"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

mercoledì 27 luglio 2011

Le principesse di carta di riso non si perdono nel bosco.


Cosa ci sto facendo qua?! Io vecchio orso grasso al tavolo di un caffè arabo, bhe finto arabo, con una ninfetta giapponese bella come una modella, mentre un pezzo di Manu Chao occupa lo sfondo sonoro. Potrebbe essere mia figlia. Ma non lo è, e non vale la pena di aspettare che cresca.
Il Giappone è cambiato, ma è inutile dirlo, il mondo tutto è cambiato. Prima ogni paese aveva le sue tradizioni. E ciò che per uno era normale, pensa solo all’ideale di bellezza, per un altro era eccentrico. Brutto. Il mondo un tempo non era meno vario ma ognuno aveva la sua tradizione e l'altro, il differente, era sempre altrove. Erano faccende esotiche. Non intaccavano le certezze. L’ambiente nel quale ci si muoveva era sempre omogeneo. Ora no, ora tutto è confuso. E ovunque chiunque può scegliersi la tradizione che preferisce. Le può mischiare, può assemblare la propria. E’ libertà questa, capisci!? A me piace molto più così. E a te?
Bhe dipende.
Indossi uno spencer di gabardine nero di cotone, una t-shirt bianca di seta senza collo con il davantino gessato e un buffo papillon viola. E una gonna nera di shantung a vita alta, a piccole pieghe, che scopre le bianche gambette che non lasci mai ferme, neppure ora, sotto il tavolo. Con l’occhio lecco le tue ginocchia, le immagino chele di madreperla.
Io sono l’anti geisha, enunci e a te pare molto importante, io mi smarrisco nel broncio da lolita che increspa le tue labbra.
Scusa quanti anni hai?
Diciotto l’anno prossimo.
Interessante quella cosa sulle tradizioni e la globalizzazione.
Un anti geisha, capisci?!
Sì, cioè, guarda, non credo di avere le idee chiare.
Significa progresso contro tradizione. Significa me.
Accendi una marlboro con il voluminoso accendino portachiavi. Fatto per stupire. E’ la replica perfetta di una palla da baseball, in vero cuoio e cuciture. Mi compiaccio di notare che è più grande della tua mano.
La mamma non voleva che venissi. Non si fida di te.
Per una volta ridi di gusto e riveli piccoli denti lucidi come perle bagnate.
Tua madre ha ragione, mi sento dire.
Aspiri con voluttà dal tubicino di tabacco, con gesti studiati fai precipitare poco a poco la cenere nel cuore del posacenere di ottone.
Sei bella. I capelli neri, lucenti, ti scivolano lisci sulle spalle. Tu hai cura che un ciuffo che pare una lama attraversi sempre sbieco il viso, che è un ovale allungato nelle cui carni sono plasmate labbra delicate eppure gonfie e sdegnose. Il naso termina tondo con due minuscoli fori per narici, gli occhi sono neri e ora si avventurano nei miei.
Essermi fatto convincere a partecipare alla tua festa di onomastico è stata una cazzata. Sono l’unico ospite adulto e interamente vestito. Un party notturno a bordo piscina, la tua, una quantità di stronzetti e stronzette che vociano e spruzzano. Neanche i tuoi genitori hanno avuto la forza di presenziare e ora sono in giro chissà dove. Mi sento goffo come un pinguino fuori dall’acqua, prendo in considerazione l’ipotesi di togliermi almeno la cravatta, ma poi rinuncio, non ve la voglio dare vinta.
Solo, steso sulla sdraio con la birra in mano a contare le stelle e le stalle con un sapore di merda in bocca. Da qualche parte ho sbagliato e ora sono vecchio e sfigato. Grasso e senza capelli.
Ciao.
Abbasso lo sguardo e ci sei tu, incantevole e lucente come una dea notturna. Nel medesimo istante che sorgi l’esistenza ammutolisce e attacca il carrillon, il xilofono, la voce dolce e femminile del Lurido in Sunday Morning.
Sei splendida, pura luminosità lunare. La solita espressione corrucciata, le mani su fianchi, la testa lievemente inclinata, un ciuffo sparpagliato sul naso e sulle labbra, fasciata in un fantastico costume intero, bianco come il latte e la spuma del mare.
Che fai, non ti spogli?
Troppo bella, impossibile. Il seno pieno si strofina morbidamente contro la lycra. Ti facevo più piatta.
Non ho portato il costume, mi spiace.
Pazienza. Ti presto uno di mio padre.
Mi andrà certo stretto. Non abbiamo la stessa taglia.
Si capisce, lui è nipponico cento per cento, basso e scarno, non come la mamma che è alta e milanese, affilata come una cotoletta.
Ho quello di mio fratello.
No guarda è lo stesso. Mi diverto anche così.
In realtà faccio già fatica ad essere presentabile vestito figuriamoci nudo. Carne vizza che pendola e grasso sparso qua e là. Tu così giovane e soda. I tuoi amici così giovani e sodi.
Contento te. Fa come vuoi.
Fuggi via veloce, scorgo appena le piatte chiappette rotolare via, e già ti getti su un coetaneo biondo e palestrato. Finite entrambi in acqua, lottate, v’avvinghiate, strepitate. Riesci a toglierli il costume, lui ti scopre i seni e tenta di succhiarli, sghignazzate. Quando siete stanchi di spruzzi e scherzi risalite dal lato opposto, vi appartate nel buio. L’avrei voluto fare io.
Si avvicinano due pupette brufolose con l’aria svenata, i loro compagni le annoiano, parlano sempre delle stesse cose, sono dei bambini. Io rispondo a monosillabi, quando si decidono ad allontanarsi scolo il bicchiere e me ne vado, sguscio via come un ladro lebbroso nella notte, senza neanche salutarti.

