarra aria calda.
Degli uccelli neri volteggiano sopra l'abitato, sembrano a loro agio, scivolano nell'aria disegnando complicate indecifrabili figure, per un attimo si posano a gruppi densi, quando uno solo riparte l'intero stormo lo segue.
E' su uno di questi medesimi tetti che da bambino ho visto un uccello fare snowboard sopra il tappo di un barattolo. L'animale scivolava sulla neve lungo la pendenza, arrivato in fondo afferrava il tappo col becco, volava in cima, prendeva posizione e ricominciava da capo. Aveva l'aria di divertirsi parecchio. Uno spettacolo incredibile, magico, a cui nessuno ha mai creduto; rivederlo ora mi farebbe bene.
Mi sposto da una gamba all'altra, basta questo perché l'antico pavimento in cotto dipinto si lamenti. E' tutto graffiato, andrebbe sistemato; da quanto tempo non lo tingo? Vediamo, facciamo due conti: è stato tre mesi prima che Maria Pace se ne andasse portandosi via le piccole, questo fa oltre quattro anni. Il tempo lui sì che vola su ali di vento e non torna mai sui suoi passi.
Maledetta Maria Pace, sgualdrina disumana, mercoledì mi ha di nuovo minacciato, ridendo forte ha detto che se entro la settimana prossima non gli mando tutti gli arretrati lei alza la cornetta e parla con quel laido del suo avvocato, che va a fare quattro chiacchiere col giudice, sicché non potrò più vedere le bambine e qualcuno salirà le mie scale per sequestrarmi tutto ciò che possiedo. Quando ho risposto che non ho più niente, che mi sono già venduto tutto, che mi sono rimasti solo dei vecchi vestiti, lei ha replicato che allora si prenderanno quelli, e ha aggiunto “anche le mutande”. Che sono tutte sporche e bucate, sarà interessante guardare in faccia i partecipanti all'asta pubblica.
Vuole i soldi ma mica li ho, ho giusto quelli che servono per i biglietti per salire su a Milano a prendere le bambine e tornare, e me li sono fatti dare da mia madre che ha sbuffato e ha detto che a quarantanni dovrei sapermela cavare da solo. A parte che è un'emerita stronza, come darle torto? E dovrò prendere una stanza in affitto, a credito, che in casa fa troppo freddo per le mie tenere gioie.
E' stato un brutto anno, l'ultimo di una pessima sequenza. Ho perso il lavoro, c'è la crisi, in giro non c'è niente, solo da una settimana ho rimediato un mezzo part time. Vendere porta a porta bibbie illustrate è ancora più noioso che spacciare polizze assicurative, con il più bigotto e fissato fra gli spretati ex alcolisti poi è puro purgatorio. Tutto il giorno non fa che blaterare del Peccato e del Maligno, dice che così non sarò colto impreparato al sopraggiungere dell'Apocalisse imminente. Dice che manca davvero poco, che gli è proibito essere più preciso ma che il conto alla rovescia è già iniziato, che non so più quale angelo gli mormora giorno e notte il countdown all'orecchio. Lui è un eletto, io, per ora, un reietto.
Mi ha assunto per darmi una mano perché ora che ho smesso di bere e sono sulla via della redenzione, che ho mutato stile di vita e quasi tutte le domeniche vado a messa, lui si sente in dovere di sostenermi, che fra devoti ci si aiuta. Sarà per darmi una mano a non spendere, a morigerarmi e a non precipitare nella spirale dei consumi insulsi e peccatori che mi sgancia massimo 20 euro alla volta.
Tanti uccelli, tutti neri, ma dove sono finiti quelli di altro colore? Tutti emigrati? Comunque mai saputi i nomi dei volatili, intendo dire che certo conosco gazze, corvi, aquile e falchi, tordi e cinciallegre, e non scordiamoci del condor e del pellicano, ma per me sono sole parole, non so affatto a cosa corrispondano, non li distinguo uno dall'altro a parte i piccioni e i gabbiani, e forse, ammesso che il nome abbia un senso e non circolino altri pennuti con la medesima caratteristica, andandoci a sbattere la faccia potrei riconoscere un pettirosso. Mi intendo meglio di polli e tacchini, ma di quelli già denudati riposti in file ordinate nel banco frigo del supermercato, magari già tagliati in comode porzioni.
Il tarabuso, per esempio, che uccello sarebbe? Per me è solo una parola, ma sapere che ha le ali e le penne mi basta, a dire il vero è anche troppo. Eppure lo capisco, non sono mica stupido, ignorare a cosa corrisponda un determinato lemma equivale a non conoscerlo. E senza i termini appropriati come ritagliare le singole cose dal resto dell'universo? Come organizzare l'esperienza? E dopo come rammentarla e farci dei pensieri sopra? Come raccontarne agli altri? Ho letto una volta che l'esquimese usa centinaia di diverse parole solo per indicare le varie sfumature del bianco e i numerosi tipi di neve e di ghiaccio. Quando il cacciatore torna al suo amato igloo, alla fine di un'intensa giornata di lavoro, e la moglie gli chiede “caro dove sei stato oggi?” non può certo cavarsela rispondendo semplicemente “non lo so ma era tutto bianco”.
Un flebile bit mi scivola nell'orecchio, proviene dal mio portatile, segnala un nuovo messaggio. Trascinando il duplice strato di coperte caracollo fino alla scrivania improvvisata ottenuta sovrapponendo due pallets, accomodo i glutei recalcitranti su di una cassetta di plastica, sulla quale ho appoggiato un vecchio cuscino da seggiola altrimenti orfano di ogni funzione.
