"Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi... " Eliot Rosewater
lunedì 31 ottobre 2011
Cose che succedono a Bareggio
lunedì 24 ottobre 2011
domenica 23 ottobre 2011
sabato 22 ottobre 2011
Quando la notte di Cristina Comencini: il romanzo e il film
Il Festival del Cinema di Venezia si è concluso da poco. Tra i film italiani presenti, Quando la notte, di Cristina Comencini, ha diviso la critica e il pubblico. Da un lato c'è chi sostiene la regista quando afferma che "la maternità è un tema che le donne sono disposte ad affrontare, gli uomini un po’ meno" e il produttore del film, nonché marito della Comencini, Riccardo Tozzi secondo il quale "l’idea di abolire la proiezione riservata esclusivamente alla stampa ha permesso a un gruppetto sparuto di rovinare la visione a tutti gli altri"; mentre dall'altro abbiamo chi boccia il film, chi fischia al momento dei titoli di coda e addirittura chi ride durante le scene più drammatiche.
Marina ha preso in affitto un appartamento sopra quello di Manfred, un uomo burbero e scontroso, tradito e lasciato dalla moglie che gli ha portato via anche i figli. Circondato dal gelo delle Dolomiti, il cuore di Manfred è diventato una pietra. Un cuore già ferito, già schiacciato dal peso della madre che, molti anni prima, se n'era andata. Manfred si chiude nel suo mondo, scaricando sul prossimo l'odio che prova verso la vita. O forse verso se stesso.
Marina e Manfred si incontrano di rado e durante quei fugaci incontri si annusano, si guardano con sospettano, cercano di capire cosa passa nella mente l'una dell'altro. Per Marina, Manfred è uno zotico, maleducato e per giunta incapace di intrattenere rapporti. Venuta a sapere che la moglie lo ha lasciato, Marina non ci pensa su troppo a dare ragione a quella donna. Manfred invece giudica la ragazza, venuta dalla città, incapace di accudire il bambino, nota il suo nervosismo di fronte ai pianti eccessivi ed estenuanti del figlio, la sua goffaggine nel prendersi cura di lui e sospetta uno strano rapporto tra madre e figlio.
Una sera Marina perde il controllo e il bambino si fa male. Un incidente, un "banale incidente" che potrebbe trasformarsi in tragedia se Manfred non fosse stato in casa, se non avesse sentito le urla e i pianti provenire dall'appartamento di Marina. Soccorre entrambi, madre e figlio, li porta al Pronto Soccorso.
Sarà da quel momento che lui capirà il segreto di Marina, cosa si cela dietro quella maschera di sicurezza. Si cercheranno, i silenzi faranno spazio alle confidenze, ai pianti e si sveleranno. Anche Marina inizierà a capire qual è il motivo per cui Manfred è stato lasciato dalla moglie. Ma un mese è poco, l'estate volge al termine e Marina torna in città, da Mario e dai suoi problemi.
Marina non si dà per vinta, tornerà anni dopo, cercherà Manfred. Andrà fino in fondo alla loro storia, a quel desiderio misto alla paura che entrambi provarono tanti anni prima.
La scrittura della Comencini è fluida, simbolica, emozionante, ricca di flashback che ne esaltano l'intreccio narrativo, dando così un valore aggiunto al romanzo. Quando la notte affronta temi delicati, quali la maternità e il difficile rapporto tra madre e figlio specie se si ha un passato poco sereno e definito come quello di Marina, se i fantasmi ti girano attorno, se le pressioni psicologiche e morali della famiglia ti soffocano. E poi la paura e il desiderio, che contraddistinguono i rapporti tra uomo e donna, di amarsi, lasciarsi per poi ritrovarsi, i segreti che si celano nella vita di ognuno di noi, quei segreti con i quali prima o poi si devono fare i conti.