Non è che ti penso, sarebbe assurdo, quindi io non ti penso. E’ trascorsa una settimana dalla festa e ho fatto l’amore con mia moglie cinque volte, così l'ho stupita, ho baciato innumerevoli volte i figli, ho concluso tre buoni contratti. Però ho quella specie di tarlo. Sto giusto decidendo di comprarmi una nuova auto che mi chiami, certo con quel tuo cellulare verde a forma di rana. Te lo giuro provo tenerezza e simpatia per quell'apparecchio, mi sembra così incantevole, sento di amarlo. Già.
Mezz’ora dopo ti cerco in una sala da tè del centro. Minuscoli tavoli rotondi occupati da vecchie galline da brodo pittate e ingioiellate, tanto per bene, così rassicuranti e borghesi mentre le loro dentiere azzannano, ma con garbo, la delicata pasticceria. Due a due, tre a volte, i barboncini spelacchiati in grembo, talvolta un marito paralizzato e ammutolito da ictus sulla sedia accanto.
Poi ti vedo, al tavolino in fondo a destra, dietro a una palma vizza e a una pila di scatole di cioccolatini ricoperte di polvere. Sei in piedi, mi saluti con le mani, fai segno di avvicinarmi, una meringa non sarebbe più bella.
Fai un inchino, mi porgi la sedia, riesci a sorridermi senza abbandonare l’aria torva e fatale. Porti un abito bustier di cotone e seta, bianco, dai profili rossi e stretto in vita da una cintura di vernice del medesimo colore, che termina con una gonna a ruota.
Mi racconti delle cose che fai a scuola, e di quanto sono stupidi e immaturi i compagni e insulse e invidiose le amiche. Accenni ad un certo Piero, il peggiore di tutti, un vero imbranato, rozzo e tremendo; io capisco che intendi il biondo che in piscina ti palpava le poppe.
Non vale neppure la pena di parlare di loro. Carino qui, non trovi? Ci vengo spesso per ricordarmi come diventerò. Mi fa provare una certa urgenza, mi mette fretta.
Che cazzo ci sono venuto a fare penso ma dico invece hai ragione è un posto inusuale, anche a me mette una gran voglia di vivere. Come dopo un funerale.
Allora accade, con il dorso della mano sfiori la mia, continui a lungo, lenta e assorta. Io non rinuncio ad un’erezione. Non potranno arrestarmi per questo.
Il cameriere, anche lui anziano, in papillon e giacchetta bianca ingiallita, ci coglie mentre ormai intrecciamo le dita sul tavolo. Quando si allontana con l’ordinazione tu maliziosa dici che certo ci ha scambiato per padre e figlia.
Non credo, non ci assomigliamo.
Allora, forse, ora penserà che sei un barbablù.
Non può semplicemente pensare che siamo buoni amici? Che poi è la verità. Faccio io stizzito.
La mano abbandona la mia, corre a infilare una rosa rossa fra i capelli, gli occhi brillano.
Sono fortunata ad avere un amicone come te. Non tutte alla mia età lo possono dire. E’ come essere importanti. Speciali. Un gradino sopra.

