"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

venerdì 29 aprile 2011

Papà

Eccoci qui.
Sono passati anni dall'ultima volta che ci siamo visti. Lo sai quanti?
Te lo dico io. Quindici. In questi anni ho consumato vite intere, le ho fumate, bevute, bruciate, dissipate. Le ho masticate sino a succhiarne tutto il gusto e poi le ho sputate via, lontano da me.
Di tutto questo tempo passato non mi è rimasto nulla, neanche una foto da farti vedere. Non ho niente con me, solo questo vecchio zaino. Tutto non ci può stare, e allora bisognerebbe scegliere che cosa infilarci dentro, organizzare gli spazi, decidere le priorità. Ci vuole precisione.
Io non sono più così, e allora viaggio leggero. Il mio zaino non ha memoria.
Eppure di strada ne ho fatta tanta che ne ho sfondate di scarpe, e per ogni via che ho percorso una nuova ruga mi ha solcato il viso, a metterle in fila ti porterebbero dritto sulla luna, andata e ritorno. E cose ne ho viste che a raccontartele mi servirebbe un'altra vita da riempire di parole e luoghi e visi e teatro e canzoni e libri e cinema!
Ci si riempie un'altra vita solo a parlare di quello.
Le cose che ho fatto, che non ti renderebbero orgoglioso di me, sono magazzini pieni.
Ma sentimi, sembro uno di quei vecchi rintronati che parla al nipotino dei giorni andati, e invece sei tu il vecchio qui, lo eri già tanto tempo fa, quando ci siamo lasciati. Toccherebbe a te mettere in moto i ricordi, narrarmi storie.
Eppure storie, tu, non me ne hai raccontate mai.
Parlavi si, e quanto: spiegavi, comandavi e facevi eseguire con quella voce ruvida da scorticare la pelle, che non mi capacitavo come potesse appartenerti, esile come eri, quella voce da orco delle favole che ti usciva dalle labbra. C'erano notti che mi svegliavo convinto di averti sentito urlare, mi alzavo e venivo a spiarti nella tua camera, e tu invece dormivi rannicchiato nell'angolo del letto come un cuscino sgualcito. Russavi, e anche quel russare era nero come la pece.
Hai mai sognato? E se si, cosa?
Mi sono fatto questa domanda tante di quelle volte, e mi sono sempre risposto di no. Eri così pragmatico, così concentrato nel reale che persino sognare ti sarebbe parso una perdita di tempo. Ti immaginavo a dormire e intanto prendere decisioni, pianificare, decidere. Per me, per il mio futuro.
Io invece sognavo.
Ti ricordi quella volta che mi beccasti con un fumetto in mano? A ripensarci sento ancora le fitte nella schiena e il mio singhiozzare per convincerti che non lo avrei più fatto, non avrei più perso tempo con quelle stupidate, che si avevi ragione, quei disegni con quelle storie sciocche mi mangiavano il tempo, rubavano spazio allo studio, all'apprendimento.
Studiare studiare studiare. Quante ore mi hai fatto passare a studiare su uno spartito ad inseguire le note che a ricordarlo sento ancora gonfiarsi le dita, così gonfie da perdere la sensibilità. Ma questo non mi importava, perchè suonare era la mia vita e la fatica mi piaceva. Cercare la perfezione non mi ha stancato mai. Nonostante te. Lo sai? avresti potuto farmi odiare la musica con il tuo sproloquiare di dedizione al lavoro, le tue punizioni, e tutto quel parlare di rigore. Rigore. Rigore.
Che pena mi fai. Così coerente.
Se non avessi amato così profondamente ogni nota, se non ne avessi colto la bellezza e mi fossi affidato a te, a quest'ora disprezzerei ogni strumento, tutta la musica di questo mondo. Mi sarei imposto la sordità. Invece non ci sei riuscito. Sei stato un pessimo maestro, hai fallito, e io sono salvo.

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