Io e Dio (V.Mancuso)
Ma che cos'è vero, alla fine, di questa vita che se ne va, nessuno sa dove? Rispondere a questa domanda significa parlare di dio." Io e Dio di Vito Mancuso ruota intorno a questa domanda: una domanda intima, personale, che però coinvolge l'intera umanità, e dunque ciascuno di noi. In questo senso, per ogni uomo che viene sulla terra, cristiano o no, la partita della vita è sempre tra io e Dio. Tuttavia oggi tenere insieme un retto pensiero di Dio e un retto pensiero del mondo è molto difficile: così qualcuno sceglie Dio per disprezzo del mondo, qualcun altro sceglie il mondo per noia di Dio. mentre molti non scelgono né l'uno né l'altro, forse perché non avvertono più quell'esigenza radicale dell'anima che qualcuno chiamava "fame e sete di giustizia". In pagine ricche di dottrina e di passione per la verità. Vito Mancuso spiega e condivide le ragioni della sua fede in Dio. È un percorso in cui non mancano puntate polemiche, basato su un'ampia riflessione, che supera di slancio la strettoia tra due posizioni in apparenza contrapposte, che negano entrambe la nostra libertà individuale: da un lato l'autoritarismo delle gerarchie religiose, dall'altro uno scientismo ateo e semplicistico. Ma una civiltà senza religione, o con una religione senza cultura, argomenta Vito Mancuso, perde inevitabilmente la propria coesione interna, schiacciata su una sola dimensione, in balia di un egoismo molto prossimo al cinismo o alla disperazione.
l'occhio dell'anima
La stanza, dai muri bianchi, era completamente vuota, priva di qualsiasi porta o finestra.
Solo quell’imbarazzante e indiscreto osservatore sporgeva da una delle pareti. Il soffitto era di un colore blu scuro, e sembrava ospitare la sorgente dalla quale proveniva la tiepida illuminazione della stanza. Gregor non riusciva a scrollarsi di dosso la terribile ansia provocata dalla sua curiosa e indescrivibile situazione. Iniziava a meditare, quasi perdendosi nei foschi fumi della follia che annebbiano l'uomo, propositi violenti contro quel maledetto impiccione: colpirlo con raffiche di pugni fino a costringerlo a chiudere la sua immobile palpebra sottile. Sino ad ora non aveva escogitato altre soluzioni efficaci per far cessare quell’angosciante osservazione. Si era trattenuto dal passare all’azione con una certa circospezione insita nella sua coscienza. Prima voleva valutare attentamente le possibili reazioni che poteva intraprendere quello che ormai considerava essere il suo nemico; ma le conclusioni alle quali era arrivato almeno una decina di volte, erano sempre le stesse. La stanza non aveva accessi visibili: nessuno avrebbe potuto intervenire in difesa di quel maledetto occhio che lo scrutava scavandone il fondo dell'anima. Quest’ultimo, poi, non poteva certo afferrarlo o cercare di sopraffarlo. Dopo aver confermato a se stesso ancora una volta le medesime conclusioni, Gregor si decise ad attaccare. Si appoggiò alla parete opposta rispetto a quella che ospitava l’occhio, sempre osservatore sospeso nel traboccante vuoto di quell'assurdo. Prese lo slancio, e con foga raggiunse il suo bersaglio, iniziando a colpirlo con calci e pugni, senza fermarsi. Non prestò particolare attenzione alla coordinazione con la quale lasciava partire i propri colpi sicuri e precisi, pensò semplicemente a sfogare la rabbia e l’angoscia che pervadevano la sua anima nella geometrica agonia di quella stanza vuota.
Quando iniziò a sentire fitte sempre più dolorose a braccia e gambe, si allontanò dalla parete; rimase ad osservare per qualche istante la sua vittima , poi si inginocchiò esausto sul pavimento. Erano trascorsi pochi secondi quando l’uomo sollevò lo sguardo verso l’occhio, e quello che vide lo lasciò esterrefatto: lente e ripugnanti lacrime iniziarono a infrangersi con rumore sordo sul pavimento. Quando Gregor ragionava sulle possibili reazioni del suo avversario, aveva tralasciato la più semplice e banale delle condizioni. Si diede dello sciocco per qualche istante, poi l'istinto represso prese il sopravvento: iniziò a inveire inutilmente contro l’occhio, mentre cristalline gocce di memoria iniziavano a perdadere la stanza fino a riempirne quasi un terzo. Faticava sempre più a tenersi a galla, si sentiva stanco; soprattutto esausto, sopraffatto, sconfitto, dalla sua voce di dentro.
Francesca Casagrande
A volte l'anima..
fanno un percorso diverso
Qualche volta le anime
scivolano dietro ai ricordi
appese al loro amore
e un sole blu indica loro il cammino.
che penetra col suo inverno
nelle loro ossa nude
Siamo tutti un po’ vittime
sul piedistallo del Mondo.
Tutti un po’ ladri d’amore
sulle grondaie delle Città.
Uno stormo felice di uccelli
canta il suo stupore selvaggio
mentre prega
ignaro
della pioggia che lo investirà al tramonto.