E' una mail di SenzaLogica, mi esprime la sua solidarietà, si dice scandalizzato da quello che sta accadendo, dice che se me ne vado io va via anche lui. Con poche battute sulla tastiera lo ringrazio e lo saluto. Hasta la vista companero.
Sono quasi tre anni oramai che pubblico poesie d'amore e brevi pezzi di prosa filosofica sul web ma non mi sono mai trovato in un casino del genere. Magari avete letto qualcosa di mio, mi firmo Il Versificatore Mascherato, ma pure Rutto Cortese, Angelo Ribelle, ilfigliodellemuse e, per la verità, anche in tantissimi altri modi. Mi piace intingere i pensieri nel fondo del cuore, estrarli e intesserli in purissimi versi d'amore. Preferisco il metro libero, in particolare il verso libero, chi se ne intende sa che non sono la stessa cosa, ma non disdegno neppure le forme popolari come la frottola e lo strambotto, o vetuste come la barbara saffica, ma quando ho voglia di fare sul serio lascio che le dita danzino sulla tastiera al lirico ritmo di sonetti e madrigali.
E' tanto assurdo che neppure so da dove cominciare. E' accaduto che alcuni giorni fa ho letto la prima parte del nuovo poema di CuorPoet@ ambientato nel secondo conflitto mondiale. Una vicenda commovente che mi ha fatto quasi piangere; una bambina ebrea salva la famiglia che la ospita e protegge offrendosi spontaneamente ai fascisti. Una storia incantevole ve lo giuro, scritta in modo divino in versi torniti e brillanti (ma non raffinati come i miei). Non è un caso se l'opera ha vinto il primo premio del concorso Poesia di Pace e Bontà a Marostica ed è stato pubblicata su carta, come con scarsa eleganza postilla l'autore. Ma non voglio in alcun modo diminuire CuorPoet@, per me è un vero mito.
Ieri ho letto la seconda parte, quella dove la bambina esce dal suo nascondiglio sotto la catasta di legna, e lo giuro mi sono commosso, in realtà per niente, ma sarebbe certo successo se le traversie della vita non mi avessero indurito il muscolo cardiaco. Ad una sfilza di commenti sbrodolanti entusiasmo e meraviglia seguiva quello de il Fosco, un ottuagenario invidioso a cui brucia perennemente il culo, che sosteneva che il poema intero si basa su di una menzogna, poiché è scientifico che i fascisti mai fecero retate di ebrei prima del 43, e che in seguito quando avvenne la colpa era comunque dei nazisti che li spingevano da dietro.
Dico la verità di queste cose non mi interesso, il Fosco certo era presente di persona, nella sua bella divisa da fascista cucita addosso di misura, immagino sappia di cosa parla, ma il punto è chi se ne frega dell'aderenza storica, forse che ci poniamo il problema di sapere cosa respirasse Astolfo sulla luna?
Subito sotto il commento di quella tripla merda de Il Cavaliere Inesistente, un pusillanime beghino che crede che la Madonna di Medjugorje lo accarezzi nel sonno tutte le notti, che sosteneva che se i fatti storici sono inesatti la poesia non vale nulla e non merita alcuna lode. Ma siamo pazzi? Da quando la poesia è succube della realtà? Non è forse sogno e meraviglia? Magico fagiolo scagliato in cielo come arcobaleno multicolore dalle ali di cera?
Quindi il Fosco e Il Cavaliere Inesistente si proponevano di scrivere un poema epico sulla seconda guerra che ristabilisse i fatti storici, poi hanno preso a litigare fra loro su chi dei due avesse avuto per primo l'idea, tanto che CuorPoet@, sebbene ospite sempre squisito, ha pure perso la tramontana e li ha mandati al diavolo.
Non l'avessi mai fatto. Ho lasciato un commento di pura ammirazione al vate CuorPoet@. Ispirato dalla diatriba dei due merdosi ho fatto un poco lo spiritoso, ho scritto che i versi sono di una bellezza irraggiungibile, tanto che roso dall'invidia non posso accettare che non siano miei, ho così deciso di averli composti io stesso, e mi sono pure convinto che lui, Cuorpoet@, altri non è che una parte di me, della mia anima che da me si è distaccata e invito a tornare presto a casa.
Si capisce che è uno scherzo? Si è scatenato l'inferno, CuorPoet@ mi ha ricoperto d'insulti, mi ha definito ridicolo verseggiatore da scuola materna, mediocre e insulso menestrello, patetico giullare. Ha scritto di non provarci nemmeno a sostenere che il poema è opera mia, tanto è registrato alla Siae, ha vinto il primo premio ed è già stato pubblicato, ho controllato, solo in estratto da una casa editrice a pagamento, e ha concluso dandomi del ladro e del plagiario infame.
Stamattina leggendo sono rimasto basito, e non bastasse Rimetta Allegra ha commentato sotto che tempo fa avendo letto alcuni miei sonetti, da lei molto apprezzati, gli erano parsi famigliari, non volendo pensare male aveva lasciato correre, ma ora, che una persona seria e degna di fede come CuorPoet@ dice quel che dice, non ha più dubbi, quei sonetti è certa di averli scritti lei anni fa. Che assurda commedia, Beckett che ubriaco balla nudo sul tavolo, Kafka che si fa tatuare in fronte Joe Condor per essere accettato e applaudito sul web. E che cazzo! Ci sono o ci fanno? Ho risposto di getto, quindici righe di purissimi insulti in rima baciata, uno dei miei pezzi migliori di sempre.

