La notte in cui persi la verginità, la mia macchina non voleva
saperne di partire. Si trattava di una Fiat 127 color senape, già di proprietà
di mio zio Giovanni, che mi era stata promessa sin dall’età di quindici anni,
dato che ormai lo zio non la guidava più per via della cataratta. Per tre anni
avevo pregato il Signore di distruggere la rimessa dello zio con un fulmine,
un’inondazione o una qualsiasi catastrofe che mi liberasse da quell’obbrobrio a
quattro ruote. Niente da fare, il giorno del diciottesimo zio Giovanni si era
presentato a casa mia porgendomi le chiavi compiaciuto. Non so dire quanto
venni sfottuto per quell’auto color cacchetta, ma alla fine fu proprio su
quella che persi, per l’appunto, la mia verginità. La fortunata si chiamava
Rosa, una generosa bellezza mediterranea che avevo conosciuto qualche sera
prima a casa di Gigi il Califfo. Gigi si era guadagnato il soprannome perché
imitava il modo di vestire della buonanima di Franco Califano: camice
sbottonate e catenine d’oro, pantaloni a zampa e piedi scalzi. Dava certe
squallide feste in un seminterrato che aveva ribattezzato “lo scannatoio”,
anche se dubito che ci abbia mai combinato granché, laggiù. Per dirvi il tipo,
possedeva tutta la collezione degli album di Fausto Papetti, quelli con le
donne nude in copertina, che teneva strategicamente in bagno, essendo riuscito
a convincere la madre che quello era l’unico ambiente con il tasso di umidità
giusto per la conservazione dei vinili. Una parola di commiserazione va spesa
per il destino di quei milioni di spermatozoi di Gigi, che videro come prima e
unica cosa delle loro brevi esistenze la copertina di un LP di Papetti, per
concludere poi la loro parabola (è proprio il caso di dirlo) spiaccicati sulla
parete di ceramica di un cesso.
Ma sto divagando. Alla festa di Gigi, Rosa mi disse che potevamo
vederci una sera al bar del paese e che, se avevo la macchina (eccome se ce
l’avevo!) potevo poi riaccompagnarla a casa o magari ci facevamo un giro
(eccerto che volevo fare un giro!).
Mi preparai meticolosamente: pattugliai tutti i viottoli di campagna
per trovare un posto adatto all’imbosco e fregai una pila di giornali vecchi a
mio padre, per oscurare i finestrini, perchè Gigi mi aveva spiegato che così
non erano atti osceni e si fregavano pure i guardoni. Gigi fu prodigo di
consigli: mi disse che rischiavo di durare poco, la prima volta, e che
perciò avrei dovuto recitare mentalmente
la formazione dell’Italia, magari quella dei mondiali del ’74, così distoglievo
di più la mente.
“Ma chi cazzo la sa la formazione del ‘74?”, protestai.
“Va be’, allora quella di adesso: Zoff, Gentile, Cabrini…”
“La so’, la so’” lo fermai.
“E ce l’hai il goldone?”
“Oh cazzo…”
Feci 25 chilometri per essere sicuro di non incontrare nessuno che mi
conoscesse in farmacia, comprai uno spazzolino da denti, una scatola di cerotti
e due confezioni di aspirina, effervescente e non, prima di trovare il coraggio
di indicare, senza proferire parola, l’espositore dei profilattici. Il
farmacista alzò gli occhi al cielo, ma la missione era compiuta.
Tutto era pronto, salvo quella cacchio di macchina che non voleva
partire. Dovette spingerla mio padre, mentre io smadonnavo tirando lo starter,
e nel contempo pregavo silenziosamente, senza preoccuparmi della
contraddizione. D’altra parte mi accingevo a compiere peccato mortale, e allora
perché i santi avrebbero dovuto aiutarmi? Comunque poi l’auto partì e lascio a
voi le implicazione teologiche.
“Ma cosa ci fai con tutti quei giornali?” fece mio padre accennando al
sedile posteriore.
“Sono per una ricerca… per la maturità”
“Una ricerca con il Corriere dello Sport??”
“Sìssì… poi ti spiego” e sgommai via.
La serata andò alla grande, non sto a raccontarvi i dettagli che non
sarebbe fine. Ebbi solo qualche difficoltà con il gancio del reggiseno, quel
coso deve averlo inventato un prete.
Rosa la frequentai per un po’, poi si mise con uno che faceva il
pianobar e lo chiamavano Pasqualino Tre Gambe e davanti a una cosa, anzi a un
coso, del genere, che ci potevo fare?
L’anno scorso la incontrai per caso e solo allora ebbe il coraggio di
chiedermi una cosa che la turbava da quella sera:
“Ma scusa tu quella sera, quando sei… sì insomma, quando sei venuto,
hai davvero gridato: SCIREA!?”