Qualche volta
un’anima si libera dal cerchio
e solo allora torna quiete alla sua origine
con la forza del dolore
dando al Mondo
il profumo di un siffatto respiro.
venerdì 21 ottobre 2011
LA SCATOLA DEI RICORDI
Pubblicato da Nadia Del Frate
giovedì 20 ottobre 2011
Ho inciampato e non mi sono fatta male
ANCORA CINQUE MINUTI
martedì 18 ottobre 2011
25 gennaio 2006
Casa mia.
Una mattina come tante, di freddi risvegli e parole biascicate nella fretta del vestirsi alla rinfusa.
Un telefono che squilla all'improvviso, bucando la coltre di silenzio del mattino, ad un orario per cui, per una tacita convenzione civile, nessun telefono può squillare, a meno che non sia un'occasione speciale.
D'un tratto tutto intorno a me si fa ovattato. Come se il mondo girasse al contrario, a rilento, nel vuoto. Tutto rallenta, tutto si ferma, immoto. Nulla, non sento più nulla. Se non quel telefono che squilla. La suoneria di un vecchio Nokia 3310 , la più classica. Un ritmo costante, un martello nella mente, che si insinua nel velo steso sulla casa dipinta d'ombra dai colori dell'alba.
Non sento più nulla, se non quel telefono; e il battito del mio cuore.
Sì, lo sento che prende a correre all'impazzata, a scalpitare nel petto come un cavallo selvaggio che vuole fuggire da quella consapevolezza intrinseca che non può confermare. Annaspo nella foga di strappare brandelli di parole alla conversazione di mia madre, che scoppia in pianto urlando e farneticando agitata, mentre le lacrime già le rigano il volto.
Devo andare, la mamma mi fa cenno di andare. Quasi mi spinge fuori dalla porta e il mio animo fa a pugni dentro di me, combattuto tra il desiderio perverso di sapere, e la necessità umana di fuggire da quell'incombente verità sospesa.
Esco di casa, quasi corro verso la fermata dell'autobus, arrivando così in anticipo rispetto al solito.
La mia mente inizia a viaggiare, persa nel turbinio dell'irrazionale. Mille varianti e possibili ipotesi dei più drammatici eventi turbinano nella mia testa, e scossa da un brivido provo quasi un effetto catartico nel constatare che in fondo, forse, si tratta di molto meno rispetto a tutto quello che immagino.
Eppure, ora dopo ora, quasi un angelo, o un demone, che si insinua lentamente dentro me e m'ispira innata certezza, sento crescere nel petto quella consapevolezza. Una frase ruota incessante nella mia mente, dove tento invano di cancellare il suo volto, di cancellare quel pianto di lacrime amare che consumano un corpo macchiato di giovinezza.
“E' morta Chiara.”
E poi arriva. Eccola.
Sono passate le ore. Una dopo dopo l'altra, con l'avanzare del giorno, avanzava la consapevolezza di ciò che avrei udito.
E ora, eccola.
Quella frase tanto udita nella testa e subito cancellata dal cuore, offuscata e mascherata da quella faccia irrazionale di noi che ci porta a credere, talvolta, in quell'impossibile che ci tiene vivi giorno dopo giorno.
Quella frase che, per quanto si senta alla televisione, si legga sui giornali e nei libri. Per quanto si senta dalle bocche degli altri, costringendoci spesso a fare facce contrite anche nelle più strambe occasioni, ecco per quanto sia nota, solo quando qualcuno la pronuncia guardandoti negli occhi, comprendi cosa significhi.
E da quel momento, da quell'esatto istante, ci sono altre mille cose, che non riuscirai mai a comprendere.
"Chiara è morta.
E' stata investita da un'auto, ieri sera in via Bezzi, con suo papà e sua sorella mentre andava dal dentista..”
Chiara è morta.
Ti rimbomba nella testa e ti chiedi cosa significhi e cosa dovresti provare. Perché per la prima volta nella vita non sai esattamente che cosa provi, che cosa senti, che cosa desideri. Non sai se ridere o piangere o fare finta di niente. Ti si chiude lo stomaco e fa strano mangiare, e hai come la sensazione che sia più buio, lì, fuori e dentro e te.
Pensi di capire la morte quando la sfiori, e invece forse è il momento in cui la capisci meno. Chiara dov'è? Sembra solo che sia partita per un viaggio, la sua assenza scolpita nell'aria ti sembra una momentanea coincidenza.
Esco per prendere una boccata d'aria, nel giardino.
Nevica, nevica da ieri sera, e non posso smettere di pensare che quella neve sia Chiara. Che sia la sua dolcezza mandata ad attenuare il pianto di chi senza tregua invoca il suo nome rivolto ad un corpo che non le renderà più giustizia.
Neve, neve che cade lenta.
