"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater

lunedì 10 marzo 2014

Imprevisti tra il serio e il faceto

Quel giorno Riccardo arrivò a casa inaspettatamente prima di pranzo. Aprì la porta  e lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi lo lasciò impietrito. Sua moglie Elena era avvinghiata a  uno sconosciuto  che aveva l’impudenza di continuare a stringerla a sé come se niente fosse, senza la minima intenzione di allontanarsi o di  giustificare la sua presenza.
E fin qui, di imprevisto c’è ben poco: ogni giorno centinaia di persone scoprono che la moglie (o il marito) ha un  amante e la cosa non fa notizia. Ma in questo caso la faccenda prese una piega ben diversa, alquanto imprevedibile : a un certo punto l’uomo, continuando a tenere Elena incollata al suo corpo, fece sbucare una mano sopra la spalla della donna e  in quella mano impugnava una calibro 38, con la quale fino a quel momento aveva tenuto sotto tiro la poveretta. "Non fare il furbo con me! – intimò a Riccardo  il malvivente  – Dammi tutti i soldi che hai nel portafoglio e apri la cassaforte  che sicuramente tieni nascosta sotto uno di quei quadri " aggiunse indicando la parete di fronte a lui.
Riccardo non si scompose. Con calma infilò la mano destra nella tasca dei pantaloni e… bang, bang: sparò due colpi di pistola dritto  davanti a sé. Il malvivente crollò a terra, fulminato con una precisione da cecchino. Anche Elena stramazzò sul pavimento.  Svenuta per la paura? Uccisa per sbaglio dal marito? No, centrata a tradimento dalla seconda pallottola sparata da Riccardo,  che dopo aver rimbalzato contro il muro  era andata a conficcarsi proprio nella sua coscia, all’altezza del femore, facendole sgorgare il sangue a fiotti.  
Passi per la tentata rapina, ma finire impallinata da un proiettile vagante che l’aveva presa di mira per sbaglio era proprio il massimo della sfiga!
Per fortuna l’ambulanza arrivò velocissima (un fatto  - anche questo -  davvero imprevedibile) e la donna venne soccorsa giusto in tempo per non  morire dissanguata. Tutt’ a un tratto, però, l’ambulanza cominciò a tossire come se fosse sul punto di decedere e si fermò. Un imprevisto davvero banale: era finita la benzina.  Ma i barellieri  non si scoraggiarono: caricarono Elena, con tanto di barella, sulle spalle, e volarono  a piedi al pronto soccorso dell’ospedale San Gennaro, che distava appena mezzo chilometro.
“Che giornata infernale” pensò fra sé Elena mentre la facevano entrare nella sala medica del pronto soccorso. Meno male che ora sono finalmente qua, al sicuro, e non corro più rischi. Elena non aveva fatto i conti con l’incuria del dottore di guardia,  più attento agli squilli del proprio  cellulare che alla sua paziente. E fu così che il deficiente versò sulla ferita  del disinfettante per i pavimenti al posto di quello  per le medicazioni, causando ad Elena una brutta ustione da prodotti chimici.
“Ci mancava anche questa!” urlò la donna esasperata. “Voglio andarmene subito da qua. Vi sollevo da ogni responsabilità, firmo tutto quello che c’è da firmare ma chiamatemi un taxi  e fatemi andare via.”
Qualche ora dopo, esausta ma assistita come si deve in un altro ospedale, Elena rifletteva sull’ accaduto. " Ma guarda te cosa mi è andato a capitare da quando, stamattina, ho aperto la porta pensando che fosse Alberto e invece mi sono trovata davanti quel ladro con la  pistola in pugno." Alberto, per inciso, era un tipo che Elena aveva conosciuto durante un happy hour e con cui  aveva intrecciato una relazione circa due settimane prima. Avrebbero dovuto incontrarsi da lei proprio quel giorno, ma sembrava sparito nel nulla.
Dall’ ospedale Elena aveva provato più volte a chiamarlo, però  il cellulare continuava a ripetere:  irraggiungibile. Lei non poteva saperlo, ma anche lui aveva avuto un imprevisto: era stato per ore, invano, ad aspettare l’amico Andrea,  ladro di professione. Con lui aveva architettato un piano perfetto: un furto a casa di Elena, alla quale era riuscito a strappare un tête-à-tête a cui si sarebbe presentato Andrea. L’amico, però,  non era più tornato ...vittima a sua volta di un imprevisto. 



