Ne
abbiamo condivise di bevute Milena ed io, amiche fin dai tempi dell’università!
Bevute gioiose, per brindare a un esame
superato con successo, a un compleanno, a un nuovo amore. Bevute assaporate con gusto, perché una caraffa di Retsina ghiacciato andava
giù che era un piacere nel caldo torrido di Mykonos, e una buona bottiglia di Sassella era come il
cacio sui maccheroni con un piatto fumante di pizzoccheri, dopo le nostre
sciate in Valtellina. Bevute “terapeutiche”, perché un goccio di
vino in corpo ti scioglie la lingua quando ti ritrovi a una festa con gente
sconosciuta, magari un po’ antipatica, e
non sai cosa dire. Bevute, sì, non
sbornie di quelle che perdi il controllo, che il mattino dopo non ti ricordi più nulla o ti si spacca la
testa in due. Bevute alla luce del sole o della luna – a seconda dei casi – ma non ubriacature alla chetichella, quando ti
attacchi alla bottiglia di nascosto da tutti, nella solitudine della tua casa,
perché ti senti colare a picco e il
bicchiere ti sembra l’unica ancora di salvezza.
Ecco
perché quella sera a Firenze, in una trattoria sul Lungarno, rimasi di stucco quando Milena fermò risoluta la mano del cameriere che stava
per versarle un bicchiere di Chianti. Eravamo entrambe reduci dal naufragio dei
nostri matrimoni, lei con Giorgio, io con Riccardo, e un bel “prosit” dopo
tutto quello che avevamo passato era assolutamente d’obbligo. Fra l’altro in
quegli ultimi mesi ci eravamo viste così poco che quel week-end a due, come ai
vecchi tempi, doveva proprio essere festeggiato con un brindisi memorabile. Ma Milena fu
irremovibile: “Non posso”, mi disse, e non aggiunse altro. “Strano – pensai
_ non mi sembra che stia male. Se avesse
qualche problema di salute o di dieta non avrebbe di certo divorato un piattone
di ribollita e una fiorentina alta tre dita. Mah, chi la capisce!”. Però
l’essere lì, in quella meravigliosa
cornice fiorentina, con la prospettiva di un lungo week-end di relax e
chiacchiere fra amiche, mi fece subito
passare oltre questa inspiegabile bizzarria di Milena.
Dopo
cena, passeggiammo a lungo per il centro città e intanto parlavamo, parlavamo,
parlavamo. Per la verità, quella che parlava ero io. Inveivo contro Riccardo che aveva rovinato
tutto, giorno per giorno, smorzando ogni mio entusiasmo fino al punto di non
ritorno: la separazione. Milena mi ascoltava, mi coccolava con quella sua aria un po’
materna, mi abbracciava con tenerezza. A
un certo punto però le chiesi a bruciapelo: “Ma tu, Milena, da quando Giorgio
se ne è andato con quella zoccola di Stefania, come ti senti realmente dentro
di te? Dimmi la verità, cosa provi, cosa fai quando chiudi la porta di casa e te ne vai a dormire tutta sola, ogni notte?
Milena mi puntò addosso uno sguardo stupito, spaventato. “Ma che domanda è? –
rispose - Cosa vuoi che faccia? Cosa
vuoi insinuare? “ E mentre parlava, mi
fissava con uno sguardo allucinato, che non conoscevo.
“Insinuare?
Ma insinuare che? Milena, sei impazzita?
Ohh, sono io, Anna, la tua migliore amica. Che cazzo vuoi che insinui? Non ci
siamo sempre raccontate tutto? Mi chiedevo semplicemente chi delle due stia
peggio…”.
“Io,
Anna. Sono io quella che sta peggio – mi gridò con rabbia Milena - Te lo devo dire, te lo devo raccontare. Tu
credi che io abbia saputo reagire al
tradimento di Giorgio, ma non è così. Mi
vergognavo a parlarne persino con te, ma mi è crollato il mondo addosso. Ti
ricordi tutte quelle sere in cui mi telefonavi e io non rispondevo? Il giorno
dopo ti dicevo che ero uscita con Davide o con Elisa, o che ero andata a cena
dai miei. Balle! Erano tutte balle! Io ero in casa, da sola, a scolarmi una bottiglia di vino, quando una
bastava. E il più delle volte non bastava.”
Ero
allibita. Mai e poi mai avrei immaginato una cosa del genere. Certo, Milena in
quei mesi mi era spesso sembrata strana, assente, ma il dubbio che bevesse, anzi no – diciamolo senza giri di parole - che
si ubriacasse sera dopo sera, coscientemente, non mi aveva neppure sfiorata.
Milena
comunque non era una stupida e non era neppure così debole come poteva sembrare in quel momento. Mi raccontò il calvario di
quei mesi e di come ogni mattina, quando usciva dal torpore di quelle notti
infernali, si
riprometteva di non cascarci più. Ma ogni sera era la stessa storia. Così un
giorno si era decisa: aveva cercato il numero di telefono dell’ Alcolisti
Anonimi, aveva chiamato e sì, era andata
là. “Astenersi dal bere un giorno alla volta”, era
quello il segreto, mi aveva spiegato Milena, raccontandomi di come era riuscita
a piantarla con l’alcol proprio grazie al gruppo che aveva conosciuto in questo
centro di aiuto e che stava continuando a frequentare. “Un giorno alla volta “
avevo ripetuto fra me. “ Forse dovremmo ricordarcelo tutti, per tutto quanto”.
Sono
passati anni, molti anni da quel week-end a Firenze. E giorno dopo giorno, Milena continua
a non bere neppure un goccio di vino, anche se ora sta bene e si è rifatta una
vita con un nuovo compagno. Dice che ne ha
visti tanti, nel gruppo, ricascarci dopo anni,
quando sembravano per sempre fuori dalla dipendenza. Lei non vuole
rischiare. E aggiunge spesso: “ Ti ricordi mia madre? Non voglio diventare come
lei, che per tutta la vita ha avuto una bottiglia di whisky nascosta nell’armadio.”
A me
sembra impossibile che Milena possa
ripiombare in quel baratro: ora la vedo
così felice, così serena! Ma lei non si fida di se stessa. E così,
quando pranziamo insieme, bevo acqua anch’io, come lei, per non farla sentire diversa. E se ci troviamo per un aperitivo, due
Sanbitter, rigorosamente analcolici… c’est plus facile!
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