Neve che volteggia e si ferma sospesa nell'aria attraversata da un pallido raggio.
Neve che sembra parlare, sussurrare al vento un messaggio perché lo scriva nel grigio di un cielo d'inverno, a due settimane soltanto dal mio compleanno.
Sono lì, immobile. Guardo quei candidi fiocchi cadere nella loro eterna danza lenta e innarrestabile, e all'improvviso la vedo: sua madre.
La mamma di Chiara avanza a fatica, le solite immancabili scarpe con il tacco 12 che affonda nella gelida neve. Una pelliccia scura l'avvolge, grandissima. Una pelliccia calda, che quasi pareva poterla nascondere dal freddo di un mondo svuotato di senso, e invece non riusciva. E anch'io sono vestita, avvolta per bene nel mio felpone invernale. Non ho freddo, eppure mi sento nuda.
Sono Vestita, e mi sento Nuda.
Spogliata della capacità di sorridere, spogliata della capacità di comprendere. Io, che avevo sempre pensato che il mondo fosse ai miei piedi e che ci fosse tempo per tutto. Io, che uscivo al mattino salutando a fatica perché mi alzavo nervosa. Io che pensavo che non fosse importante fare la pace o dire ti amo, perché si potrà fare domani. Io mi sento improvvisamente colpita, come un fiume in piena, da un'onda selvaggia di vita che mi attraversa quasi fosse una saetta caduta da questo immoto cielo. Io, per la prima volta, sento una forza intrinseca che si fa largo dentro di me e si aggrappa alla vita con tutta l'energia che erompe dall'anima.
Incontro il suo sguardo, e lo scontro di questo mio ardore che lotta inarrestabile contro la paura della morte, e di quella sua tristezza e solitudine che le corrompono il fondo dell'essere; la battaglia dei nostri sensi che cercano senza trovarla una risposta nel cielo, produce un vuoto nell'aria, che ferma il tempo, e toglie il respiro.
Chiara è morta, e mi attacco al suo ricordo, convinta che intorno a noi aleggi sempre, costantemente, la sua anima finalmente libera e selvaggia.
Francesca
lunedì 17 ottobre 2011
domenica 16 ottobre 2011
Nudità
Stipati tutti in piedi su quella bagnarola, che faceva la spola tra la nave attraccata al largo e il piccolo porto davanti ai nostri occhi, eravamo come clandestini imbarcati in un viaggio alla rovescia, dal continente al mare, dal presente al passato.
La miriade di cicale che frinivano all’unisono, in un crescendo quasi assordante man mano ci avvicinavamo alla spiaggia, era l’unica voce dell’isola. L’unico segno di vita. Neppure un’anima in giro, sotto il sole cocente delle due del pomeriggio.
Appena approdati in quella solitudine irreale, ci parve di essere non ospiti ma padroni di quel luogo. E non più costretti alla vicinanza coatta del viaggio, ci sparpagliammo per la spiaggia di sassi scuri, pronti a prenderne possesso. Con le nostre cose, la nostra presenza, la nostra invadenza.
Verso il fondo della baia c’erano due donne, due turiste che prendevano il sole completamente nude. “Bello – pensai – qua si può fare nudismo indisturbati”. Mi piaceva spogliarmi anche di quei minuscoli triangoli di stoffa che costituivano il mio esile costume da bagno perché era come togliersi l’abito per indossare una bandiera: quella dell’emancipazione, della libertà, della provocazione.
Per giorni colonizzammo l’isola piantando le nostre tende dove ci pareva, facendo casino alla sera in riva al mare e spogliandoci di ogni inutile necessità, abiti compresi. Gli isolani ci ignoravano. Giravano alla larga da noi. I pochi che incontravamo erano uomini, pescatori che partivano alla mattina presto per andare al largo e non tornavano mai prima del tramonto. Le donne dov’erano? Forse arroccate nel piccolo villaggio a cui si arrivava soltanto percorrendo a dorso d’asino il tortuoso sentiero che dal porto portava in cima al promontorio.
Noi non salimmo mai lassù. Per la spesa, ci accontentavamo di quel poco che trovavamo in un modesto baracchino alla spiaggia: uno sgangherato bar-ristorante-supermercato affacciato sul mare, l’unica concessione del luogo per i pochi turisti come noi che arrivavano di quando in quando all’isola.
Un giorno, proprio mentre ce ne stavamo là, con qualche arancino di riso nel piatto e qualche bicchiere di vino sul tavolo, udimmo uno strano lamento corale che si faceva via via più vicino, più intenso, più angosciante. Erano voci di donne. Dalla terrazza non vedevamo arrivare nessuno, e quella nenia ossessiva mi sembrava quasi un’allucinazione.