giovedì 16 gennaio 2014

La notte in cui persi la verginità

La notte in cui persi la verginità, la mia macchina non voleva saperne di partire. Si trattava di una Fiat 127 color senape, già di proprietà di mio zio Giovanni, che mi era stata promessa sin dall’età di quindici anni, dato che ormai lo zio non la guidava più per via della cataratta. Per tre anni avevo pregato il Signore di distruggere la rimessa dello zio con un fulmine, un’inondazione o una qualsiasi catastrofe che mi liberasse da quell’obbrobrio a quattro ruote. Niente da fare, il giorno del diciottesimo zio Giovanni si era presentato a casa mia porgendomi le chiavi compiaciuto. Non so dire quanto venni sfottuto per quell’auto color cacchetta, ma alla fine fu proprio su quella che persi, per l’appunto, la mia verginità. La fortunata si chiamava Rosa, una generosa bellezza mediterranea che avevo conosciuto qualche sera prima a casa di Gigi il Califfo. Gigi si era guadagnato il soprannome perché imitava il modo di vestire della buonanima di Franco Califano: camice sbottonate e catenine d’oro, pantaloni a zampa e piedi scalzi. Dava certe squallide feste in un seminterrato che aveva ribattezzato “lo scannatoio”, anche se dubito che ci abbia mai combinato granché, laggiù. Per dirvi il tipo, possedeva tutta la collezione degli album di Fausto Papetti, quelli con le donne nude in copertina, che teneva strategicamente in bagno, essendo riuscito a convincere la madre che quello era l’unico ambiente con il tasso di umidità giusto per la conservazione dei vinili. Una parola di commiserazione va spesa per il destino di quei milioni di spermatozoi di Gigi, che videro come prima e unica cosa delle loro brevi esistenze la copertina di un LP di Papetti, per concludere poi la loro parabola (è proprio il caso di dirlo) spiaccicati sulla parete di ceramica di un cesso.
Ma sto divagando. Alla festa di Gigi, Rosa mi disse che potevamo vederci una sera al bar del paese e che, se avevo la macchina (eccome se ce l’avevo!) potevo poi riaccompagnarla a casa o magari ci facevamo un giro (eccerto che volevo fare un giro!).
Mi preparai meticolosamente: pattugliai tutti i viottoli di campagna per trovare un posto adatto all’imbosco e fregai una pila di giornali vecchi a mio padre, per oscurare i finestrini, perchè Gigi mi aveva spiegato che così non erano atti osceni e si fregavano pure i guardoni. Gigi fu prodigo di consigli: mi disse che rischiavo di durare poco, la prima volta, e che perciò  avrei dovuto recitare mentalmente la formazione dell’Italia, magari quella dei mondiali del ’74, così distoglievo di più la mente.
“Ma chi cazzo la sa la formazione del ‘74?”, protestai.
“Va be’, allora quella di adesso: Zoff, Gentile, Cabrini…”
“La so’, la so’” lo fermai.
“E ce l’hai il goldone?”
“Oh cazzo…”
Feci 25 chilometri per essere sicuro di non incontrare nessuno che mi conoscesse in farmacia, comprai uno spazzolino da denti, una scatola di cerotti e due confezioni di aspirina, effervescente e non, prima di trovare il coraggio di indicare, senza proferire parola, l’espositore dei profilattici. Il farmacista alzò gli occhi al cielo, ma la missione era compiuta.
Tutto era pronto, salvo quella cacchio di macchina che non voleva partire. Dovette spingerla mio padre, mentre io smadonnavo tirando lo starter, e nel contempo pregavo silenziosamente, senza preoccuparmi della contraddizione. D’altra parte mi accingevo a compiere peccato mortale, e allora perché i santi avrebbero dovuto aiutarmi? Comunque poi l’auto partì e lascio a voi le implicazione teologiche.
“Ma cosa ci fai con tutti quei giornali?” fece mio padre accennando al sedile posteriore.
“Sono per una ricerca… per la maturità”
“Una ricerca con il Corriere dello Sport??”
“Sìssì… poi ti spiego” e sgommai via.

La serata andò alla grande, non sto a raccontarvi i dettagli che non sarebbe fine. Ebbi solo qualche difficoltà con il gancio del reggiseno, quel coso deve averlo inventato un prete.
Rosa la frequentai per un po’, poi si mise con uno che faceva il pianobar e lo chiamavano Pasqualino Tre Gambe e davanti a una cosa, anzi a un coso, del genere, che ci potevo fare?
L’anno scorso la incontrai per caso e solo allora ebbe il coraggio di chiedermi una cosa che la turbava da quella sera:
“Ma scusa tu quella sera, quando sei… sì insomma, quando sei venuto, hai davvero gridato: SCIREA!?”  



     

domenica 22 dicembre 2013

Una storia Natalizia legata ai pennelli con le setole di cinghiale


Dicembre del 1745. Parigi.