-Ciao Piero ti chiamo per ricordarti che domani devi essere alle dieci in punto sotto casa mia.
-Ricordarmi? No guarda ti sbagli, se tu che devi portarmi le piccole in stazione.
-Parlo in rumeno forse o all'improvviso non comprendi più l'italiano? Domani tra le dieci e le dieci e cinque mi suoni al citofono, che alle dieci e un quarto mi arriva il taxi.
-Di che taxi parli? Non c'è nessun taxi. Pax non eravamo mica d'accordo così.
-Il taxi non è per te ma per me e Alessio, andiamo in beauty farm al lago per il week end. E ricordati di quello che ora dico: non mi nominare neppure, ma se proprio è necessario per te sono solo e sempre Maria Pace.
-D'accordo Maria Pace, non posso venire sotto casa a prendere le piccole perché il treno del ritorno parte solo dopo un quarto d'ora il mio arrivo, ci vuol già tutta così, lo perderei di certo.
-Vuol dire che prendi quello dopo.
-Maria Pace non c'è quello dopo.
-Non alzare la voce con me.
-E tu non pretendere cose impossibili, dobbiamo attenerci agli accordi che hanno preso i nostri avvocati.
-No. Tu vieni sotto casa, suoni, ti apro, ti collochi davanti alla porta dell'ascensore, solo allora mando giù le ragazze. Non cercare di vedermi, neanche di parlarmi al citofono. Porco.