Ma a un certo punto, volgendo gli occhi verso il mare, notai una piccola imbarcazione che si avvicinava lentamente a riva. Avanzava a forza di remi, piano, piano, piano. Un unico uomo a bordo, e un unico particolare visibile: un immenso cuscino di fiori.
Mentre mi domandavo cosa mai stesse accadendo, dalla strada che conduceva al porto apparvero loro: le donne dell’isola. Tutte vestite di nero, dalla testa ai piedi. Le mani giunte sotto il petto, un rosario in mano. Venivano ad accogliere il loro defunto che arrivava dal mare, piangendolo con lugubri nenie interrotte soltanto da strazianti grida di dolore.
Camminavano a testa bassa. Penso che neppure ci avessero notati.
I loro lunghi abiti neri facevano a pugni con i nostri succinti costumi da bagno di tutti i colori. Il pallore dei loro visi, incorniciati dal velo che copriva i capelli, contrastava con l’abbronzatura della nostra pelle cotta dal sole.
Io, sopra il costume, indossavo un pareo. Me l’ero legato addosso semplicemente perché mi dava fastidio la pelle nuda che si incollava a quelle orribili sedie di plastica del bar.
Fra tutti gli amici, ero quella più vestita. Eppure mi sentivo nuda. Nuda e intrusa. Nuda e arrogante. Nuda e cieca. Nuda e sorda alla voce di quel luogo, di quelle donne, di quel mondo ancora antico ma non per questo meno degno di rispetto.
Black suede shoes
Le labbra contratte stringevano il filtro mentre la bocca si impegnava in lunghi e rapidi tiri. Piero teneva stretta la sigaretta tra le dita. Indossava un completo primaverile, dal tessuto morbido, una camicia bianca, che aveva slacciati gli ultimi due bottoni, e una cravatta, molle intorno al collo.
Con il suo paio di mocassini in pelle nera e dalla suola di cuoio duro, che risuonavano sul catrame, misurava il marciapiedi di fronte al portone con ampie e veloci falcate. Avanti e indietro.
Nella sua testa ripassava il discorso che si era preparato per Cristina, misurando con perizia rimostranze e ricordi, sensi di colpa e accuse, perdono e desiderio. Si lasciava trascinare dalle sue scarpe; dall'impatto secco della suola sul terreno e dal rintocco ipnotico provocato dal cuoio, dimentico del mondo che aveva intorno. Così non vide il bambino e la bambina che gli passarono accanto mano nella mano, non percepì il profumo di pane caldo che proveniva dalla panetteria all'angolo né udì quella canzone, che tanto gli piaceva, suonata dall'autoradio di una coupé che passava sulla strada, né tanto meno si accorse dello sguardo furtivo e curioso che gli lanciò la deliziosa biondina che accompagnava i due bambini. Era tutt'uno col suo obiettivo.
Avrebbe riconquistato Cristina. Era destino. Era scritto nelle stelle. L'avrebbe riconquistata perché lui lo voleva e perché così aveva deciso. L'avrebbe attaccata perché lei lo aveva tradito con quell'attore da quattro soldi ma alla fine l'avrebbe perdonata. Dopotutto anche lei gli aveva perdonato le sue scappatelle. Sarebbe stato magnanimo e comprensivo. Le avrebbe concesso il suo perdono.
Certo però che gli rodeva. Se ci pensava troppo aveva la sensazione che il sangue gli affluisse sotto lo sterno. Come si era permessa di fare quello? Di farlo proprio a lui? Cominciava a sentire come una bolla d'aria nello stomaco. Il respiro cominciava a venir meno. Lei avrebbe dovuto avere più rispetto della loro relazione, del loro legame. Perché non ci aveva pensato prima di farsi scopare come una troia? Mentre scopavano forse quei due avevano riso di lui. Chissà che parole c'erano state fra di loro. Il sangue sotto lo sterno cominciava a bollire. L'avrebbe ammazzata! Si voltò e cominciò a correre verso il portone ma il piede inciampò su qualcosa di morbido che lo fece scivolare. Piero roteò su se stesso, si inclinò paurosamente e picchiò il culo sul marciapiedi. Osservò i suoi piedi e si accorse, allora, di aver pestato una grossa merda di cane. Fu un attimo. Sentì le lacrime bagnarli gli occhi e il respiro come tagliuzzato da lame. Come se arrivasse dal pozzo della sua anima, un urlo disumano proruppe dalla sua gola. Si guardò intorno. Sembrava che nessuno lo avesse sentito. Contemplò ancora il mocassino; la merda lo impiastricciava un po' dappertutto. Rimase come sospeso per un istante e poi si sciolse in una risata larga e insensata. Allora si levò le scarpe, si rimise in piedi e s'incamminò verso l'angolo. Ci svoltò e scomparve.