Mi hai dato appuntamento in centro per le tre. Ora sono le quattro, ho perso ogni speranza, pure guardo in successione la brace del sigaro e la punta lucida dei miei mocassini senza risolvere ad andarmene.
Sei proprio uno preciso. Se ti si da un appuntamento alle tre tu ci sei.
Cerco di esserci dieci minuti prima.
Sei quadrato, coriaceo come un cammello. Iiihhiiii, produci quello che dovrebbe essere il verso dell’animale, dischiudi le labbra e mostri i denti.
Passeggiamo affiancati in silenzio, io mi trattengo dal cogliere la tua mano ma presto lo fai tu, così galleggio in estasi dimentico della città e dei suoi rumori.
Al ristorante ordini solo un doppio succo di carote e un insalata verde che torturi con la forchetta ma non mangi. Mi osservi con orrore sbranare una bistecca d'orso, quando comprendo il mio errore è ormai troppo tardi, tu incupita non dici più che una parola, no. No non ho fame, no non mi succede mai, no non l’ho mai sentito dire, no non mi piace, certo che no.
Usciamo dal ristorante, io con il ventre gonfio di gas non riesco a trattenere un piccolo rutto, a stento contrasto con successo una scoreggia, tu strazi il ciuffo con l’aria mortalmente infelice. Mi sento come un tirannosauro, ingombrante e inutile, provo lo stesso a chiederti perché sei pensierosa e triste. Tu parli veloce, dici cose incomprensibili, qualcosa sull’ottusità del mondo e le sue incongruenze. Cerco di consolarti con delle facezie che non fanno ridere. Ho di nuovo sbagliato, sono un vecchio film, fuori moda e già visto.
All'improvviso ti fermi, guardi nei miei occhi e mi domandi: lasceresti tua moglie per me?
Ma hai solo diciotto anni. Anzi, non hai diciotto anni.
Solo? Non è per questo che ti piaccio!?
Non so che dire, rimango muto. Cinque minuti dopo prendi a correre avanti, quando sei a venti metri ti volti, mi saluti con la mano, gli occhi lucidi, mi lanci un bacio e scappi via.
Rimango immobile al centro del marciapiedi con i passanti che mi sbattono contro, vuoto, nella pupilla ancora impressa l’immagine di te. Il viso a triangolo rovesciato, il blazer bianco in tela di cotone, l’abito corto di maglia con lo scollo a barca e fusciacca coordinata missoni, la tracolla di pelle decorata dal logo louis vuitton, le gambe dritte e magre rivestite dai collants velati e dècolletèes bianche. So che è finita, ancora prima di incominciare, in bocca il cattivo gusto di un occasione buttata.

Un mese dopo caracollo con la mia valigetta nera nel caldo della città, mi sento chiamare, il cuore si blocca, sei tornata.
Ciao come stai?
Bene grazie. E tu?
Di bianco vestita, t-shirt lacoste di cotone stampato con coulisse in vita, pantaloni con pinces, le dècolletèes di pelle che indossavi l’ultima volta.
Mi getti le braccia al collo e mi baci la guancia con labbra morbide e umide.
E’ tre giorni che ti seguo. Mi è sempre mancato il coraggio di farmi vedere.
Sei terribilmente noioso lo sai!? Fai sempre le stesse cose. Lo stesso bar, la medesima colazione a base di caffè, focaccina farcita e acqua con le bolle. I medesimi giornali dallo stesso edicolante che premuroso non si dimentica mai di inserire un porno. Ho intravisto anche qualcuna di quelle riviste di annunci per incontri a base di sesso. Volevo comprarne una copia, cercare il tuo avviso e rispondere. O metterne uno mio. Che ne dici di: giovane principessa dalla pelle di mandorla è pronta a spalancarsi ad inedite esperienze?
La camera già di per se è un imbarazzo. Minuscola conchiglia, in un angolo il letto a castello, i cuscini rosa e neri di hello kitty, due scrivanie ai lati della finestra, una parete interamente ricoperta dall'immagine di un bosco di bambù. Ninnoli ovunque e un profumo fresco di cosmetici alla frutta. Il tutto così virginale che solo a calpestare il pavimento mi pare di profanare ogni purezza. Già di sotto, al portone, mi sentivo un ladro, temevo di incontrare qualcuno. Ora ho paura che le amiche che ti hanno prestato la stanza tornino prima del dovuto.
Ti spogli piano, l'espressione seria, l'intimo di pizzo multicolore, poi il seno acerbo e duro, i capezzoli puntuti dritti verso il cielo della stanza, il ventre piatto, un filo di crine nero all'inguine, le ossa fini, le carni compatte racchiuse nella pelle opalina.
Ti accarezzo piano, ritto in piedi, io vestito di scuro sono il ragno gonfio che si ciuccia la mosca bianca. Sono il ratto su l'ostrica.
Mi prendi per mano, mi distendi sul tappeto, prendi a spogliarmi con delicatezza, come la mamma col suo bambino. Quando arrivi al sesso lo catturi con le piccole mani chiare, poi lo circondi con l'anello della tua bocca. Allora la stanza scompare, il pavimento diviene morbida radura nel cuore di una foresta di bambù.