Perché sono così debole? Resisto giusto il tempo necessario a dire no con voce ferma ed espressione granitica prima di rovinare e acconsentire con un sorriso appena sbieco. Essere arrendevoli è come avere sempre torto. La mia è strisciante mancanza di fiducia in me stesso, auto sabotaggio, inconscio desiderio di non abbandonare il regno degli invertebrati, drizzarmi e uscire dalla mota amniotica. Così da non compiere il destino del fottutissimo genio che ho dentro. E Maria Pace che mi conosce così bene di me fa quello che vuole. Anche per questo ho ancora un debole per lei.
Va in vacanza con l'altro, mi pare si chiami Silvio, quello con l'hammer giallo limone che non puoi fare a meno di notare, con le scarpe a punta e i vestiti firmati che non gli si abbottonano neppure.
Quanti fidanzati ha già cambiato Maria Pace, tutti uguali, almeno per quanto riguarda il conto in banca e l'arroganza. Un paio di avvocati, un industriale del mobile, un farmacista, non so quanti dentisti, un chirurgo estetico, almeno un notaio. Alla timida Maria Pace gli uomini durano meno dei tampax.

Squilla il citofono, da dietro i vetri intravedo le teste di Leo e Renzo, e indovino quelle del Conte e del suo rottweiler gigante. Non è cosa, mi scosto dalla finestra per non essere visto. Leo insiste, deve essere rimasto incollato al campanello, e si diverte pure, dopo gli iniziali squilli prolungati ora si esibisce in una scoppiettante marcetta demente. Ed ecco la voce del Conte che grida mio nome accompagnato dall'ululare di Bruto. E' inutile, sanno che sono in casa, non la smetteranno mai, attireranno l'attenzione di tutta la strada. Schiudo appena la finestra, giusto uno spiraglio per farmi udire.
-Andatevene a cagare.
-Apri la porta che la facciamo nel tuo cesso.
-Scendi che andiamo a divertirci.
-Dai che paga il Conte.
-Andatevene. Ho da fare. Sono malato, non posso prendere freddo.
-Dai che ti scaldi, stasera si va a tutta birra e whisky.
Non rispondo neppure, prima di richiudere assaporo il frizzare dell'aria e l'odore della neve, come di mondo appena creato, leggero, solo luminoso futuro, niente alle spalle. Li lascio lì, in piedi nella neve alta ad abbaiare al cielo.