La giovane Andreina Bourbon, apprezzata pittrice di nature morte, decide di specializzarsi nel ritrarre angurie e cocomeri vari. C'è molta richiesta in tutta Europa per simili quadri, in Francia specialmente vanno forte i ritratti con cocomeri lunghi di provenienza americana. Andreina si iscrive ad un corso di pittura tenuto dal famoso Gustav Flaubert, a cui si deve il maestoso quadro le cocomeron jaune esposto al Louvre, oltre che la ritintura del garage di Napoleone. Andreina segue con profitto le lezioni, anche se molto faticose. Infatti in Francia è illegale usare i pennelli con i peli di cinghiale, si può adoperare solo il cinghiale. Si prende l'animale, lo si immerge nel colore e lo si strofina sulla tela.
Non è facile tenere in braccio una bestia dal peso minimo 80 kg, e molti degli iscritti schiantano a terra stremati dalla fatica. Il professor Gustav Flaubert li denigra, ridendo della loro debolezza. Per produrre bellezza bisogna saper soffrire afferma convinto, tirando loro calci negli stinchi e sputandogli addosso i semini dell'anguria. Alcuni degli iscritti chiedono indietro i soldi del corso, ma Flaubert li ha sperperati tutti comprandosi dei meravigliosi calzettoni alla zuava, una piccola mongolfieira e dei racchettoni da neve.
La giovane Andreina, praticando da anni la specialità atletica del lancio del peso, non soffre particolarmente a tenere un cinghiale in braccio. Spesso, per tenersi in allenamento, lancia uno degli animali a parecchi metri di distanza. Ciò nonostante essa è solidale con i suoi compagni, e decide di organizzare una riunione segreta per discutere il da farsi.
La fredda sera del 20 dicembre, mentre una tormenta di neve infuria su tutta Parigi, i superstiti del corso si ritrovano a casa di Andreina. Sono in dodici. Andreina, sgomenta, si rende conto di non avere pattine per tutti. Per fortuna, uno dei partecipanti della riunione è il fornitore ufficiale di pattine del Louvre, e si muove sempre col vasto campionario. Pattine per tutti. Risolto il problema, Andreina chiede la parola:
Amici! Compagni! Questa è una situazione insostenibile. Non possiamo continuare a dipingere a queste condizioni. Dobbiamo costringere il governo a rendere legale l’utilizzo del pennello con i peli del cinghiale, il futuro si muove in quella direzione!”
Applausi. Si leva una voce di dissenso:
Non acconsentiranno mai, le lobby dietro il mercato dei cinghiali sono potentissime, anzi ho saputo che vogliono spingere il governo a portare il peso minimo del cinghiale da 80 kg a 120!”
Fischi convinti. Prende la parola l'uomo delle pattine:
E’ una follia, in questo modo non potremmo curare le rifiniture, come potremmo mai rendere reali i semini dell'anguria? e le innumerevoli e meravigliose sfumature della scorza? come faremo? e poi, i cinghiali sono animali con poca pazienza, si rompono i coglioni, si spaventano ed emettono rumori molesti! Soccomberemo! Dobbiamo ribellarci!”
Applausi convinti. Chiede la parola un uomo dai baffi spioventi. Brusio in sala.
Forse potremmo trovare un compromesso. In alternativa si potrebbe infilare un bastone in culo ai cinghiali, sarebbe più facile usarli!”
Un cinghiale, infiltratosi alla riunione, emette un grugnito di terrore e si getta dalla finestra. La proposta è respinta unanimemente. Tutti sanno che questo provocherebbe una reazione degli animalisti, per non dire dei cinghiali che fuggirebbero oltre confine provocando un incidente internazionale con conseguente crollo in borsa e licenziamento in tronco di due milioni di lavoratori nel settore delle grucce per abiti, costringendo tutti ad andare in giro con le giacche spiegazzate.
E’ quasi mezzanotte, si decide di aggiornare la riunione e preparare una grigliata, ma proprio quando stanno per salare la carne irrompe la polizia, che arresta Andreina, unica a non nascondersi nel bagno delle donne, con l’accusa di istigazione alla rivolta e sequestra tutte le costate, lasciando però i salatini.
In questura Andreina si rifiuta di collaborare non confessando i nomi dei suoi complici, anche se ammette che tutti portano il 42 di scarpa. Dopo due giorni è rilasciata, con l’obbligo di presentarsi al comando di polizia ogni mercoledì e lavare tutti gli asciugamani della centrale.
La donna torna a casa infuriata, sa che qualcuno ha tradito. Sospetta di Gustave Flaubert e decide di affrontarlo. E' la notte di Natale, Andreina Irrompe nel suo studio senza bussare trovando il pittore in atteggiamento inequivocabile con un cinghiale maremmano dal peso approssimativo di 190 chili. Gustave cerca di negare, provando a nascondere l'animale sotto un tappetino, ma tutto è inutile e alla fine egli confessa in lacrime:
Si, Andreina, ho chiamato io la Polis. Non voglio che i cinghiali vengano tosati, io li amo così, selvaggi e liberi!” Quindi Gustav, indicando l'animale al suo fianco, afferma: “io amo questo cinghiale!”
L'animale si avvicina timidamente ad Andreina, e allungandogli una zampa, si presenta:
Piacere, Carlo”
Andreina, che è una donna a cui piacciono gli uomini villosi, e anche un po' strabici, capisce il loro folle sentimento e li perdona entrambi stringendoli forte, quindi esce dallo studio del pittore. E' una sera fredda, fiocchi di neve scendono densi sulla strada. Andreina guarda verso il cielo grigio e poi si domanda:
Ma questo racconto, che cazzo sta a significare?


