"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

mercoledì 1 giugno 2011

A proposito di mare.

Toscana. Lavoro sulla mia barca, piccoli lavori di manutenzione che
ti sottraggono al dover pensare a tutto il resto.
Le tue mani lavorano, il cervello non fa altro che osservarle e
assecondarle, il materiale prende forma e comincia a mostrarti
quello che prima era solo nella tua mente. E' distacco puro. Da tutto.
Poi all'improvviso dopo un paio di giorni arriva di fianco a me una barca.
Una barca vera. Una di quelle costruite per prendere
gli schiaffi duri del mare. Una di quelle con cui davvero si parte. Con cui
di notte, in una burrasca, ti addormenti sapendo che la
la mattina dopo ti sveglierai asciutto. E ancora vivo.
Sono le quattro. Manca ancora una manciata di sigarette all'alba. Sono
stanco. Non ho voglia di rimettermi al lavoro.
Sto osservando Abigaille, la barca di fianco a noi. La barca che vorrei. Mi
prende il pensiero di dove vivo, di quello che faccio, di quello che sono
e di quello che vorrei essere.
Scendo dalla mia barca. Mi siedo in banchina.
Accendo una sigaretta e aspiro
distratto. Comincia a fare fresco la notte.
Sono a piedi nudi, in maglietta, i muscoli tesi per il freddo e per un'idea
pazzesca anche solo da pensare. Eppure mi osservo mentre mi alzo,
salgo in barca, scendo deciso i quattro gradini che portano sottocoperta,
apro la porta della cabina, raccolgo a casaccio le mie cose, le comprimo
in un sacco sempre troppo piccolo, spengo le luci, stacco le batterie,
chiudo la mia barca; la allontano dalla banchina perchè nessuno possa
salirci in mia assenza, salgo su Abigaille, accendo il motore, mollo
prima le cime di prua, corro a poppa a sciogliere le due gasse che ancora
tengono la barca ferma in banchina, spingo con leggerezza
sulla leva e la barca comincia a scivolare fuori dal silenzio del porto.
Luci spente. Motore al minimo. Fuori c'è una bava di vento. Provo
a spingermi più lontano dalla costa. Prua a ovest. E' lì che voglio andare.
Fuori c'è vento, finalmente. uno scirocco steso e costante.
All'inizio credevo di voler portare quella barca un paio d'ore a correre
sull'acqua e rientrare prima che qualcuno si accorgesse della mia e della
sua assenza.
Poi il vento, l'onda al traverso, le luci lontane della Capraia. Rotta a
nord-ovest. La Corsica da scapolare. Lì davanti c'è del mare da vedere.
E poi Abigaille mi sta chiedendo di correre di più, continua a poggiare
perchè sa che è al lasco che io le strapperò dieci nodi di velocità e lei
strapperà a me un urlo di gioia sull'onda che ci rincorre.
E si prosegue così per parecchie ore. Arriva l'alba, arriva il sole, il
vento gira leggermente verso sud, la Corsica è passata. Ora si tratta di
proseguire, di spingersi molto al largo nel Golfo del Leone e puntare dritto
su Minorca. La rotta è trafficata, questo lo so e lo vedo dalle decine di
luci rosse e verdi che interrompono l'orizzonte di notte. Questo significa
dormire fuori, svegliarsi ogni mezz'ora, fare un giro di chiglia e calcolare
quanto tempo potrò riposare prima della prossima sveglia.
Ma siamo senza viveri. Io ho bisogno di mangiare, Abigaille è senza nafta e
senza acqua. Deviamo per Hyeres, sperando che non stiano cercando la barca
fino in Francia, perchè altrimenti la capitaneria francese se la godrebbe ad
arrestare un pazzo italiano che va in giro a rubare barche.
Cambio di rotta. Hyeres è troppo frequentata, troppe luci, un faro troppo
sicuro, lì forse mi cercano. Scendo a guardare la carta. Da qualche parte ci
deve essere un molo di pescatori dove poter attraccare, fare un poco di spesa,
comprare del gasolio e rimettere al volo miglia e miglia di mare fra me e la terra.
L'occhio cade su Saint Mandrier. So che da lì parte qualche nave
commerciale. C'è anche un presidio della marina francese rivolto verso nord.
Decido di dare fondo a sud del promontorio. C'è un gommone a bordo, è il
mezzo più sicuro. Risalgo in barca dopo mezz'ora. Ho il mal di terra, sono
in mare da così tante ore che mettere il piede sull'asfalto mi rende
ubriaco.
Si riparte in fretta. La cambusa è fatta per altri quindici giorni, il
gasolio lo dovremo centellinare, ma poco importa, è una barca a vela
questa.
Sud ovest. Dritti su Minorca. Davanti a noi tutto il Golfo del Leone, con la
sua fama di irascibile attaccabrighe, che non aspetta altro che le barche
piccole e spavalde per allugare un braccio e rivoltarle come tappi di
sughero.
Pare dormire stavolta, invece. Lo passiamo quasi completamente indisturbati.
Tenta la sveglia quando ormai abbiamo già il Cap de Creus al traverso, circa
60 miglia al largo.
Ancora 100 miglia alle Baleari. Se il vento tiene, in dodici ore siamo a
Minorca. Non è quella la meta, ma è un passaggio obbligato. Passare a sud
delle Baleari significherebbe una settimana in più di navigazione in acque
troppo frequentate dalla marina francese e da quella spagnola.
I miei genitori mi credono ancora in Toscana a lavorare. Gli amici della
Toscana mi credono a Milano. E mi raccontano di una barca, di fianco alla
mia, che è sparita inspiegabilmente. La capitaneria di Piombino ipotizza che
l'abbiano rubata per commerciare droga fra la Sicilia e la costa settentrionale
dell'Africa. Non sarebbe la prima volta, del resto.
Ma fino a dove mi voglio spingere? Sto davvero mollando tutto? Ho davvero
deciso di portare questa barca fino a Gibilterra e poi da lì fare saltare dentro gli Alisei?