Non odio il genere umano, neppure sono un solitario, sono loro ad essere dei soggetti impossibili. Si ubriacano, alzano la voce, e finisce a pugni. Se ne fregano loro, sono degli impuniti, possono permettersi di fare tutto quello che vogliono. Non hanno più niente da perdere. Senza contare che per paura di ulteriori problemi le vittime non li denunciano nemmeno, e i padroni dei locali preferiscono lasciar correre, sempre per limitare i danni, e la polizia non sa che fare, conosce il copione e lo trova noioso, per quanto sia incoerente preferisce girarsi dall'altra parte e lasciare andare.
Ma io no, io non posso permettermelo, il giudice è stato chiarissimo, alla prossima che combino fa in modo di farmi togliere le bambine. “Cammina ben dritto” mi ha detto, “non voltarti mai, né a destra né a sinistra. E se senti dentro di te quella vocina che ti suggerisce che sarebbe divertente scartare di lato tu non darle ascolto, o io ti fotto”.
Poi bere non posso. Fare tardi non posso. Domani mi devo tirare su presto per andare a Milano, e se il capo scopre che ho bevuto anche solo un bicchierino perdo il lavoro, e se accade perdo pure i miei tesorini.
Non se ne parla. Poi sono tre pazzi. Quattro con il cane. La settimana scorsa hanno infastidito tutte le ragazze al bar del bowling, quando il vecchio che sta alla cassa gli ha chiesto di smetterla gli hanno aizzato contro Bruto che non se le fatto ripetere due volte. Quindi hanno rovesciato e rotto tutto quello che hanno potuto. Poi sono scappati con la macchina del Conte alla balera della Nico e il vecchio è andato in ospedale in ambulanza.
Non esiste, l'ultima volta mi sono svegliato nel cuore della notte nel letto di una puttana, la bocca che sapeva di merda, il Cobra in mutande seduto sul tappeto che sibilava di sé in terza persona con una battona centenaria, e il Conte chiuso nel cesso con altre due professioniste che cercavano di abbattere la porta per poterlo uccidere.
Io ho la mia vita a cui badare, migliaia di cose da sistemare. Per esempio devo buttare giù un post col nickname Angelo Ribelle, il mio frammento d'anima più rompi coglioni, e attaccare CuorPoet@, insinuare che il suo poema è un miserabile plagio, che lo ha realizzato col copia e incolla con i pezzi rubati in giro per il web. E che è insulso, niente più che una favoletta per bambini. E devo fare piangere amaro Rimetta Allegra, quando avrò finito con lei le sarà necessario un nuovo nick.
E devo chiamare mia madre per chiederle se domani sera io e le piccole possiamo mangiare da lei, e pure i giorni seguenti, così non faccio la spesa e non dilapido in pizzeria.
E devo organizzarmi per tirare su un po' di grana, giusto per ridurre l'ammontare degli arretrati con Maria Pace e tenerla buona.
E devo trovarmi un altro lavoro, una cosa qualsiasi, anche di poche ore, per integrare la miseria che guadagno con la vendita delle bibbie. Non sarà facile, la laurea la considero già buttata nel cesso, sono disposto a fare qualunque cosa, ma dovrò combattere contro eserciti silenziosi composti da milioni di minuscoli cinesi insonni, senza festività da celebrare o parenti a cui badare. Ma la spunterò, lo faccio per le mie bambine, la causa è giusta, sono in missione per conto di Dio, niente mi può fermare.

Tutto per colpa di Maria Pace, mentre stavamo insieme avevo ogni cosa, l'amore, le figlie, una vera casa, il lavoro. Zoccola infame. Pensare che quando l'ho conosciuta pareva un cucciolo spaurito, tenero, bisognoso di cure. Biondina, gli occhi chiari, il sorriso esangue; alta, smunta e senza tette che pareva una pertica. Ora ha i capelli neri, lisci e lucenti, una quinta maggiorata di reggiseno e labbra al silicone che paiono voler ghermire il mondo, gambe lunghe tornite dalla cyclette poste su vertiginosi tacchi. Dio come la desidero.
Com'è che è finita così? Ci amavamo. Ne sono certo, almeno all'inizio anche Maria Pace mi voleva bene. Poi l'amore si è sciolto in rancore ed è montato in vero e proprio odio. E' stato allora che ho cominciato a bere come nel più scontato dei romanzi, lei m'insultava, io ero pazzo di gelosia. La picchiavo? Lei dice di sì ma non mi pare, forse una sberla ogni tanto.
Una sera sono tornato ubriaco, ho trovato l'uscio chiuso col paletto, ho suonato, niente, ho urlato e tirato pugni e calci. Niente. Allora ho murato l'entrata con il nastro adesivo, ho ripreso a picchiare sul campanello, volevo vedere la faccia che Maria Pace avrebbe fatto scoprendo che non ero io ad essere chiuso fuori ma era lei ad essere in prigione. Niente, non ha aperto. Allora ho dato fuoco a tutto quanto ed è finita che sono arrivati i pompieri a braccetto con la polizia. E in quella occasione che è finita tra noi, che ho perso Maria Pace per sempre. Lei non mi ha concesso altre possibilità.