mercoledì 11 dicembre 2013

katauta



tra cielo e terra
un silenzioso abbraccio -
neve neve e poi neve

****

Il katauta è una  forma poetica giapponese che si compone di 19 sillabe così suddivise: 5-7-7 

L'immagine dal web è un dipinto di Hiroshige Utagawa 歌川広重 Utagawa Hiroshige  (Edo, 1797 - Edo, 1858) 

lunedì 2 dicembre 2013

La Casa



Era andato da poco in pensione e tornato al paese. Quella casa era stata una manna dal cielo, spaziosa e a poco prezzo. Certo, trascurata e dall'aspetto un po' sinistro, ma lui era appassionato di bricolage e con tutto quel tempo libero...
La prima notte, però, fu un disastro: porte che sbattevano, risate sataniche, rumore di catene, il letto che tremava... e alle quattro del mattino un quadro si staccò dal muro e gli crollò sulla testa.
La mattina dopo era incazzato nero.
Chiaro che la casa era stregata e per questo non costava una minchia. Chiaro che della cosa se ne fotteva. Figuriamoci se si faceva mettere sotto da qualcosa che non esisteva neppure.
Per quarant'anni aveva fatto l'addestratore di cani, per l'esercito e la polizia. Aveva imparato che esiste una regola universale per educare chiunque, cani, tigri o cristiani: premiali quando si comportano bene e puniscili quando sbagliano. Non vedeva perché non dovesse funzionare con quegli ectoplasmi del cacchio.
Prese una mazza da demolizione e scese nel seminterrato. Stando di fronte a una delle colonne portanti, si rivolse direttamente alla casa, ad alta voce: “Stanotte hai rotto i coglioni... ora vediamo chi rompe di più!” e giù una mazzata. Poi un altra, e un'altra. Sentiva il cemento vibrare sotto i colpi, mentre frammenti di intonaco schizzavano qua e là. Gli parve pure di sentire un lamento, un ululato basso, ma forse se l'era solo l'armatura di cemento che vibrava.
Bene -disse- per questa volta te la cavi con un calcio negli stinchi, ma vedi che non si ripeta più”
Quella notte dormì come un bambino, a quanto pare qualcuno aveva capito chi comandava.
Premiali quando si comportano bene, pensò, e si mise a dare l'impregnante alle perline di legno.
Ma sarebbe stato troppo bello pensare di aver vinto la guerra dopo una sola battaglia.
Qualche giorno dopo l'acqua raggelò mentre faceva la doccia, poi cominciò a colare sangue dal doccino. I pensili della cucina si spalancarono, spargendo il loro contenuto sul pavimento.
Gli saltò la mosca al naso, quella stronza di casa aveva esagerato: col cavolo che lui puliva quel disastro.
Guardò le previsioni del tempo, lo attendeva un fine settimana freddo ma soleggiato: perfetto.
Salì sul tetto e tolse tre metri quadri di tegole. Aprì le finestre e le bloccò con il filo di ferro. Poi scese in cantina e spense la caldaia. Infine disse forte e chiaro: “Io me ne vado a pescare due giorni. Quando torno dev'essere tutto pulito. Altrimenti il freddo che sentirai domani lo ricorderai con nostalgia” e per sottolineare il concetto mollò altre due mazzate alla solita colonna.
Mentre pescava pensava al vento di gennaio che gelava i muri, al legno degli assiti che si crepava, alla brina che ricopriva il piano di marmo della cucina. Soddisfatto, ridacchiava.
Quando tornò la cucina era pulita, nei pensili le scatole erano disposte per ordine di grandezza. Sistemò le tegole e fece andare al massimo il riscaldamento. Questa vola fu sicuro di sentire un sospiro di sollievo. Diede la cera ai pavimenti e promise ad alta voce di verniciare le persiane. Poi falciò il prato.
Sei mesi dopo, viveva nel paradiso degli amanti del fai da tè. Passava l'antiruggine sulle ringhiere, carteggiava i gradini in legno, sistemava i mobili traballanti. Intanto la casa, sotto le carezze del pennello, faceva le fusa con un rombo sommesso. La sera il letto lo cullava muovendosi dolcemente mentre una voce lontana gli cantava struggenti ballate. La mattina quando si svegliava i pavimenti erano sempre puliti e i piatti, che aveva lasciato sporchi nel lavandino, gocciolavano dallo scolapiatti, divisi per tipo.
Per niente al mondo avrebbe cambiato casa.