Sono passate sei settimane e due giorni, non ti ho più né vista né sentita. I miei sms si sono persi nel vuoto elettronico che ci circonda tutti. Vivo giorno per giorno, impegnato a cambiare ogni mia abitudine, mangio colazioni diverse in posti sempre differenti, non compro giornali, nell'andare e tornare dall'ufficio vario percorso, osservo le facciate dei palazzi, i volti delle persone, certe volte addirittura mi fermo e mi siedo su di una panchina. Cerco di meritarmi il tuo amore.
E' tutto così assurdo, è una storia impossibile, mi vergogno per ogni parola che ti ho detto, per ogni gesto o pensiero. Non ho il coraggio di guardare in faccia mia moglie, e più di una volta sono stato sul punto di raccontarle tutto. Sono con le spalle al muro, non so cosa fare, tu sei solo una bambina, vorrei ma non riesco a fare a meno di te. Ti amo.

Ciao. Se spargi briciole per i passeri del parco o sei invecchiato o sei ringiovanito.
Il mio cuore rimbalza, mi stacco dalla panchina e mi volto, mi appari tu, madonnina orientale circonfusa con la luce di mezzodì e il verde degli alberi, dentro un prendisole in cotone azzurro con spalline sottili e fiocco, i capelli sciolti sulle spalle nude.
Vorrei chiederti dove sei stata per tutto questo tempo e sopratutto perché. Vorrei dire ti amo, che ogni istante penso a te, ma rimango duro in piena afasia.
Sono incinta.
Il mondo diviene vertigine, sembra rida maligno di me. Resto muto. Tu mi fissa seria. Sembri più adulta ora.
E' mio?
Un'ombra cala sul tuo viso, le labbra impercettibilmente passano dal capriccio al disprezzo.
Di chi se no?
Penso al ragazzotto biondo ma non dico nulla.
Non devi preoccuparti per me. Cappuccetto Rosso e le Principesse non si perdono mai nel bosco.
Ti serve qualcosa? Hai bisogno di soldi?
Ti volti e scappi di corsa, io fermo, inadeguato, vigliacco, resto a guardare mentre il cielo urlando mi precipita addosso.

Ti cerco al telefono, invio sms, scrivo lettere d'amore che poi nascondo nello schedario tra vecchie pratiche ormai ingiallite nell'inutilità. Giro per ore e ore intorno a casa tua sperando di incontrarti, ogni figura lontana è un sobbalzo del cuore. Ho persino fermato una ragazza che so tua amica, è scappata via ridendo. Niente, tutto questo non è servito a niente.
Poi un giorno ricevo una tua lettera profumata al gelsomino, poche righe per comunicare che hai appena abortito, neanche un saluto.

Passano alcune settimane, un giorno mi accorgo che non ti penso più, mi sento leggero ma anche un verme, mi sento un uomo da nulla, un porco coperto di perle che grufola nel fango. Sto meglio ma mi so meschino, il sentimento che provavo per te era un tesoro irripetibile. Sono fatto così, non ci posso fare nulla. Torno alla vecchia colazione, al solito bar, al fascio di quotidiani farcito di rivista porno dal solito giornalaio, quello che mi conosce dai tempi del liceo. Ricomincio a fare l'amore con mia moglie ma... non so, c'è qualcosa in me, un peso.
Poi un giorno in Comune incontro tuo padre, attacco bottone, faccio finta di niente, chiedo di tua madre e di tuo fratello, poi domando a proposito tua figlia come sta? Si rabbuia, dice credevo tu lo sapessi, è morta, si è tagliata le vene. Oggi sono quarantadue giorni.

Chiuso in ufficio piango come un bambino, il fazzoletto sulla bocca perché la segretaria nella stanza accanto non mi senta singhiozzare. Apro il cassetto, da una vecchia agenda estraggo l'unica foto che ho di te, una polaroid che mi regalasti tu. La guardo un'ultima volta, tu a figura intera smarrita dentro un cappotto chiaro troppo grande, poi la brucio.

Fuori non è rimasto nulla, dentro solo polvere e pensieri nati morti. Come vivi siamo merce invenduta, piangiamo i morti, ma loro stanno bene al caldo nella terra. In questo mondo siamo solo cose, abbiamo tutti il codice a barre e la scadenza, in prestito alla vita che non ci vuole, la morte ha detto sì e ci è sposa. Siamo come ginocchi sbucciati che non vogliono tornare a casa, alla morte, ne siamo usciti per una commissione, una passeggiata, per un gelatino, per una visita allo zoo. La fuggiamo ma non c'è un posto migliore dove stare senza affanni e riposare. Guardala la morte, imparala, fattela amica. E' dal tuo sempre che ti aspetta muta.
Sono stanco morto.
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