sabato 15 ottobre 2011
Il signor Giacomo
Home sweet Home
Casa. Amata e odiata casa. Quante volte vorremmo scappare lontano; prendere e uscire e metterci alla guida, senza meta. Soli, soli con la nostra voglia di andare. Con l'orizzonte negli occhi e l'illusione di catturare quei sogni. Eppure è lì – Casa – è sempre lì che vorremmo tornare quando siamo lontani. E non importa che siamo in un'aula di scuola o in un cubo d'ufficio o dall'altra parte del Globo, quello che conta è che ci manca Casa. Casa Nostra. Quel nido accogliente dove si attacca furiosa una parte dell'anima ogni mattina quando varchiamo la porta per andare incontro al mondo.
Casa.
Casa non è un edificio; non è quel quadrato bianco con un triangolo rosso sul capo che disegnavamo all'asilo; non è tutto quello spazio che piccolo o grande hai curato, arredato, pulito, cambiato, ammirato. No: Casa è un qualcosa di tutto questo. E' un dettaglio, è QUEL dettaglio, che rende quel posto il TUO nido, il TUO rifugio, il TUO posto. Casa è una coperta, un cuscino; è quel peluche immenso che hai su una sedia accanto al letto, e anche se sei diventato grande ti fa sentire ancora quel fremito di quando eri bambino. Casa è un oggetto, una parete, un dipinto; una scelta che fa tuo quello spazio. Ed è quel dettaglio, ciò a cui pensi ogni volta che sei lontano e vorresti trovarti lì: nel tuo rifugio, pieno dei tuoi demoni e delle tue tristezze.
Ho un ricordo del mio periodo di adolescente convinta, di quando volevo dimostrare al mondo di essere a qualcuno andando a ballare in discoteca. File interminabili di coda, perennemente – non si capisce poi perché- sotto una pioggia infernale; il carnaio all'ingresso, il prezzo che non è mai quello previsto; le lotte e i gomiti nelle costole al bancone per le borse e i giubbotti.. L'ho capito subito che non faceva per me quell'ambiente, e perennemente arrivava un momento in cui, per vincere lo sconforto, immaginavo. Immaginavo casa mia, immaginavo che la serata fosse finita. Di più: mi immaginavo sotto il mio piumone caldo e variopinto, nella penombra della mia stanza. Ecco: immaginavo la mia casa, la mia camera; quel raggio di sole o di luna o di polvere di stelle, che ogni giorno, indipendentemente dall'ora, buca la persiana e colora di polvere sospesa il torpore del mattino.
Questo è casa mia: un dettaglio. Un filo che tiene insieme tutto il resto, tutti i singoli particolari fortuiti o accuratamente scelti. Come quando da piccoli si univano i numerini sulle riviste per scoprire l'immagine. Così mi piace immaginare il mio nido: come un puzzle che si compone di innumerevoli piccoli pezzi; come un incastro che racconta una vita. E in questo incastro, non può mancare un elemento fondamentale: il motore amore.. La mia mamma, il mio filo intrecciato. Lei è casa, e l'odore del suo golf beige larghissimo che tiene caldo d'inverno; l'odore che mi lascia addosso la mattina quando mi abbraccia prima che esca. Pensare a “casa” è pensare a mia madre, perché senza di lei le silenziose parole sussurrate dalle mura alla notte..avrebbero un suono completamente diverso.
Francesca Casagrande.
venerdì 14 ottobre 2011
Perchè tanto amore per lo struzzo?
Mi sveglio e penso a loro, preparo la colazione e non mi capacito, esco di casa e dimentico di chiudere a chiave, sempre loro. In auto per poco prendo la tangenziale ovest invece di proseguire dritto. Non approfitto del primo parcheggio che l'occhio ha registrato senza il consenso dei miei neuroni che sono fermi a ieri sera. Ma perchè gli struzzi sono oggetto di tanta curiosità? Le penso tutte. Giochini erotici per cocainomani annoiati dal solito sesso ? Mercato arti per maglifici "arti-gianali" cinesi? Insomma fino a quando nn sono arrivata in ufficio non mi sono data pace. Ho chiesto aiuto ad internet e mi si è aperto un mondo:
Bastano solo 27 struzzi per poter rifare gli interni della vostra automobile.