domenica 17 novembre 2013

L'AUTUNNO DEL NOSTRO SCONTENTO



L'autunno si era travestito da inverno: tutte le mattine si alzava una nebbiolina fredda e appiccicosa e pioveva un giorno sì e l'altro pure. Gli alberi si vergognavano di essere nudi già alla fine di ottobre. Chissenefrega: mia moglie, stavolta, aveva avuto l'idea giusta: 15 giorni di vacanza a Palawan, sud-ovest delle Filippine, un'isola verdissima e tropicale fuori dalle solite rotte o, per dirla come il depliant, “uno smeraldo in un mare di turchesi”. Per farvi capire di che umore ero quando partimmo, vi dico solo che già in aereo portavo il costume da bagno sotto la tuta, e a metà del volo mi infilai le infradito.
Per la verità, a Manila il benvenuto non fu granché: una pioggerellina sottile sporcava le vetrate dell'areoporto. Mia moglie sentenziò: “ che c'entra, qui siamo molto più a nord, e poi è il microclima della città...”. Per la seconda volta aveva ragione: il giorno dopo a Palawan era una giornata da cartolina, roba che il depliant gli faceva una sega: ventinove gradi, mare cristallino, vegetazione rigogliosa... e il resort, che spettacolo! Un pugno di palafitte in mezzo al nulla, una lingua di sabbia e sole e mare, mare e sole.
La mattina dopo, però, ci svegliammo sotto la pioggia. Mia moglie minimizzò: “è un acquazzone tropicale, tra mezz'ora passa”. Ma ne aveva dette due giuste e la statistica non mente, per altri cinque anni non ne avrebbe azzeccata una.
Comunque, dopo due ore stavamo ancora lì, e non c'era molto da fare in quella cacchio di palafitta senza neanche un televisore, così facemmo l'amore, per la prima volta dopo mesi. E nel pomeriggio, mentre la pioggia picchiettava romanticamente sul tetto, lo facemmo ancora. Dopo cena, mia moglie mi fece un sorriso strano, malizioso... fu a quel punto che tirai fuori le carte e proposi una partita a burraco, perchè mica sono fatto di ferro.
La mattina dopo pioveva ancora e così mi avviai verso il bungalow della reception per sentire le previsioni del tempo dagli indigeni. Sfoderando il mio migliore inglese chiesi: “the time.. domani... beautiful, yes?”. La filippina al banco sorrise. Mimai delle gocce di pioggia, o forse l'attacco di un orso, poi l'illuminazione: “the rain...”.
“Oh” -fece quella- do you want to know something about the weather?”
“Eh?”
“Just a moment” - disse, e sparì nel retro.
Dopo qualche secondo uscì un ometto basso, che doveva aver fatto il maggiordomo in Italia, perché esordì, sempre sorridendo: “Questa è stagione di pioggia”.
Sbiancai.
“Ma tu non preoccupare, due-tre settimane tutto finito”
“Cooosa? E che ci faccio qui...”
“Oh divertente qui: giovedì viene signore per massaggio, sì, e domenica ballo tradizionale”
Balbettai “Ma, ma, ma... e gli altri?”
“Non c'è altri, altri viene a dicembre, stagione secca. Noi tutti per voi!” e giù un sorrisone.
“Ma porco ****!” e giù un bestemione epico.
Il filippino raggelò: mi indicò imperioso il crocefisso alla parete: “Se tu vuoi bestemmiare, va da un'altra parte!”
“Magari!”
Tornai alla palafitta imprecando, tutta colpa di quella stronza che si era fatta infinocchiare! Palawan del cazzo! Mia moglie abbozzò una difesa, ma la stroncai sul nascere; seguì un litigio furioso, sicché mi scordai l'unico passatempo decente per tutti i giorni che seguirono: cinque giorni di pioggia, noia e burraco, prima di trovare un biglietto a prezzo spropositato per tornare a Milano.
A Malpensa un sole abbagliante mi attendeva per sfottermi. Il tassista, saputo che venivamo dalle Filippine, si lanciò: “ma io ho una nuora Filippina, ci sono stato l'anno scorso: che paese meraviglioso, che sole, che spiagge!”
“Si fermi.”
“Cosa?”
“Si fermi, porco ****, voglio scendere”
“Ue' cicetti, se devi bestemmiare, vai da un'altra parte!”
“Dai caro, non fare il matto” - fece mia moglie.
“Ma vattene affanculo tu e le Filippine” dissi al tassista, o forse a mia moglie o al mondo intero, e saltai giù che l'auto non era ancora ferma, correndo non so dove.
Vidi giusto il cofano della macchina che mi veniva addosso, e feci in tempo a notare l'adesivo che aveva sul parabrezza, quello contro il nucleare con il sole, il sole che ride, 'sto stronzo.