-Piero non farci bere da soli, abbiamo bisogno di te.
-Non fare il prezioso.
-Dai che al bancone dell'osteria stasera c'è la Gina che ci fa annusare un po' di fica.
“Andiamo a divertirci”, dicono “droghiamoci forte, 'tanto il mondo sta andando comunque a male. Non senti questo odore? E' quello della fine”.
Ascolto la mia voce dire “d'accordo, solo un attimo e scendo”.
Do un'ultima occhiata ai tetti, alle colline, agli uccelli che palpitano tra il grigio del cielo e il bianco del mondo. Li respiro, me ne riempio i polmoni. Chiudo la finestra consapevole che il candore si discioglierà presto in rivoli di liquido scuro.


giovedì 2 febbraio 2012

perle ai porci

Uno dei protagonisti di questa storia, storia di uomini e di donne, è una grossa somma di denaro, proprio come una grossa quantità di miele potrebbe essere, correttamente, uno dei protagonisti di una storia di api.
La somma era di 87.472.033,61 dollari il 1° giugno 1964, tanto per dire un giorno. Quello fu il giorno in cui la somma cadde sotto gli occhi dolci di un giovane azzeccagarbugli che si chiamava Norman Mushari. Il reddito prodotto da quell'interessante capitale era di 3.500.000 dollari l'anno, quasi 10.000 dollari al giorno, domeniche incluse.
Questa somma era diventata il nocciolo di una fondazione filantropica e culturale nel 1947, quando Norman Mushari aveva appena sei anni. Prima di allora essa costituiva, in ordine di grandezza, il quattordicesimo patrimonio familiare d'America, il patrimonio della famiglia Rosewater. Lo avevano trasformato in fondazione per impedire agli esattori delle imposte e ad altri predatori che non si chiamavano Rosewater di mettervi le mani sopra. E quel barocco capolavoro di cavilli che era lo statuto della Fondazione Rosewater dichiarava, in effetti, che la presidenza della Fondazione era ereditaria come la Corona britannica. Doveva essere tramandata, in saecula saeculorum, agli eredi più diretti e più anziani del creatore della Fondazione, il senatore Lister Ames Rosewater dell'Indiana.
I fratelli del presidente sarebbero diventati funzionari della Fondazione al compimento del ventunesimo anno. Tutti i funzionari erano funzionari a vita, purché non venissero legalmente riconosciuti incapaci di intendere e di volere. Erano liberi di compensarsi per i servigi resi con tutta la munificenza che volevano, ma solo attingendo al reddito della Fondazione.

*R*

mercoledì 1 febbraio 2012

Buona Novella?

Io volevo solo una vita tranquilla.
Della mia primissima infanzia ricordo solo il profumo del senodi mia madre e il gusto dolciastro del suo latte.
Poi verso i tre anni i miei ricordi si spostano ad un letto, in una camera spoglia e con una sola, piccola, finestra.
Non sapevo veramente parlare, le uniche cose che mi erano state insegnate erano le lodi.
Vedevo sempre e solo la stessa unica persona, tutti i giorni, e quella persona mi insegnava le preghiere e mi nutriva con la stessa unica pietanza, tutti i giorni.
Se volevo scendere dal letto distendevo le braccia e quest'essere mi prendeva in braccio. Era molto forte, lui, e mi portava verso la finestra.
Una volta mi disse che sarei stata la regina di tutto quello che potevo vedere se avessi voluto.

Poi improvvisamente, un giorno, senza motivo, mi rifiutai di pregare e mangiare.
Scesi dal letto e per la prima volta in dodici anni di vita toccai il suolo. Era freddo.
Era una sensazione bellissima poter camminare con le proprie gambe su una superfce lievemente sporca e fresca. Mi sentii libera.
L'uomo fece per sollevarmi da terra ma io lo respinsi, mi dissi che il primo passo per sentirsi tranquilli era la libertà e lui doveva andarsene. Quando glielo dissi pensavo di ferirlo, e quella era la mia intenzione, ma lui con stoicismo se ne andò.

Quella notte ebbi un caldo insopportabile, sembrava stessi bruciando. Mi svegliai sudata, il letto era sporco di sangue, che stessi morendo?
Corsi alla porta con gli occhi offuscati dalle lacrime, picchiai forte i pugni chiedendo aiuto e tremando, provai a chiamare l'uomo che mi aveva sempre fatto compagnia ma solo allora mi accorsi di non sapere il suo nome.
La porta fu aperta da un vecchio che, quando gli raccontai tutto, mi diede una sberla e mi strattonò in una sala immensa.
Lì fui pettinata e truccata.