Lo struzzo, adeguatamente spennato, può diventare un efficacissimo spolverino.
La bistecca e il frappè di struzzo sono varietà culinarie molto ricercate per le rinomate capacità lassative.
Gli struzzi possono raggiungere velocità fino ai 70 km/h: compratene uno e divertitevi a gareggiare con i vostri amici come fanno i nativi dell'Africa.
Negli anni Venti, andavano di moda i cappelli di penne di struzzo. Ormai è un tormentone caduto abbastanza in disuso, ma sono comunque un ottimo metodo per sembrare trasgressivi.
Il loro cuoio è ottimo per la fabbricazione di struzzi.
Lo struzzo può essere usato al posto dei cani guida per ciechi.
Gli struzzi sono morbidosi e per nulla aggressivi: regalane uno ai tuoi figli!
Gli omogeneizati Mellin di struzzo fanno crescere i bambini sani, forti e paraplegici.
Con l'avanzamento tecnologico, è molto probabile che degli struzzi condurranno le unità militari pesanti nelle future guerre; ci sono già casi documentati di operazioni balistiche USA, con a capo questi sanguinosi pennuti che, non avendo nulla da perdere, si gettavano sui nemici con una notevole furia omicida.
Ohhhh! Adesso sono in pace con il mondo.
Occhio della dea: Premiazione concorso
Un cesto di noci
Il salone era illuminato da eleganti lampade che gettavano la luce in ogni angolo.
Al tavolo lui stava divorando un delizioso filetto di manzo accompagnato da un'abbondante porzione di saporite patate al forno. Ai bocconi di carne alternava lunghe sorsate da un calice ricolmo di un superbo vino rosso. Di fronte a lui, separata di una barricata di bottiglie, bicchieri, piatti, vassoi e cestini, lei mangiava assente dei finocchi al vapore infilzandoli con la forchetta che teneva nella mano destra, mentre con la sinistra si arricciava una ciocca dei suoi lunghi capelli biondi. Faceva fatica a sentire quello che lui le diceva in quel momento. Sembrava che fosse intento a parlare di qualcosa che suonava come extension, o forse traction. Parole che lei doveva conoscere ma di cui in quel momento non riusciva a cogliere il senso.
Lui la voleva sempre in forma e sempre tonica, le diceva: “ se mi ami davvero non dovrebbe essere difficile”, e lei faceva di tutto per accontentarlo. Non voleva che si mettesse a guardare le altre e non voleva che le altre risultassero meglio di lei in un confronto.
Così si sparava tutti i giorni ogni genere di esercizio: leg extension, leg curl, affondi, hack squat, peck back, croci piane, croci a 45 gradi e altri ancora. Tutto per avere un fisico tonico, una paio di tette sode e due chiappe di marmo.
Doveva restare concentrata. Restare concentrata sul non fissare il piatto del compagno. Altrimenti quella sera avrebbe ceduto, se lo sentiva. Si mise allora a guardare gli altri clienti del ristorante, la postura con cui sedevano, i gesti delle mani quando conversavano e quando.....prendevano dal piatto il loro cibo. Non era possibile. Non era possibile sfuggire al subdolo richiamo tentatore del cibo, così tornò a volgere lo sguardo al compagno che in quel momento, ultimato il suo filetto, stava ordinando una porzione di torta ripiena di crema al cioccolato. Dovette prendere un lungo respiro per non perdere lucidità, ma non poté nulla per quello che successe dopo. L'occhio del compagno, mentre guardava allontanarsi il cameriere con la sua ordinazione, incrociò la silhouette di un’altissima valchiria che, fasciata in un lungo abito aderente, attraversava in quel momento il ristorante. Forse l'uomo non ci pensò neanche quando pronunciò quella considerazione - “Quello si che è sodo” - ma mal gliene incorse.
La pazzia non si manifesta sempre come l'eruzione improvvisa di un vulcano; a volte ha l'aspetto quadrato e matematico di una punta di diamante su un vetro.
La compagna dell'uomo richiamò il cameriere e ordinò un cestino di noci. Sebbene la richiesta fosse insolita, di fronte alla determinazione calma della donna, il personale si attivò per esaudirla.