Mi svegliai in quest'ospedale di suore, dove sono in trazione da sei settimane, immobile sul letto a guardar fuori dalla finestra. Vedo solo un albero spoglio e una fetta di cielo grigio. Piove, piove da giorni. La madre superiora mi tiene il pappagallo mentre piscio.
Il cellulare suona, è mia moglie che sta facendo la settimana bianca, mi manda la sua foto con l'istruttore di sci, sorridenti nella neve che riflette il sole limpido tra le montagne. “Ma porco ****... ahhh!” La suora mi strizza le palle. “Se vuoi bestemmiare, va da un'altra parte!”
Piagnucolo:“Magari!”.

martedì 5 novembre 2013

Alfio

Alfio appoggia il Garelli tre marce rubato al palo del divieto di sosta, datosi che il cavalletto è rotto e non tiene manco per niente, dà un occhiata veloce intorno, prende il collant dalla tasca se l'infila nella capa prima di entrare nella posta. Sono le 12,30 di un mercoledì di un autunno caldo che si vede che questa storia del buco dell'ozono è proprio vera, dentro ci stanno giusto quattro vecchi rincoglioniti dal caldo, Alfio pensa: che cazzo, quasi quasi manco la tiro fuori la pistola ma dato che se l'è fatta prestare dal suo amico Vincè e chissà quando gli ricapita di averla in tasca decide di fare un po' di cinema.
Alfio è fatto che ve lo raccomando, e già non è un genio di suo, figurarsi quando è stonato a furia di cannoni con dentro dell'hashish da schifo.
Alfio acchiappa il ferro, ma non lo tira manco fuori dalla tasca che gli incespica il dito nel grilletto e parte un colpo, facendogli saltare all'istante l'alluce del piede destro. Alfio si spaventa per il botto e tira un urlo che levati, si osserva la scarpa esplosa e non si raccapezza di che minchia è successo. Solo dopo una manciata di secondi arriva il dolore che gli incrocchia le ginocchia, e Alfio quasi si schianterebbe a terra se non si agganciasse al volo a un vecchio bicentenario incontinente, che per lo sforzo di tenere su un giovane a peso morto si piscia immediatamente addosso.
Gli impiegati postali, che per la madonna è la terza rapina questo mese sono già spariti sotto i tavoli dietro le vetrate, mentre i restanti tre vecchi atterriti dallo scoppio non sanno che cosa pensare di quella scena, e sacramentano a prescindere.
Alfio piange e saltella, avvinghiato all'incontinente, che è pure sordo e il colpo di pistola non l'ha manco sentito. A lui ci pare che quel demonio con il collant infilato in capo gli voglia fottere la pensione, sto terùn che lui la pensione ancora manco l'ha ritirata. E comunque lui non è tipo da farsi aggredire senza reagire da un barbone drogato e molla a Alfio una mazzata tra capo e collo che tanto di cappello!
Alfio si sconocchia tutto ma non cade, perchè sa che se ne deve scappare entro subito da quella situazione di merda, se non si vuole ritrovare addentro a una cella, e quindi a capo chino, incrocchiato dalle botte di quel vecchietto maledetto e strisciandosi il piede sanguinante se ne scappa dalla posta.
Saltellando come un grillo Alfio si porta sino al palo del divieto di sosta dove ci stà il Garelli tre marce, che però si è tutto sconocchiato a terra per chissà quale motivo.
Alfio sanguinante come uno che si è sparato ad un piede, a fatica issa quello scalcagnato motorino manco fosse pesante come un trattore, ci sale sopra e inizia a pedalare, con fitte di dolore che gli scoperchiano il cranio.
Alfio buca spedito un rosso al semaforo, che quasi una Fiat Panda se lo arrota, lui schiva e pedala, che quel bastardo di motorino non ne vuole sapere di partire. La vista gli si annebbia, e quasi quasi gli viene voglia di farsi una bella svenuta e vaffanculo, quando da dietro sente la sirena della pula.
In galera Alfio non ci vuole tornare, perchè lì dentro busca sempre un sacco di mazzate, e poi si mangia da vomito, e lui si è intrippato con Gordon Ramsey alla tele e il suo sogno è aprire un ristorante con i controcazzi in qualche paese dove non ci sono poliziotti a rompere i coglioni. Perciò Alfio pedala che pare Bartali con le la pula che gli morde le chiappe. Botta di culo, finalmente il Garelli si appiccia. Manco il tempo di sospirare che Alfio chiappa una curva da spavaldo, tutta piena di foglie com'è la strada, per via dell'autunno e delle foglie che cadono e tutte quelle puttanate che sta di fatto che il Garelli se ne parte per i cazzi suoi e a Alfio le palle gli si strizzano come il mocio vileda e quindi si va a schiantare sulla vetrina della lavanderia a gettoni di fresca apertura.
Alfio con la testa incastrata dentro una lavatrice industriale, stranamente si sente molto bene, in pace con tutto sto mondo di merda, e non vede l'ora di essere arrestato e portato via.

