"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

lunedì 6 giugno 2011

L'infradito. di Manuela Rigante

Quando ti ho vista passare un anno fa, sono rimasto senza fiato, ho sentito che eri fantasticamente attraente, ero sotto l’ombrellone annoiato e assonnato.
Mi sono alzato subito dalla sdraio, che quel giorno odiavo particolarmente.
Non riuscivo a stare fermo, e va bene riposarmi ma così ci si rompe le palle pensavo.
La giornata era di quelle che non hanno il sole, solo nuvole immobili.
Non c’erano gli altri annoiati come me e quindi era tutto estremamente futile, anche la vacanza non aveva un senso quel giorno, e quando sei arrivata tu ho sentito come un getto d’acqua fredda sullo stomaco, un faro puntato negli occhi, un pizzicotto sulla faccia.
Non ero riuscito a vedere il tuo viso, perché il tuo passo era ondulatorio ma veloce, insomma sculettavi ma rapidamente, quella era la tua andatura.
Nonostante questo sentivo tutto emozionato, che il tuo viso mi sarebbe piaciuto che i tuoi occhi mi avrebbero abbagliato inevitabilmente.
Ti ho raggiunta, chiacchieravi allegramente con una signora e pensai che fosse tua madre.
Come il più perfetto dei cretini ti ho chiesto l’ora avendo l’orologio al polso, ma non ce la facevo, non trattenevo l’impulso di guardarti e così ringraziandoti ti ho sorriso, con il sorriso più ebete del mio repertorio. Avevi gli occhi scuri e il sorriso bianco, la pelle tesa e morbida, un semplice costume giallo a pois neri e le infradito nere, con le unghie dei piedi dipinte di un color arancione acceso.
Muovevi la testa lentamente e i capelli lunghi scuri ondulati incorniciavano perfettamente il tuo viso.
Più tardi ti ho incontrata al bar del bagno e ti ho chiesto l’ora perché era l’unica cosa che riuscivo a dire. Mi hai sorriso, mi hai chiesto se volevo uscire con i tuoi amici la sera stessa.
Avrei mai potuto dirti di no? Mi sembrava irreale ma invece no, era vero sarei uscito con te.
Quando ti ho visto la sera stessa da lontano, volevo andare via, non volevo farmi scorgere, io che sono un ragazzo alto 1,70 sarei stato insignificante di fianco a te che quella sera mi sembravi una fotomodella, anche se io le fotomodelle le ho viste solo sulle riviste.
Ti chiamavi Sara e avevi delle scarpe bellissime, nere con un tacco a spillo alto ma così alto che pensavo fosse persino pericoloso, se fossi inciampata da quell’altezza, mamma mia che paura!
Il collo del piede (si dice così e mi sembra azzeccato) era così sexi con quelle scarpe che mi subito mi sono immaginato di toccarti i piedi, di accarezzarli, di farti i grattini.
Magari seduti su di una panchina, con te sdraiata, i piedi sulle mie ginocchia, stanca dalla lunga camminata.
Volevo andare via, sparire, ma poi mi sono detto che senza tacchi saresti forse stata quasi alta come me; e che in quella sera fortunata se ci fosse stata anche solo una microscopica speranza di poterti baciare anche solo per una sera non me la sarei fatta scappare.
Sono stato accanto a te tutta la sera anche quando tu parlavi e ridevi con gli altri o messaggiavi con il cellulare.
Ti guardavo e ogni tuo impercettibile movimento mi inebriava, ero come sotto l’effetto di una ipnosi, tutto quello che vedevo di te era semplicemente unico, mai visto.
Anche una frase banale “andiamo a prenderci un gelato” mi era sembrata quella detta dalla ragazza più intrigante dell’universo. Ero perduto nel mio nuovo mondo dove ogni persona era un tuo clone, c’eri solo tu.
Prima di lasciarci il tuo amico Augusto disse ”ehi raga cosa ne dite se domani invece di romperci le palle in spiaggia facciamo una camminata su al Berceto? Ci portiamo i panini, qualche plaid, la palla e quando troviamo un bel posto comodo ci fermiamo e stiamo lì tutto il pomeriggio?”
La proposto fu accolta con tiepido entusiasmo, ma si stabilì un orario di partenza e salvo pioggia, il programmino alternativo al tram tram quotidiano venne accettato, aderirono tutti.
Il mattino seguente prometteva una bella giornata e così mi alzai e avvisata la mamma mi incamminai verso il luogo del ritrovo.
C’erano almeno già 10 persone tra ragazzi e ragazze ma lei no non era ancora arrivata.
Non ero agitato sentivo che sarebbe arrivata a momenti, la sentivo camminare, vedevo il suo passo, le sue anche ondeggiare.
Eccola.
Era una forza della natura, un tripudio di energia, aveva un passo veloce, baldanzoso, sorridente illuminava la strada.
Con quella felpa annodata in vita, la borraccia con la tracolla e lo zaino sulle spalle era l’immagine della voglia di andare, di scoprire nuove mete, non aveva alcuna incertezza.
I capelli legati in una coda che scopriva il collo così lungo e abbronzato, la guardavo tutta, senza perdermi neppure un particolare, attraversavo con gli occhi il suo corpo, i colori dei suoi vestiti, le collanine, l’anello con quella pietra colore della luna.
Arrivai fino in fondo, indossava delle scarpe da trekking, color cuoio.Era a suo agio come sulle sue scarpe tacco 12.
Dopo due ore di camminata ci fermammo tutti in un bel prato per fare una sosta. Pietro entusiasta disse “ ma che bello qui guardate che bel pianoro, perché non ci fermiamo per un bel po’:mangiamo, quattro chiacchere e poi giochiamo”.
Tutti, superate le titubanze iniziali, aderirono contenti. Sara no, non era d’accordo, lei voleva salire.Restava in piedi con lo zaino in spalla e un lieve broncio sulla bocca.
Ad un tratto me la trovai di fronte, si era tolta gli occhiali e seria mi disse “ a te ti va di toccare il cielo?” Io mandai giù la saliva per l’emozione, per questa richiesta che non capivo e che mi lasciava stordito.
Continuando a non capire, ascoltai solo una vocina dentro me che mi diceva “ con te faccio di tutto” e allora annuii emettendo un suono che sembrava un sì ma poteva essere anche un urlo di gioia represso.
Salutammo tutti, e continuammo a salire in alto.. fino a quando ci sembrò davvero di toccare il cielo.


Manuela Rigante

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