Non lo so. Per ora mi godo le miglia che ho macinato,
osservo il profilo sfocato delle Baleari a sud della nostra rotta e punto
dritto su Cabo de La Nao, estrema punta meridionale del Golfo di Valencia.
Sono 50 miglia da qui, una giornata scarsa di navigazione. Cabo de La Nao
diventa un simbolo, una meta e un limite. Oltre quel capo si va, si parte
davvero, si dimentica tutto. Se non trovo il coraggio di superarlo,
significa che è ora di tornare indietro.
Sono partito dieci giorni fa. Dieci notti fa ho rubato una barca. Dieci albe
attese con gli occhi sbarrati per guardarmi intorno in cerca di luci
sospette in avvicinamento. E' ora di smettere. Il capo è passato, il paese
di Buena Vista anche, ma io ho bisogno di smettere qui, ora.
Porto la barca al molo di attracco dei pescherecci di Calpe. Sono le 5 di
mattina. I pescherecci sono fuori. Al loro rientro qualche pescatore
maledirà in castigliano l'idiota che ha ormeggiato dove qualunque marinaio
sa di non poter fare.
Manderà un grido verso Abigaille. Non ricevendo risposta, si accosterà,
salterà a bordo e troverà una barca vuota. Un biglietto sul tavolo della
dinette scritto in inglese e in spagnolo con le indicazioni per ritrovare
l'armatore e il porto di provenienza di Abigaille.
Io sarò già qualche chilometro più a nord, su un pullman di linea che da
Valencia arriva a Marsiglia. Da qui di nuovo in mare, su un traghetto
stavolta.

Arrivo di sera a Bastia. Ho un ricordo vago del suo porto.
E' stato un rifugio sicuro due anni fa, durante una burrasca, ne porto ancora

il segno sulla pelle: una piccola cicatrice che fatica a scomparire.
Oggi è molto diversa da allora. L'aria è calda, la gente passeggia senza
fretta e il porto brulica di vite che si spostano per mare.
Prendo un ultimo traghetto fino a Livorno e torno in treno a piombino a
recuperare la macchina.

Non è stata la paura di essere ricercato da qualche vedetta italiana,
francese o spagnola, ma la consapevolezza che il mare è stato generoso con
me per più di dieci giorni. In mediterraneo, in questa stagione, è
praticamente impossibile non annotare su un diario di bordo una giornata di
tempo davvero duro. Invece la clemenza del mare nostrum mi ha concesso
alta pressione per pensare, dormire, mangiare, stendermi in
coperta a guardare le nuvole e persino per abbronzarmi.
Alla prima vera burrasca me la sarei fatta sotto. Non sono ancora pronto per
andare di là. Ma ho annusato l'aria di mari grandi e aperti. E poi qualcuno
mi ha protetto per dieci giorni. Fregare una barca di diciassette metri,
attraccare in due porti e riuscire a mollarla in Spagna senza essere visto,
è solo merito di qualcuno che mi ha concesso di farlo. Inutile tentare di
sondare il confine della sua pazienza.
Ora so, ora so che prima o poi una Abigaille sarà ormeggiata a Castiglione,
a pochi chilometri dalla dolcezza dei poggi toscani, in attesa di partire
con me.

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