martedì 8 ottobre 2013

ADDIO



ADDIO
Non sapevo molto di te.. ma questo non mi impedisce di ricordarmi di te cm se fosse ieri l’ultima volta che c siamo incontrati..
Quelle volte che andavamo a pranzo dai nonni, e su quel tavolo in sala alla sinistra del televisore in via Civitali ci saziavamo con tre piatti di lasagne al forno, e brindavamo con qualche calice di vino alla felicità della famiglia che si riuniva per le occasioni speciali. Eri sempre solare e piena di vita a quell’ estremità del tavolo che dava sulla finestra. Meritavi sempre il posto a capotavola in fianco al capofamiglia, e come una regina dominavi la situazione scrutando tutti i commensali con il tuo sguardo dolce e sincero.
Quelle volte che a natale ci si riuniva sotto l’albero per trascorrere in allegria il grande evento, e tu trovavi sempre il modo per non mancare, riuscendoci in ogni occasione. Anche se a volte non eri in vena di festeggiare non lo facevi mai notare, e sul tuo volto si leggeva sempre quella grande serenità che aveva il potere di nascondere in ogni circostanza i tuoi rari malesseri.  L’incontro con i parenti ti faceva stare da dio.
Sapevi sempre come renderti interessante, avevi sempre una gran voglia di confrontarti con gli altri e riuscivi sempre a fare il primo passo nelle conversazioni. Questo era uno dei tuoi pregi più grandi. Era il tuo modo di essere unica, e in 22 anni non sono mai riuscito a imparare da te quest’arte. Non hai idea di quanto ti invidi e di quanto avrei voluto essere come te.
Riuscivi a mettere di buon umore chiunque ti ascoltasse, riuscivi a cogliere i punti deboli anche nei più forti e riuscivi a trovare il modo per farli ridere. Tutti quelli che avevi di fronte in qualche modo cadevano nella tua trappola, e in poco tempo di loro riuscivi a scoprire ogni cosa, a cogliere ogni dettaglio, a interpretare ogni loro segno.
Riuscivi a rinfacciare tutto senza paura di essere giudicata e senza timore di subire conseguenze. Non ti importava delle reazioni altrui, del loro imbarazzo, non ti importava dei loro sguardi a volte sarcastici. Ti importava soltanto di fare il possibile per migliorare la qualità della vita di chiunque ti stesse accanto. Ti importava soltanto di avere il prossimo al centro delle tue attenzioni e di metterlo a proprio agio in ogni circostanza.
Si, questo da te l’ho imparato. Ce n’è voluto tanto di tempo, ma alla fine ci sono riuscito e per questo ti sarò debitore per sempre.
Quelle volte che venivamo a trovarti in Piazza Selinunte in quella casetta così accogliente io facevo sempre il giro di tutti i locali, come se un giorno quella splendida dimora sarebbe diventata mia. Mi permettevo persino di entrare in camera da letto e rimanevo affascinato da quei bellissimi quadri appesi sul muro chissà quanto tempo prima. Uno era sulla parete a cui era accostato il letto, di fronte a uno specchio antico, mentre un’ altro occupava la parete a destra rispetto alla porta d’ingresso della stanza. Mi ricordo anche di un ometto su cui mettevi sempre in bilico i vestiti che utilizzavi più di una volta. Il salotto era la mia stanza preferita. Mi ero innamorato di una macchinina che avevi sulla credenza e la fissavo di continuo immaginando di poterla guidare e di andare ovunque avessi voluto.
Quando ci sedevamo sul quel divano piccolino di fronte al tavolo da pranzo a me toccava sempre il posto più scomodo. Stavo sempre sul bracciolo perché i miei fratelli si accaparravano i posti migliori per starti vicino e guardarti in quegli occhi splendidi  il più a lungo possibile.
Sembravano due stelle luminose. I tuoi occhi erano sempre accesi, sempre vivi ed espressivi. Dai tuoi occhi si intuiva il tuo stato d’animo quando non riuscivi a esprimerlo a parole. Si capiva quando eri felice, quando stavi male, quando ti sentivi a disagio, quando eri annoiata, quando eri tranquilla, quando avevi paura.. si capiva tutto quello che pensavi, quello che sognavi, quello che desideravi e quello che avresti voluto fare. Guardarti negli occhi era come guardare nel tuo cuore.
Quelle volte quando ero piccolo che entravamo in casa tua e con te c’era la nonna Emidia. Ci dicevate sempre “Belè Facruscè” o “Scigulin d’or” e noi sorridevamo contenti. Sorridevamo invidiosi delle attenzioni che ci regalavate e ci sentivamo importanti e speciali.
Quelle volte che io e papà ci precipitavamo da te quando succedeva qualcosa e ti venivamo in soccorso, o venivamo per assicurarci che stessi bene dopo qualche piccolo incidente.
Ci prendevamo cura di te e solo dopo essere convinti al 100% che stessi al meglio toglievamo il disturbo a malincuore, sperando sempre che quella sarebbe stata l’ultima cosa brutta che ti sarebbe capitata.
Quella volta che alla festa di una ragazza che mi piaceva sono entrato in un locale a due passi da casa tua, guardavo il cancello del tuo palazzo con una gran voglia di venirti a salutare e di sapere come stavi.
Mi ricordavo dell’ultima volta che io e papà eravamo venuti a trovarti, non molto tempo prima, e mi sarebbe piaciuto tanto passare la serata in tua compagnia.
Guardavo le macchine girare alla rotonda e passare davanti al tuo cancello sperando che qualcuno mi caricasse su e mi portasse all’ingresso per citofonare e sentire la tua bellissima voce, probabilmente sommessa a causa della felice sorpresa che avresti ricevuto nel trovarmi lì a quell’ ora.
Lo stesso giorno di Giugno avevo fatto il saggio di pianoforte e mi era andato stramale. Mi veniva da piangere perché non ero riuscito a dimostrare di essermi sbattuto per un anno a imparare un pezzo ed ero sicurissimo che tu mi avresti ascoltato, che mi avresti capito, e che mi avresti confortato come solo tu sapevi fare, facendomi uscire di casa felice, anche se tanto a malincuore.
Uff.. e poi mi ricordo bene quel dannato giorno in cui hai lasciato casa tua.
È successo tutto così all’improvviso.. L’ho saputo da papà una sera dopo il lavoro e in quel momento sentivo che tutto sarebbe cambiato. Sentivo che non ci saremmo più visti con la stessa frequenza di prima, sentivo  che mi saresti mancata di più, sentivo che i nostri incontri sarebbero stati molto più brevi, sentivo che non ci sarebbe più stato l’affetto di un tempo.
Ma per fortuna tutto ciò non è accaduto. Nulla è cambiato, e questo è stato soprattutto per merito tuo. Sei sempre stata forte, sei sempre stata una spanna sopra gli altri, sei sempre stata più sveglia degli altri, e quando tramite papà sentivo le tue impressioni riguardo a quel luogo sorridevo e ti pensavo a lungo. 
Tuttavia, la tua casetta mi è rimasta impressa nella mente, mi è rimasta nel cuore. A volte mi capita di rivederla nei sogni, mascherata in qualche strano modo. Mi manca tutto di quel posto stupendo. Anche l’odore così particolare mi manca. Era davvero unico e in nessun altro luogo si poteva avvertire.    
Ora Farei di tutto per poter tornare indietro di qualche tempo, quando ero ospite in quella dimora così ricca di vivacità e sorrisi, grazie alle tue parole dolci che lasciavano intendere tutto l’affetto che provavi nei nostri confronti.