Rimasi lì sola, a chiedermi perché fossi stata disprezzata, forse stavo morendo e al posto di aiutarmi mi avevano truccata, che mi stessero preparando per la bara?
Invece, la mattina seguente sempre in quella sala, mi ritrovai davanti a decine di uomini.
Era la prima volta che vedevo così tante persone e, i loro occhi erano puntati su di me, sentii gli zigomi arrossire.
Avevano tutti la carnagione molto più scura di me, il viso invecchiato prematuramente da una vita di sacrifici e le mani callose per il troppo lavoro.
Mi riempivano di complimenti, più o meno dolci, a volte volgari. Solo un uomo tremendamente vecchio stava in disparte e silenzioso. Sentii mugugnare qualcosa a proposito di un bastone e dei fiori ma non capii molto. D'altronde per dodici, lunghi, anni ero stata tagliata fuori dal mondo. Neanche sapevo come fossero fatti veramente gli uomini e a cosa servissero i bastoni.
Poi l'uomo in disparte, mostro il suo bastone, era coperto di fiori.
Tutti lo guardarono con invidia mentre lui si avvicinò a me prendendomi per la mano e scortandomi fuori.
Mi chiese se fossi la figlia di Anna e aggiunse che le assomigliavo tanto.
Io non sapevo se credergli, non ricordavo mia madre, era da quando avevo tre anni che non la vedevo.
Mi portò a casa sua e mi presentò quelli che sarebbero stati i miei fratelli.
Quattro uomini, che ormai stavano uscendo di casa perché sposati e due sorelle, più giovani di loro ma comunque molto più grandi di me.
Le sorelle mi iniziarono ai lavori di casa mentre il vecchio fu costretto ad allontanarsi per lavoro.
Passaì da una prigione all'altra senza assaporare la libertà. Mi sarebbe bastato corre per i prati come facevano i bambini dietro casa nostra ma mi era stato proibito dalle mie sorelle perché: poco dignitoso per una donna.

Quando il vecchio tornò a casa, io mi sentivo estremamente irascibile. Qualsiasi cosa mangiassi mi faceva vomitare e m'infastidiva la puzza di legno che permeava la casa.
Lui mi fece domande su neonati e uomini ma io non capii e non seppi rispondere.
Mi disse di prepararmi per un viaggio e mentre partivamo vidi ancora gli occhi di tutti gli uomini guardarmi come se fossi una criminale.
Dopo pochi mesi iniziai a capire cosa intendeva chiedermi l'uomo.
Dopo una grande fatica e un dolore immenso partorii un piccolo neonato. La mia prima preoccupazione fu “ Mi somiglia?” la seconda, dopo spiegazioni del mio papà adottivo su rapporti sessuali e procreazione, fu “ come è possibile?”.
Lui fece finta di non capire e mi disse che era ora di tornare a casa.

Il fatto di avere un figlio, e quindi stare ancora più tempo segregata a casa iniziava a non pesarmi più. Quando ero nervosa stringevo forte al petto il mio bambino e stavo meglio. Lo chiamavo il mio Principino, il mio Dono o semplicemente Gioia.
Non ero libera ma di sicuro iniziavo a sentirmi tranquilla.

Poi un giorno venni avvisata che mio figlio sarebbe stato giustiziato perchè si dichiaro Re. Il vecchio ormai era morto da tempo e le mie sorelle si erano sposate e uscite di casa
Il primo pensiero che ebbi fu “ finalmente libera, finalmente tranquilla”.
Ma quando vidi quello che gli stavano facendo tutto crollò.
Non posso e non voglio essere libera, lui non è il figlio di Dio è mio, io l'ho tenuto in pancia senza capire perché e io l'ho cresciuto, che nessuno me lo tolga.
Ma ormai era tardi.
Ero sì libera ma per quanto riguarda la tranquillità ne ero ben lontanta...