Una volta che il cestino fu sul tavolo, la donna si alzo in piedi afferrando una noce dal cestino e avvicinandosi al fidanzato, con tono amorevole gli disse: " Mi sembra che tu abbia le idee un po' confuse, amore. Ma ho voglia di darti una mano. Ti aiuterò a chiarirti. Devi avere fiducia, caro! Osserva bene quello che ti mostrerò e non dimenticarlo. E' raro vedere un culo sodo come il mio.....un culo che rompe le noci!”. E quasi che si aspettasse davvero di vedere una noce aperta con il culo, come si racconta nelle barzellette, l'uomo non vide nulla ma poté soltanto sentire il freddo della lama del coltello mentre gli apriva lo stomaco.giovedì 13 ottobre 2011
Storia di somari
15 ottobre, tu che fai???
La storia degli asini che sta circolando in rete è limpida come le favole di fedro...
Non l’hai ancora letta? Eccola qui....
Un uomo in giacca e cravatta è apparso un giorno in un villaggio. In piedi su una cassetta della frutta, gridò a chi passava che avrebbe comprato a € 100 in contanti ogni asino.
I contadini erano un po’ sorpresi, ma il prezzo era alto e quelli che accettarono tornarono a casa con il portafoglio gonfio, felici come una pasqua.
L’uomo venne anche il giorno dopo e questa volta offrì 150 € per asino, e di nuovo tante persone gli vendettero i propri animali.
Il giorno seguente, offrì 300 € a quelli che non avevano ancora venduto gli ultimi asini del villaggio.
Vedendo che non ne rimaneva nessuno, annunciò che avrebbe comprato asini a 500 € la settimana successiva e se ne andò dal villaggio.
Il giorno dopo, affidò al suo socio il gregge che aveva appena acquistato e lo inviò nello stesso villaggio con l’ordine di vendere le bestie a 400 € l’una.
Vedendo la possibilità di realizzare un utile di 100 €, tutti gli abitanti del villaggio acquistarono asini e, per far ciò, si indebitarono con la banca.
Come era prevedibile, i due “uomini d’affari” andarono in vacanza in un paradiso fiscale con i soldi guadagnati e tutti gli abitanti del villaggio rimasero con asini senza valore e debiti fin sopra i capelli.
Gli sfortunati provarono invano a vendere gli asini per rimborsare i prestiti. Il “corso” dell’asino era crollato. Gli animali furono sequestrati e affittati ai loro precedenti proprietari dal banchiere.
Nonostante ciò il banchiere andò a piangere dal sindaco, spiegando che se non recuperava i propri fondi, sarebbe stato rovinato e avrebbe dovuto esigere il rimborso immediato di tutti i prestiti fatti al Comune. Per evitare questo disastro, il sindaco, invece di dare i soldi agli abitanti del villaggio perché pagassero i propri debiti, diede i soldi al banchiere (che era, guarda caso, suo caro amico e primo assessore).
Eppure quest’ultimo, dopo aver rimpinguato la tesoreria, non cancellò i debiti degli abitanti del villaggio né quelli del Comune e così tutti continuarono a rimanere immersi nei debiti.
Vedendo il proprio disavanzo sul punto di essere declassato e preso alla gola dai tassi di interesse, il Comune chiese l’aiuto dei villaggi vicini, ma questi risposero che non avrebbero potuto aiutarlo in nessun modo poiché avevano vissuto la medesima disgrazia.
Su consiglio “disinteressato” del banchiere, tutti decisero di tagliare le spese: meno soldi per le scuole, per i servizi sociali, per le strade, per la sanità … Venne innalzata l’età di pensionamento e licenziati tanti dipendenti pubblici, abbassarono i salari e al contempo le tasse furono aumentate. Dicevano che era inevitabile e promisero di moralizzare questo scandaloso commercio di asini.
Questa triste storia diventa più gustosa quando si scopre che il banchiere e i due truffatori sono fratelli e vivono insieme su un’isola delle Bermuda, acquistata con il “sudore della fronte”. Noi li chiamiamo fratelli Mercato.
Molto generosamente, hanno promesso di finanziare la campagna elettorale del sindaco uscente.
Questa storia non è finita perché non sappiamo cosa fecero gli abitanti del villaggio. E voi, cosa fareste al posto loro? Che cosa farete?
Se questa storia vi ricorda qualcosa, ritroviamoci tutti nelle strade delle nostre città e dei nostri villaggi sabato 15 ottobre 2011 (Giornata internazionale degli indignati). E fate circolare questa storiella.
...la casa in fondo alla strada...
mercoledì 12 ottobre 2011
ma ce l'hai un pò di stoffa?
A me piace sognare di avere una casa di stoffa.Si si vorrei una casa con i muri ricoperti di lino, con le porte rivestite di velluto, i divani tutti di broccato.
"Per esempio non le interesserebbe un bel golfino di lana di alpaca giallo? Sono così morbidi i nostri golfini!"