domenica 29 settembre 2013


CAMICIE



Tutto cominciò qualche anno fa, per via di una camicia che andai a comprare alla Rinascente. Lì conobbi Laura, sorriso caldo, scollatura profonda, parlantina sciolta. Cominciai ad acquistare una camicia dopo l’altra: collo alla francese, alla coreana, button down, slim fit, normal fit, polsino doppio, polsino semplice, tessuto Oxford, cotone doppio ritorto… ne avevo l’armadio pieno. E naturalmente avevo una nuova fidanzata, Laura, che sin dall’inizio, addocchiato il mio portafoglio, aveva deciso di non vendermi solo un autotreno di camicie, ma anche se’ stessa.
Non ci impiegai molto per capire che, da brava venditrice, il buon affare lo aveva fatto lei. Tempo due anni da che ci fummo sposati e si rivelò per quello che era: una terribile rompicoglioni.
Nel frattempo, però, ipnotizzato da quella scollatura e da un culo cui mancava solo la parola per essere più convincente, le avevo intestato tutto: conto in banca, immobili, quote azionarie.
Scoprii così che ci si abitua più facilmente ad una moglie rompicoglioni che all’idea di diventare poveri.
Per qualche anno instaurammo al classica routine un po‘ ipocrita delle coppie che convivono sopportandosi, per abitudine. Poi tutto finì, sempre per via di una camicia.
Ricordo che stavo cenando (vorrei dire che mangiavo un uovo in camicia, ma l’universo non è così attento ai dettagli) quando lei arrivò sbraitando e sventolando una mia camicia, con la classica macchia di rossetto sul collo.
Protestai, negai tutto, negai l’evidenza, con un’intensità che derivava soprattutto dall’idea del mio portafoglio titoli che mi salutava per sempre. Dovetti risultare convincente mentre urlavo che era assurdo, perché alla fine mi credette. Ed era davvero assurdo: le labbra della mia segretaria si erano sempre fermate ben più in basso del mio collo!
Però, se una moglie rompicoglioni si può ancora sopportare, una rompicoglioni, paranoica, gelosa e che per giunta ti tiene per le palle, proprio no.
Questo ci porta qui, cara Laura, a questa fantastica vacanza lontano da tutto e da tutti che avevo programmato da tempo. Che notte meravigliosa! Il motoscafo che si ferma tra le onde, cullati dal mare, le stelle che brillano in questo cielo senza luna, nessuno in vista per chilometri. Ti piace? Perché non rispondi? Forse perché sei chiusa in quel sacco di plastica, con la testa fracassata e l’ancora legata intorno? Va bene, allora è inutile discutere.
La prendo, la sollevo (il culo è ancora bello sodo) e le dico addio facendola scivolare nell’acqua scura.
Che peccato, che spreco!
Sì, perché in quel sacco nero, sporca di sangue, ci ho dovuto mettere anche la mia camicia preferita.